Sean… Sean

21 Dec

 

Chi è Sean Penn?

 

Stefano Falotico, il qui presente Genius lo “evinse” così.
Perché Sean ama i “vinti” ma ho una Sguardo “pastore” da buon vino e ottime annate.

 

 

Un falco nella Notte, non acchiappabile, mettiamola così, quasi etereo, come la luccicanza di anime in viaggio. Questo è Sean, gli elementi indivisibili della Natura, con la quale si fonde.

Aspirandone   la vita, la imprigiona nei suoi occhi, la sente.

La canalizza nelle vie respiratorie sino a deflagrarla nei gesti, nella passione, nel Cuore. Da lontano, osserva. Storie di uomini “veri”, ribelli per necessità, perché crollano i nervi e tutto il resto con loro.  Una paralisi emotiva, che “comatizza”.

Qualche frase di troppo, un pugno, un livido, dolori fisici e intestinali.

Lupo solitario, storie di uomini al “bivio”. Di uomini che odiano se stessi, ma se si uccidono…

Tre giorni per  la  verità,   riflessi(oni)  alcolici/coliche,   nel traffico

“mesmerico” di bei ricordi, quando si era felici, anche di poco.

 

La promessa, una vita che non ha più significato, bisogna darle un senso, una direzione che riappacifichi   il tormento. Di un buio esistenziale. I dadi, il caso, la frattura delle tempie, la “pazzia”.

Into the Wild, una scelta assurda, vivere in una non vita, a contatto con la foresta, il  tramonto libero  dallo  smog  e dal chiasso.

Le parole nitide di un “Perché?”.

 

Sean, un Uomo difficile, ombroso che chiede alla sua Donna se lo ama per ciò che vede, un attore di Hollywood, o per ciò che è.

Un Uomo come tanti, con una ruga e uno Sguardo infrangibili. C’è n’è di peggio, gente che si finge amica, lavora e poi marcisce. Rabbuiandosi. Gente che corrode, erode, guasta, si affila.

Vieni travolto dal Fato. Immutabile.

Formicolante.

 

Giocondo tramutò in pianto, come un trucco che si  scioglie, macerando  la pelle.

 

Anime bucate, che spendono i loro ultimi soldi, la vanità residua in furti, in dozzinali inganni per turlupinare  il debole.  Deboli, appunto, stritolati dal Sistema, sempre fuori giro, schiavi dell’ipocrisia mendace, del lauto guadagno che, “divaneggiante”, ruba le tue viscere, mangiucchiandole, le spolpa, le “deossifica”.

Il Cinema di Sean Penn è un giro tortuoso tra le nevi e i ghiacci, sudato come un animale in gabbia.

Si dimena, salvo venire graffiato, da unghie rapaci, crudeli come avvoltoi che fremono per un po’ di sangue, leccano, uccidendoti.

C’è n’è di peggio, persone che lavorano ed educano male i figli.

 

Li picchiano, poi altri vanno via, o meglio svaniscono,  come onde del mare, ascendenti, ma poi t’inabissi, le capti, le fotografi mentre aspirano l’alba. Mentre la vita intona il suo lamento. Che cosa sapete di me? Di quel che tengo nascosto. Di quelle ombre, imprendibili, che battono lì dentro? Invisibili agli occhi altrui.

Sussulti che miagolano, come amori invernali.

Nella baia “irrespirabile” di un mattino tenue. Mentre assapori la vita, mutevole, nel suo indistricabile manto, nel suo velluto discinto.

Ti butti addosso un po’ di fango e te lo spalmi dappertutto. Sogni, prima che li offuschino in carte stagnole antiodoranti.

Dietro le croci suda la verità, le camere in cui si annidano segreti insondabili. Dove i figli vengono castrati, come se non avessero spazio a una pace libera, e furtivi spiano le loro mosse, mentre tutto rivive. Gioivo, con naturalezza e libertà.

Da quel Giorno venne tutto spezzato. In monocorde utopie della mia mente. Che sfasa… sono personaggi spesso sopra le righe, eccessivi come alcol dei giorni migliori. Quando tutti bussano alla tua porta e ti porgono carezze “ammorbidenti”, lisce, come le gonne di donne dalla lussuria irriverente.

In cui godi, aprendoti alla vita, prima del buio.

 

Sean Penn rappresenta lo spirito proletario della gente comune, dei combattivi, che volenti o nolenti devono lottare, a costo di martoriarsi. O delle persone che, causa “molte cose”, si trovano nei guai, come conchiglie, come shake di un barista su di giri.

Sean per gli  amici  nasce come attore, subito  dopo  diventerà regista, duro, arrabbiatissimo, che si scola birra & sudore e se ne inebria  con  imperturbabile  spocchia  da  lupo  di mare. Ritrae uomini  stanchi,  dal  volto  segnato, dai  casi,  dalle  coincidenze andate male, dai giochi beffardi di un destino amaro, o meglio dolceamaro.

I suoi uomini giocano a carte con la morte, con l’ignoto, dietro l’angolo, pronti a darti addosso, al  primo passo falso,  spietati come leoni senza cibo. Già caduti, nella polvere, mentre gorgoglii di carne, amplessi famelici ti strizzano l’occhio. Mentre per altri, là fuori, la vita esonda, enfiata. Enfatica.

Sean Penn, un attore rissoso, “volgare” nei suoi anatemi, burrascoso, una “tempesta” che gorgoglia, esatto gorgoglia, questo termine che si riempie  e si sfoga con lamenti, singhiozzi, urla innocenti. Tra foreste, condannati a morte e pipistrelli che ti baciano coi loro “vagiti”.

Una tempesta che ti agita, scuote, e calma poi si riposa.

 

Un salice piangente, ma(e)linconico,  tremendamente arrogante. Superbo, odioso, anticonformista  come una ballata dolceamara (ecco che torna) di Bruce Springsteen, colui,  l’alter   ego  che dà forma e sostanza allo “strazio”,  poetico, ingenuo, conturbante, trasgressivo,  veloce delle  sue immagini.  Che le stuzzica con accordi, con ritmi leggeri, come guance di un bambino nudo.

 

Sean è come Springsteen, un’anima tormentata, implosa, un volto livido, “traumatizzato” da scelte anticonvenzionali, enigmatiche, “polverose”,   è  un  coraggioso,   un   brave,   come  dicono  gli americani,  che  respinge  l’altro  e  poi  lo  abbraccia, lo  copre d’insulti e poi lo stringe a sé, lo mortifica per paura di mostrare i suoi sentimenti.

È un attore/regista, un artista “schizofrenico”, capace di mille sfumature, nevrotico, scattante, saettante, saltellante.  Energico, un urlo che grida rabbia, dolore, un cinico neoromantico, camaleontico,   trasformista,   “alienato” dal suo  Tempo,  fuori moda, contro.

Un personaggio scomodo, antipatico, avulso dalla contemporaneità.

Un occhio  a parte, unico,  sconvolgente  nella  sua brillantezza “triste”, fulgida eppure misteriosa, un corpo anarchico, a volte grottesco.

Un “cattivo” incappucciato nel ruolo infelice di cavaliere dai mille volti.

Infagottato dentro una maschera da “acido presuntuoso”, è invece un personaggio crepuscolare, dinamico  nella sua poliedrica mutevolezza.

Disperato, allucinato, “fenomenalmente arrembante”. Scontroso, brusco, violento, personale.

Un Cinema  unico,  secco, capace di un proprio stile,  laddove Michael Mann è  veloce, schizzante,  da  Formula  Uno,  come gomme di seta sull’asfalto,  come sguardi di lince, dove Francis Coppola è lisergico, magmatico, pastoso, favolistico, Sean Penn è duro, ribadiamolo, iracondo,  glaciale nel suo romantico cinismo.

Dentro traiettorie di anime già morte, illuse  in  un’“affliction” permanente. Senza riscatto, gireranno solo parole nella mente, parole di grazia e giustizia, come gabbiani al tramonto.

 

La sua “filosofia” di vita è questa:   se piaci a troppe persone, vuol dire che stai facendo qualcosa di sbagliato.

Il suo Sguardo (ancora Lui), all’apparenza ingenuo, come tuo zio, come un bicchiere di vetro sul comodino.

Non può piacere a tutti, è “vecchio”, raggrinzito, orrendamente fuori moda, con tante cose dentro che dovevano rimanere lì, invece scuote le coscienze,  sa colpire dove deve, quasi investito di una missione, di un compito maieutico.

Combatte solo, con le rughe, le palpebre stanche, l’occhio cadente.

Sean Penn, un volto “buono”, un volto che riflette la sua Natura, un Uomo, una canzone, una lunga canzone.

Chi è Sean Penn?

Cosa sappiamo di lui, oltre al suo volto, secco come l’argilla del

Texas?

 

Del suo occhio, spregiudicato? Da dove proviene il suo carisma? Quell’energia?

Quasi scaturisse come un geyser!

 

A volte Sean sembra un padre di famiglia in vacanza premio a cui improvvisamente  si blocca  la vita, per un incidente, un destino che manca il  bersaglio,   per un tradimento inatteso,  per porte girevoli. Qualcuno  ha sparato a suo figlio, forse, ecco perché sei triste, ecco perché qualcosa  non  va, o  forse qualcuno  ti  ha combinato un brutto scherzo, promettendoti dal primo Giorno della tua nascita un Mondo migliore.

 

Ma sbandi, acceleri, spingi con foga e disperazione, lasci che il volante s’involi, che muta e puttana, la Notte, ti assorba nel suo silenzio.

E tra queste strade, infinite, tra le sfumature di neon caldi, ritrovi i vecchi amici, un’amante perduta, un sogno, e chissà dove giaceva, in quale anfratto labirintico.  Ora, timido, ti chiede scusa.

Lo perdoni.

Lo estrai e lo annusi, ancora profuma, eri sepolto nel tuo dolore, nelle tetre oscurità di un Cuore di pietra che rideva a tratti, balli cieco, tra gli schizzi di  un’emozione  epidermica.  Ti dipinge martire. Cristo sorridente. Clown ambiguo.

Così, senza aggiungere altro, se non te stesso.

 

La tua vita infranta, un  po’  sciocca, troppe  volte.  Che non s’arrende. Va avanti, alla ricerca di una Luce. Di un breve spiraglio.

 

 

Im a little down under, but I’m doing O.K. Got a little lost along the way

Im just  around  the corner to the light of day

Just around  the corner to the light of day Just around  the corner to the light of day Just around  the corner to the light of day

 

Forse questo dolore nasce da lontano, dove i cervi bagnano le strade col loro alito.

Chi è Sean Penn?

 

Un Uomo a cui non manca niente che dà voce agli umili, agli indifesi, ai pazzi, ai drogati, a chi combatte e muore nella fame, tra gelosie fratricide e pugni.

Gente che compie sforzi incredibili per rimanere. Vivi.

Vite frantumate, tranci.

Vite appese a un filo, corrose.

Di traumi, di morbide labbra che diventano secche.

Tu, qui esisti, stammi accanto, nel freddo, insensibile a tutto.

Forse Sean fa le cose per dimostrare qualcosa, per emanciparsi

dalla sua “eleganza”, per diventare torbido, amarognolo, stanco di chewing-gum e baci simpatici.

Sean possiede  un dono,  non  l’ha  mai  asciugato, è sempre lì, pronto, la capacità  d’indignarsi, di provare rabbia, senza sintetici cotton fioc, sporco, volgare forse.

Sean sostiene  gli  “insostenibili”,    le  anime   perse,  quelli  che crollano o sono già caduti da Tempo, sepolti dalle macerie di una vita “indignitosa”, in cui bestemmi senza che nessuno oda il tuo grido, smorzato per timore della vergogna.

Le vite “diverse”, di chi accende le candele in chiesa e prega per un  figlio  malato   per  ritrovare la  speranza, l’illusione  che  li rinvigorisca nei giorni in cui sembra spegnersi tutto, gli “aridi”, gli  antipatici, quelli  che te la  sbattono in  faccia, senza girarci troppo,  quelli  che  per  troppa  bontà  non  reagiscono  mai,  e quando lo fanno vengono presi per violenti, per “fuori di testa”, per invasati.

 

Per “gentaglia”  che starnazza, che rivendica diritti che doveva conquistare come tutti, la maggioranza,  spesso cafona, tritante, torturante, per chi si oppone, ha il coraggio  delle proprie idee, di patire sulla propria carne, come libellule senza ali.

Piange Sean con la sua risata strafottente, immerso nel livido immenso di una Notte senza fine, in cui gli porgono carezze, per ringraziarlo.

Quasi fosse un santo, Sean.

Nota gli sguardi, li (ap)punta, li incide. Dove tutto non coincide.

Soffre, lancinante, teso come uno spasmo acuto, come crisi isteriche che dilaniano le viscere.

Storie di uomini, come noi.

 

Restituisce la voce a chi ha il “torto” di lamentarsi, a chi genuflesso chiede a Dio che gli dia una mano. Che non sprofondi nella melma. Chiede un abbraccio sincero.

Guarda il suo nemico, lo sfiora e affonda le unghie, un predatore. Apre gli occhi a chi non vede, a chi cieco sbatte la testa.

 

 

Un poeta che forse pensa come me.

 

Sto bene finché non affronto la realtà, appena solo la annuso, finisco per sniffare. Ci sono i drogati, i deboli e chi è malandato.

Io appartengo a questa fascia, e ho “tutto”.

Un  televisore  piatto,  non  è al  plasma,  ma le  immagini  sono cristallo nitido, un lettore Dvd comprato coi risparmi, ma se non ci fosse chi  mi  mantiene e mi  da questi “agi”, non so cosa avverrebbe.

Finirei in carcere, ci scommetto, poco ci manca, una persona che cola, si scola.

Il mio Sguardo vuoto, senza il mio sorriso entusiasta.

 

C’è chi è ricco e se la gode mangiando sugli altri, su chi sta peggio, chi è povero e lotta tirando fuori le palle.

C’è anche chi non ce la fa.

 

Il Mondo di chi dipinge per sentirsi un po’ meglio, per tirarsi e non stirarsi, il Mondo di chi vive nel suo di Mondo, chi concepisce un’idea e sbanca, chi vince alla lotteria e chi aspetta un autobus, solo  per un altrove, più mistico, come lo immaginò.

Penn dà luce a questo Mondo. Lo affronta a muso duro.

 

 

Sean Penn da Los Angeles e figlio di artisti. Il padre Leo, un regista televisivo.

La madre, Ellen Ryan, invece, attrice.

 

Strada facile e spianata? Per nulla,   lui cercherà sempre le traiettorie meno banali.

 

Ora, la prima domanda che ci si pone, è questa:  perché Sean diventerà Sean, cosa segna il suo cammino, quali le scelte che lo condurranno a esser così prematuramente maturo, irrispettoso della frivolezza, infrangibile nelle sue durezze come marmo levigato?

Perché intraprende la difficile strada del “poco sopportabile?”.

 

In effetti, all’inizio, Sean prende il Cinema   come gioco, quasi passatempo, se ne avvince.

Partecipa con passo leggero a commedie adolescenziali di scarso conto, presta la sua faccia da simpatico birbante a registi “di là a venire”.

Tale   Amy   Heckerling   con   lo   spassoso   Fast  Times   at

Ridgemont High e Racing with the Moon.

I “filmettini” sono godibili, da serata con gli amici.

 

Poi, sotto la guida protettiva di mentori come Brian De Palma, si plasma, fino a diventarsi e inventarsi.

La burrascosa relazione con Madonna, cantante all’epoca all’apice del successo e della fama mondiale, non lo sfama. Si tratta di un film “guilty pleasure”, Shangai Surprise, davvero, davvero trascurabile, quasi una macchia.

È con Casualties of War che comincia a farsi notare a livelli più (pre)potenti. Il ruolo è quello di un ufficiale pazzo, stupratore e violento. Calza a pennello per la parte, per via del suo volto da cane bastardo, o è Lui, sempre lui bravo.

È presto per dirlo, troppo.

 

Il  film  è  uno  dei  meno  riusciti di  De  Palma,  didascalico, pressappochista, “parzialmente scremato”.

Non commuove né indigna, rimane un atto d’accusa stilisticamente perfetto. Ma senza nerbo, senza quell’incisività che marchia le opere importanti.

Meglio l’anno prima con Colors dell’“easy rider” Dennis Hopper, un film sporco come la birra. Granuloso come un orgasmo senza Cuore.

 

Un film che parla di corruzione, di sberle in faccia, di botte, di piedi scalzi.

Un film  fuori (dal)  Tempo, anacronistico,  che non  riscuote i favori della  Critica, viene  messo alla  zona “Non  va bene per oggi”.

Ma Sean impara a menadito la lezione, l’amicizia  col “madman” Hopper lo aiuta,  gli procura sostegno morale per The Indian Runner, il suo esordio come regista.

Il film stupisce, lascia a bocca aperta, inutile raccontarsela, a soli

30 anni Penn sf(r)onda le barriere di genere, si personifica  nella sua visione del Mondo. Da lì, da quel punto esatto, rimarrà se stesso, coerente a quell’etica drammaturgica, a quel modo subito riconoscibile di filtrare la realtà.

 

È  un film  forte come un leone  della savana, ectoplasmatico, persino orrorifico nel suo clima allucinatorio.

Un  film  che  passeggia   tra  le  note  ispirate   della  splendida

“Highway Patrolman”, una ballata dolceamara da blood brothers.

 

 

We played king of the mountain  out on the end

The  world come chargin up the hill, and we were women and men

Now there’s so much that time, time and memory fade away

We got our own roads to ride and  chances we gotta take

We stood side by side each one fightin’ for the other

We said until  we died we’d always be blood brothers

 

 

Now the hardness of this world slowly grinds your dreams away

Makin a fool’s joke out of the promises we make

And what  once seemed black and white turns  to so many  shades of gray

We lose ourselves in work to do and bills to pay

And it’s a ride, ride, ride, and there ain’t much cover

With no one runnin by your side my blood brother

On through the houses of the dead past those fallen in their tracks

Always movin’ ahead and never lookin’ back

Now I don’t know how I feel, I don’t know how I feel tonight

If Ive fallen ‘neath the wheel, if I’ve lost or I’ve gained sight

I don’t even know why, I don’t know why I made this  call or if any of this matters anymore after all

But  the stars are burnin bright like some mystery uncovered

Ill keep movin’ through the dark with you in my heart

My blood brother

 

Una canzone che pone l’accento sull’empatia simbiotica di due fratelli senza baricentro, con la saliva di chi non suda.

Come il Tempo che ha spezzato le illusioni di un sogno.

 

Era lì, l’avevi quasi raggiunto, ti è sfuggito di mano, come sabbia perlacea.

Ti rimetti in forma fratello, ti liquefi in questa Notte. Ubriaca come un angelo senza più Dio.

Emozioni vibranti. Anch’io mi sdoppio.

Parlo, interseco varie congiunzioni.

 

Opera prima, lucida, impressionante, vividissima. In nuce tutto Sean Penn, la  rabbia,  le  scazzottate a fin  di bene, le  bevute aspettando l’alba, il  fegato che scoppia e brucia, il  Tempo che immutabile trascorre, uccidendo i ricordi, la vita che (se ne) va, imbottigliando  in una camera a gas  ogni attimo di luce. Un film crepuscolare come un suicida che non vedrà il Giorno, tiepido, caldo come il seno di una Donna coraggiosa, sporco come un destino finito male ma ancora in piedi.  Suonano le note di Springsteen, accarezzano la neve, le facce sgualcite,  l’immutato che è già cambiato.  Lì non ci sono più prati ma c’è un edificio, dove la civiltà ha ucciso i sogni dell’infanzia, le corse spensierate che premevano sull’asfalto. Adesso non corri più, rimani dentro l’abitacolo di una macchina e sfrecci a gran velocità, annebbiando i traumi, annebbiato.

(D)entro una forma delirante, pastosa.

 

Il Cinema di Sean Penn è come uno sparo nel buio, colpisce, tramortisce, lascia  ferite profonde, laceranti,  lascia  gridare, un sibilo potente, straziante.

Mentre la vita scandisce il suo ritmo e Springsteen vive dentro questo western di anime.

 

Un bagnarsi lento, mesto, il sapore incantato dei ricordi, uomini che si scambiano effusioni con lo Sguardo, dentro qualcosa che sfuma. In un locale di spaventapasseri.

Un attimo congelato che ritorna.

 

Un lento-potente “Cuore selvaggio”, lentamente ascendente, fra la luce bianca,  il sapore lieve della Notte e le tenebre dell’inquietudine.

Come una strada lunga, mal asfaltata, illuminata solo dai fari. Attorno la vita gira, i cani abbaiano e un latrato sfreccia lontano. Notte pensierosa, tribolata.

Prendo carta e penna, cerco di dare un senso al crocevia immaginativo che percuote/scuote la mia anima,  buia, tormentata.

Mi lincia, lancinante, allucinante.

 

Un dolce, docile, cristallino sbalzo in qualcosa di meno recettivo, uno stato di trance, inaudito, non diagnosticabile.

Opaca lucentezza…

Parole confuse, deliri grotteschi che ammorbano il mio respiro. Questa mia tristezza melanconica che s’interroga, e mi vogliono

“cieco” per impedirmi di cambiare le cose, anzi corsia.

Sarebbe un delitto tacere, anzi obbligarsi al mutismo. Spegnermi.

 

Meglio rendermi un relitto, un derelitto ché affievolire l’ardore, la curiosità accesa che pulsa nelle vene, questo sangue vivo. Un flash che mi apre, con lo stomaco in ebollizione. Devo mantenermi giovane, devo scappare.

Fuggire da quest’agonia.

 

Prego, adombrandomi in  che mi  dia fiato  per  non morire, volare, correre, danzare.

Questa visione esoterica, meravigliosa che abbaglia le mie iridi, le incendia, e mi scoraggio, poi nuovamente avvolto dentro i miei ricordi.

Come non fossi mai nato, come se ieri fosse domani.

È un Cinema che ama, forse troppo come una sigaretta. Come chi non si dà mai per vinto.

Perdonami  se sono pazzo,  pare che ti sussurri…

 

 

Well I went out and I jumped  in my car and  I hit the lights

Well I musta done one hundred and ten through Michigan county that night

 

 

Se non so vivere. Se crollo.

 

 

Dopo quest’esordio inaspettato, sorprendente, entra come attore con la  A maiuscola  nel leggendario,  fiammeggiante  Carlito’s Way, datato 1993.

Ha modo di rifarsi delle malelingue, e di chi seppe solo blandirlo per la trascurabile  parentesi  del mediocre We’re  No  Angels, dove però già  seppe sfoderarsi  in  campionari  “grotteschi”  da istrione. Un film in cui ha modo di allenarsi, di sperimentare la sua versatilità.

 

Ma torniamo a Carlito.

 

Nel film di De Palma è grande, un avvocato corrotto, truffaldino, sporco, rissoso, preda d’istinti famelici, in cui non gli basta più niente.

Difende la causa di un cliente “importante”, lo tira su, lo salva, salvo poi incasinarlo.

Perde  la  testa  Sean, non  ci sta  dentro,  e  alla  fine  scoppia, tumefatto nel suo dolore.

Bang, viene ucciso sul letto d’ospedale, da una pistola vendicativa. Bang. È tutto finito, quel sogno, quel sogno (non) vola alto. Sfuma, come l’atmosfera languida di un Paradiso artificiale con

ballerine sulla spiaggia e un ritmo caraibico, profumi di sale, di

ultimi respiri.

 

 

Perché l’hai fatto Sean?

 

Potevi avere tutto, anche la stima di un grande amico, un ex combinaguai ora pulito, nuovo come Natale sotto la neve.

Perché?

 

La tua voglia, irreprensibile.  Hai osato troppo,  sei diventato vizioso.

Sorridimi amico, non sghignazzare come tuo solito. Come sei cambiato Sean…

Nel 1983 pestavi sangue, saltellavi tra le pozzanghere, arruffato come un destino infranto.

Eri un “bad boy-s”.

Quell’occhio malconcio, malinconico, tremante.

Fremevi per un tocco di giustizia, per un limpido petalo, per un

Mondo che non ti stritolasse.

 

Come in At Close Range, tuo padre, ne sei figlio, non potevi ribellarti.

Reagisci   troppo   tardi, quell’occhio   che  si  dischiude   in   un sanguigno-azzurro grido catartico.

Fissi il tuo nemico, il tuo “miglior amico”.

Hai vinto tu, l’innocenza che castiga la mostruosità. Ma, alle volte, niente è più come prima.

Una Notte violenta, accecante.

 

Hai stuprato una povera ragazza. Ti arrestano, macchie di sangue sulla tua anima spenta.

Macchiato.   Mentre la   Notte  ti  assorbe,  è  stato  un  errore mastodontico.

Essersi rovinato per colpa di troppa “birra”.

 

 

Bridge: I had a job, I had a girl

But  between our dreams and actions lie this worldIn the deep forest

Their blood and tears rushed over me

All I could feel was the drugs and shotgun

And my fear up inside me…

 

 

Now the clouds above my prison

Move slowly cross the sky

There’s a new day comin

And my dreams are full tonight…

 

 

Morto, giaci nel plenilunio, mentre sorseggi  un’utopia di un amore che ti rinfreschi, che ti riami.

 

Qualcuno al tuo fianco, meno solo. Aspettando l’inevitabile che avverrà. Non voglio più soffrire.

Stammi vicino, tiepida carezza.

Dopo il mancato Oscar, Sean pare “scordarsi” dei suoi accordi. E dondola, sereno-andante, altrove.

Calmo, poi nervoso, ancora dentro un tormento che non finisce, ti sfinisce.

Sean è così, questo volto da cane bastonato, che implode.

 

Un tipo mansueto che non reagisce, ma poi… che “china” e ammutolisce.

Sta sempre buono e subisce… ardi, in una rabbia che geme.

 

Alle volte sbuffa Sean, agli angoli della strada, come un cane dall’occhio livido. Sì, ancora la lividezza.

Spifferi che entrano nella sua stanza, mentre scrive un nuovo film,  mentre i giorni  passano nella più  pigra monotonia senza scosse.

 

Sean dà voce e coraggio agli umili, ai reietti, a chi non può dire la sua e mastica la vita, questo dono che si è trasformato in un canto straziante, strozzante.  Si ripete, sino allo sfinimento.

Dove  Dio  ha  coperto  gli  occhi  ad alcuni  dei suoi  figli,  che patiscono in un canto inerme, che prima o poi si sventra, nella lagunare palude dove i sogni muoiono,  trafitti da spine.

 

 

Sean si ripete, sì, è noioso nel suo mantenersi “fermo”, in un registro che sfoga, ansima,  si accorda su una melodia triste che poi “vigoreggia”, con improvvise accelerazioni.

Come gli zigomi anneriti, di cuoio.

 

Come Springsteen, appunto. Con la sua Luce che si staglia tra le ombre, come un microfono che assorbe un Cuore, lo trita e lo rende potente forza, una gola inferocita che ti afferra per  il bavero e t’induce a urlare con essa. Per una speranza che non si smarrisca.

Gli zigomi, appunto. Quel punto di contatto tra le labbra e gli occhi.

Tra il naso che aspira gli odori e l’umore cangiante delle tue iridi, dove la vita acchiappa un po’ di gioia e tanti dolori, mentre la ridi beffardo, per sfidarla.

Sean Penn incarna le mille contraddizioni dell’America, ha gli zigomi sporgenti, l’espressione emaciata di chi  ha preso mille pugni, ma è rimasto in piedi, forte, vigoroso, “incatenato”  al suo Credo.

Alle sue virtù, alle sue braccia, al suo coraggio, ai valori classici, quasi gospel, di una spiritualità andata perduta.

Di una primigenia “originarietà” e originalità.

Sean bofonchia parole tristi, fumanti, volteggiano.

 

Le parole di chi non può parlare e rimane intontito da un destino ingrato, forse già scritto, dall’irreversibile processo di marcia di un popolo che non sa più sognare. O li ha solo spenti in un posacenere di “mestizia”.

Di gente che non vuole svolgersi, ma si capovolge nel pianto, per dissanguare le ferite.

Un po’ stanca, tra pugni dolenti, emozioni troppo vivide.

 

Che a volte  ti  sfrecciano davanti, e  cadi, tramortito  da  una velocità che non prendi.

Come bocche di storpi, come un borbottio che si lamenta.

 

Sean Penn è forse l’unico, o tra i pochissimi, a stare fuori dal giro gracchiante, uno fuori dal coro.

Sempre, con un pizzico di narcisismo, fuori moda.

 

È l’unico, se non il solo, a girare film morali. Uno che emerge e dunque si “sommerge”.

Nell’appiattente panorama, asfittico, moralista, puritano di un’America che sconta i suoi peccati.

Ma non li riconosce.  Prega, si dispera, e poi ti mangia.

 

Cinema di emozioni che lavora sottopelle, ti lascia a bocca aperta per la sua onestà.

Un Cinema che si consuma, che non lascia spazio,  che non dà tregua, che  colpisce  a  muso  duro,  disincantato,  amarissimo, greve.

Ribelle, giusto, come un’illusione sfociata in un pianto tristissimo, che annega in una delusione, poi ritrova le energie e batte il ferro.

Un Cinema che usufruisce della sua intensità, scolorandosi in acquerelli giallo-ocra, densi come il bacio di Giuda.

Un Cinema guerriero, mai domo, indomabile. Vecchio, saggio, moribondo.

Vagabondo.

Morti e avvoltoi che bucano la tua pelle, nella calura  di un

Giorno senza fortuna.

 

Sean Penn ha il volto (s)tirato,  l’occhio di un Santo come quello dei suoi maestri.

Un occhio che implora pietà, compassione, cristologico, intenso, profondo, “ramificato”, capace di guardare la  vita  nella  sua complessità, a 360 gradi.

Come il  suo  amico  Pacino, o  quello  dell’altro  suo  mentore, Robert De Niro, un Angelo-Diavolo pensieroso, enigmatico, strafottente con un delicato “Non so che”.

Il suo Sguardo, d-entro cui s’inseriscono immagini, in cui la vita gioca col suo Cuore.

Un Cinema febbricitante.

 

Il suo Sguardo, gaudente e poi torvo.

 

Assorto, “bastardo”, capace di  prenderti  in   giro,   da  gran bugiardo.

Un bugiardo ingenuo, camaleontico. Adultero, femminile, efebico.

Limpido, cristallino, impagabilmente se stesso, Sean.

 

 

Sean Penn appunto. Sean Penn è mille cose.

Un funambolo coraggioso, dai capelli ispidi e il naso-nasone.

 

Un clown con  troppo  sangue nelle  vene, un  cavaliere  prima disarcionato e poi di nuovo in piedi.

Egli corre, rincorre.

Spinge il pedale con intensità.

S’immerge nei suoi personaggi, li deterge. Li rende se stesso.

 

Il Cinema di Sean parla alle nostre anime, le “instrada” in territori mistici,  le  esplora,   le  accarezza trascinandoci nell’asfalto,  nel cuore buio dell’America, dove i bambini  giocano a fare la guerra, dove ci si ammazza come all’O.K. Corral.

Un Cinema western, surfista, eccessivo.

 

Banale nel suo sorrisetto furbo, eppure profondo, lacerante, che si muove e smuove.

Mastodontico, vero. Piovigginoso e malinconico.

Cinema che palpita, mai cerebrale, sempre dentro coordinate in cui ti dimeni, dove quel che conta è l’anima.

Anche Sean, in questo mi rispecchio, soffre di un disagio interno che lo macera.

Lo sposta in continuazione, lo altera. Per perdersi.

Un Cinema che da solo prende l’iniziativa.

Si piglia i suoi bei rischi, e affonda, pugnala.

 

Si adira, e sventola  la  bandiera della  libertà,  di chi  combatte, poiché non ha altro.

Si commuove nella disperazione, per la contentezza, ché la vita esiste…

Così.

 

 

Well the highway is alive tonight

But nobody’s kiddin nobody about where it goes Im sitting down here in the campfire light Searchin’ for the ghost of Tom  Joad

 

Di padri che mentono, e poi accavallano le gambe.

Di madri che ti sputano per godersela da qualche altra parte. Di uomini soli, nella tempesta.

Fra le braci e le braccia di una puttana.

Di capezzoli che succhi con vorace, godereccia rabbia.

 

Mentre scende la sera, e nel tramonto sbrani la vita,  con un sofferto miagolio della tua carne.

Tutti concordano sul fatto che piangi, e soffri, nessuna carezza che ti consoli. Eiaculi un dolore incolmabile, rabbrividisci.

Sean è l’incubo preferito di chi ha congelato le emozioni, le ha messe in un ripostiglio di ricordi che non devono più agitarti. Con la candida forza di chi ti bacia, ancora.

Come rasoi affilati. Rosichi e raschi.

Vuoi  solo  le  sue  labbra,  l’umido  tepore  di  un’anima,  meno insolente, che ti apprezzi senza chiederti un prezzo.

Di chi nutre un odio, un disprezzo che lo consuma e ti rovina. Di chi stipula patti col Demonio.

E ruba all’altro un talento che egli non ha.

 

Di chi mette in   giro   cattiverie per  sgualcirti,   ché  la   tua reputazione venga messa sottosopra, ché dovrai  faticar il doppio per un posto al Sole.

Mentre il contagio sparge il suo seme in questo Mondo senza più dignità.

Mentre intoni un po’ di nostalgia.

 

Acida, come pioggia battente, come un soave ludibrio che ti anima.

Tra uomini spregevoli, tra balli in cui ti squagli.

 

Un fiume ardente.

Che balugina nel vento.

 

Uomini modesti che ridono di piccole cose, mentre cala il sipario sulle loro teste.

Dove ti affumichi, tra i cespugli. Dove spari-sci.

La stringi a te in questa Primavera che s-fiorisce.

 

Come Sean, scrivi, poi bruci tutto, destini la tua opera a un autodistruttivo falò.

Sono deliri tutt’al più, pezzi in cui ti spezzasti.

 

Gente che continua a martoriarti, levandoti l’anima, quel poco che s’annidava, di tuo.

Che giace in posti che credevi non fossero più… In cui deponesti le armi.

Gente che non lotta, “ammaina” i fucili, senza quei nervosismi che la vivacizzavano.

Gente che non conta.

 

Che, a meno che non la interpelli, non parla più, sono sussurri, tra le foglie sbiadite.

Gente che non crede più a nulla, perdipiù  alle favole,  che ha perso  i  figli  in  guerra, nel “filo  spinato”  di un  destino che prometteva altro. Invece solo garbugli, veleni che t’hanno eroso.

Gente con la birra in mano, che si fissa dritta e solidarizza con timida gentilezza.

Gente “sbucciata”.

Di baci fugaci, di un suono mellifluo che ti estranea.

 

Perché lì, mentre tutto scorre, appoggi le guance sul cuscino e dormi.

Tranquillo, nella siesta.

 

Nasciamo nudi, nella nostra innocenza, poi ti ribelli. Con ansia.

Divorando una vita che ti macella.

Poi impari, qualcuno resiste, altri abdicano. Posso?

Un po’ di erbe per medicare il bruciore. Picchi, non gliene importa a nessuno.

Abbi un po’ di coraggio per rialzarti, almeno un po’, lo racimoli lì.

Parte, ha origine dal tormento, da quel che accumuli e poi monta. In un deflagrante boom che tutto travolge.

In cui fischi e deliri.

La vita ti riporta con sé.

Ti trattò in un certo modo, adesso è tutto come prima. Quanto posso durare così?

Mi rendo duro, m’indurisco, ancora è vicino quel ricordo che mi tirò via la pelle.

Che mi ustiona ancora, pare oggi, e quelle reazioni, eccessive, di lividi… Di una “sberla” con le nocche a mia madre.

Sean sbertuccia l’ipocrisia.

 

È  la  fronte  corrugata di  chi  ne  ha  prese  di  botte,  di  chi, raggrinzito, fuma.

Per annebbiarsi.

Si cerca sempre, e a ogni domanda non trova risposta. Sean continua, rema-trema, come dico io.

Nel mare-marea in tempesta.

 

Come nella sua seconda opera, The Crossing Guard, tradotto in Tre giorni per la verità. La verità appunto, che non esiste, è solo un’utopia, una vana speranza che ti disillude, tanto non c’è nulla, ognuno si porta dentro il suo dolore.

È la storia di tre anime, di tre cuori solitari e di un Cuore spento. La storia di un uomo che è separato dalla moglie e ha perso il

figlio per “colpa” di un automobilista “in avaria” che, come si

dice, aveva bevuto troppo.

 

La storia di un Uomo, più che altro un’ossessione, che vuole vendicarsi di chi gli ha rubato l’unica ragione di vita. Suo figlio.

Il padre e il “carnefice”,   entrambi   legati a doppia mandata da questa tragedia orribile, la morte senza preavviso, senza allarmi di sorta, una morte che squilla e ti lascia di sasso, con le membra rotte e il fiato senza polmoni.

Asfissiante come una donna di paglia.  Non c’è altro in cui credere, se non “arrostirsi” con un’altra birra, condensarsi tra le sfumature grigiastre di una sala s-colorita, tra puttane e vizi per noia.

Tiri fuori un pacchetto di Marlboro, te lo “scoli”.

 

Poi torna l’incubo, la realtà che ti sgretola, a poco a poco, uno zombi che zampetta tra la folla, mentre tutti ridono e tu, con la morte dentro, fai finta di starci bene, “fuori”. In mezzo agli “altri”, a chi scherza sempre, mentre tu esorcizzi tutto con un urlo rabbioso che non emetti né liberi per dignità.

Ti strozza, la tua gola geme, nel silenzio incomunicabile, qualcosa, qualcosa, un rumore impetuoso che ti agita le viscere.

Forse, uccidendo chi ti ha ucciso, troverai pace, e sarai come prima. E, se non come prima, almeno sorridente. Poi scopri che il  “cattivo” tanto cattivo non  è, anche lui  ha perso qualcosa, anche lui  non è più  lo stesso, è un taglio lacerante,  un grido straziante che non tappi con le carezze, un orgasmo che non si penetra.

 

Aspetti le onde soffici del mare. O un’alba serena, dopo la lunga

Notte infinita. Stringendo la mano di un fantasma, forse.

 

 

Last night I dreamed the sky  went black You were drifting down, couldn’t get back Lost in trouble, so far from home

I reached for you, my arms  were like stone oh, but you were missing, missing, missing Searched for something to explain

In the whispering rain and the trembling leaves

Tell me baby, where did you go

You were here just a moment ago

 

 

Missing

Qualcosa che va via…

 

 

Sei lì, da solo, mentre impazza  la guerra e, solitario,  cinico, ti frantumi al crepuscolo, tra i sogni sbiaditi d’innocenze  perse.

Enigmatico come un fremito.

Come flash accecanti.

 

La sottile  linea  rossa,  che ansima  e rimani  appeso a quel filo, intermittente.

 

 

Sei un simpatico cialtrone come un musicista “fallito”, fra accordi

& disaccordi, armonie che stonano con la vita, un talento irruente, volgare ma ingenuo.

Come un bambino capriccioso che stuzzica le corde. Strimpella di getto, come sangue di un amplesso “sereno-andante con brio”.

 

Sei un poeta ermetico che desidera un adulterio che lo distragga, che “voracizzi” il suo tormento.

Ripido e scosceso come un incubo. Sean Penn, o meglio S(e)an Penn.

Anche quando “ridi”, nascondi la tua identità. Sorseggi del vino, ti “sorteggi”, per una sorte migliore.

Sean, la sua voce che gracchia.

Il suo saliscendi, quasi sempre sofferente.

Fitte al  Cuore, dolori  intercostali,  come peccati inestinguibili. Non  c’è  redenzione,   nessuno  è  salvo,  dentro  il   fiume  mistico scorrono le anime sporche di un’America che spara a chi non ha colpe,  i destini  irreversibili  di anime perdute, come angeli che bussano alla tua coscienza.

Toc toc, il rumore sfuma in un “dolce domani”.

Il Cinema tragico, il più delle volte, di Sean Penn.

 

 

L’autostrada di un Cielo nitido e deserto, qualcosa che resiste, vacilla e crolla. Uno spazio vuoto, solo una pianta, pochi frammenti di luce, una speranza, la metafora del domani.  Il Tempo che segna, le rughe, il mistero, l’allucinante flash, il boato di un terrore che ha spezzato il nostro diaframma. Il domani…

 

It’s rainin but there aint a cloud in the sky Musta been a tear from your eye Everything’ll be okay

Funny thought I felt a sweet summer breeze

Musta been you sighin’ so deep

Dont worry we’re gonna find a way

 

 

Im waitin’, waitin’ on a sunny day Gonna chase the clouds away Waitin’ on a sunny day

 

 

Domani il dolore  svanirà, come 21 grammi,  senza peso, leggero come libellule nel prato.

Dentro una nuova rinascita.

 

Meno tortuosa, più   fluida,   acqua che sgorga in   zampillii fluorescenti.

 

Un Cinema “muto”, fatto di silenzi, di pause, di andirivieni della coscienza. Nebuloso, frammentario, “esoterico”, sciamano.

Un Cinema   che privilegia   la   corrente interiore,    gli   sbalzi caratteriali, classico, lineare, atemporale.

Un  Cinema  che  sente  troppo,  e  trattiene, trattiene per  non impazzire, un Cinema erotico, appassionato e passionale.

Sean Penn è l’anima “bruciata”, sospirante, piange in silenzio, senza dare nell’occhio.

Inturgidisce le sue vene di sentimenti forti, veri.

La sua enorme voglia di vivere, il suo occhio cristallino, puro. Sbanda, ritrova la via, poi la “sigilla”.

 

La serenità è solo un attimo, poi s’infervora di nuovo, è assordante, un “brusio” che cresce, lievita, si dilata.

La bacia, si lascia cullare, coccolare.

 

La prende con sé, la porta a fare un giro, mostra la sua parte più buia, meno evidente, più “intraducibile”, quella parte che sta nei nostri cuori e fatica a uscire, come “arrestata” dalle nostre paure, dai nostri timori, dai nostri tabù.

Sean Penn parla, parla della “tribù” degli scontenti, dei vagabondi senza dimora fissa, alienati dalla loro “vivacità espositiva”,  dalla loro ilarità senza freni, spontanea, esultante, catartica.

Parla di sguardi “morti”, di fantasmi che riemergono e rivelano un Passato triste, un passato pieno di ferite, segregato dove puoi stare meglio, nel Mondo in cui non hai bisogno di farti troppa “pubblicità”, anonimo, un Mondo che passeggia.

”Strano”, magico, morboso, “appiccicoso”. Infantile nel non prendersi   troppo   sul   serio, nell’allontanare   la   “condizione umana”.

Sean Penn guarda, fissa, dice-non dice.

 

Hai mai perso una foto o una poesia importante?  Che era una parte di te?

Non c’è più…

Solo punti-ni di sospensione.

 

Parla di cose che non andrebbero dette ma ipocritamente tenute legate, scioglie le inibizioni.

Riflette, si pone dei dubbi e non sta zitto. Ammette le ingiustizie, rende visibili le tragedie.

Dà voce a coloro  che non  possono  parlare, che rimangono incastonati dentro “ingenue”  banalità, viaggi pindarici senza uno scopo preciso.

 

Sean Penn è un attore-cantante, una melodia incalzante, forte, una cellula impazzita, ossessiva, ripetuta fino allo sfinimento.

Strimpella una canzone giocosa che tanto giocosa non è. Poi si sveglia e grida.

Il suo Cinema è “lento”,  afasico,  affannato, “al  ralenty”, con improvvise accelerazioni.

Non è altisonante, è senza Dolby-Surround ed effetti speciali, è mellifluo, insinuante, allegorico, mesmerico, giocato sugli sguardi, i mezzi toni, le “tracce”.

Appare-scompare, fulmina, fulmineo e fulminante.

 

Psicologico senza esserlo, giocoso, una scala a  chiocciola  di umori, sensazioni, parole non dette, soffocate, (s)premute.

Interiorizzate.

 

È come una morbida  mano, ti accarezza le  guance, ti lascia smarrito, non sai  (in)seguire,  guardare, oppure fermarti, assaporando l’attimo.

L’apoteosi di questo barocchismo emozionale.

È sconvolgente, anima i sensi, li scuote, esaspera(nte).

 

Non ci sono molti dialoghi, un’estrema forma d’agnosticismo, un mistico lirismo.

Perpetuo, abissale.

 

Sensibile Sean, forse troppo duro, e lasciamo stare  le  sue avventure, le sue marachelle con questa e quell’altra Donna dello show business.

Non ama i compromessi, slabbrato, “fuori fuoco”, rispetto alla maggioranza, incerto persino con se stesso.

Sempre oscillante tra follia, normalità e  mistico,  allucinatorio dolore.

 

Non si rilassa mai, ha il volto di bronzo, l’occhio luciferino e allo stesso Tempo candido, innocente come quello di un bambino, il volto sgualcito da sigarette Marlboro, “strappato”.

Teso, contro un incubo chiamato vita… Che, prolissa, spesso si spezza.

 

 

Ce n’è di peggio, gente che lavora e poi finisce pazza.

 

Gente che non lavora perché non può, gente che non vuole più entusiasmarsi.

Gente che si macera in un bagno di sangue, senza più grammi di ossigeno.

Gente che perde le mogli, altri che sudano, lacerandosi in tormenti, altri senza più una lira,  sbranati dal  destino, che li travolge col suo fiato.

Il Fato.

Un Uomo di nome Sean nella Jungleland. Gracchia, gracchia, un sibilo.

 

Sean Penn, che anche nei film “alimentari”,  quelli che gira per “gavetta”, come il  giovanilistico   e  già  citato Fast Times at Ridgemont High, dimostra, anzi  mostra la  sua immagine  di ribelle, grezzo, già “bad boy”, “non adatto” a un Mondo che ti piscia in testa fin (da) quando hai coscienza.

 

Sean Penn, l’anima ruvida, tenebrosa, claustrofobica. Sean Penn, il volto lumeggiante di una melodia, luna-re. Liquido, vagabondo, sempre “di traverso”.

Crespo.

 

La Natura incontaminata dell’amore

 

C’è un nome che ha risuonato per tutta la visione di questa opera magna di Sean Penn: Elena.

 

No, non scherzo, sto conversando da qualche Giorno con una creatura che m’ammalia e ha sedotto un Cuore infranto, restaurandolo con “canagliesco seviziarlo” al fin taumaturgico di ripristinarne l’aroma troppo smaltato da una patina dolciastra che, di corrosive, taglienti “redini”, opprime, attimo dopo attimi a oscurarmi, l’anima mia più eccelsa per cui nacqui: l’astrazione, innata di divinatoria concezione metafisica della vita.

Le ho dedicato una poesia, vergata nei capelli suoi “lagrimosi” di melanconico umorismo furbetto, per odorarla, anche da lontano, nella porpora viva d’un fruscio erotico che eccita l’eclissata pulsione d’amarla, tergerne gli occhi in baci d’addolcir in tramonti che “piangan” l’estasi della nostra folgorazione in un Mondo sempre più divorato da crudeli brame di falsità.

 

Il suo nome vero è Elena.

M’irride, giuocandosi imprudentemente delle mie pazienze, ma poi non “stacca”, allacciata d’ipnotiche empatie, e attratta da come non cedo nel mio danzarle, sobrietà medioevale schiumata  d’alcol  fantasmatici,  nei  vagiti  sinuosi  in  cui smania di troneggiante passione pura. Già “invisibile”.

 

Sì, me ne sono invaghito, e quest’incantesimo non si spezzerà in luci offuscate di borghese, “melenso” crogiuolo d’obblighi o circuito dall’inganno maligno in cui molti, di consapevole pattuirsi da ipocriti, rinnegano l’essenza per poi rapirsi, sì, rattrappiti d’ischeletriti battiti strozzati, d’ingiallite vene a “onorare”  pragmatiche  d’un  ematico  dolore  mai  sviscerato, mai urlato e disincarnato come un sogno mistico che “ferisco” nella lirica contemplazione d’onirici intrecci spirituali, d’agon sensuale e”cristologico”, ascetica finezza del sospiro e del gemerci.

 

Perché peccare di “virtuosa” pacatezza quando i profumi della vita riscoccano in ansiti d’assoluta e messianica libertà?

 

Sì, la amo…

E questo mio pensiero si concilia con questo capolavoro. Indecifrabile viaggio esistenziale, d’una strada da lastricar di sangue “appuntito” nei polmoni, d’urgenze impellenti e denudanti  a  esplorar,  “violentare”  la  deflorazione cosmogonica dell’interiorità umana più profonda, come raggi di “vitrea seta” d’un assetatissimo, inesausto Sol battagliero (t)ersissimo, intrepidamente fiero e “(in)cosciente” nell’ululato lunare di notturne, guascone “morti” d’euforia folle del nostro man walking rinascente.

Un’evirazione sofferentissima ma vivifica, illuminante dalla società, come intona un “triste” Eddie Vedder nell’utopia dell’happiness angosciante, anelata, disperata e forse celestialmente “immersa” nelle aspersioni d’iridi toccate da un Dio armonioso dell’imman beatitudine della salvezza.

Colonna sonora “fluviale”, tene(b)ra come già detto del leader dei Pearl Jam in rifulgenti (as)soli intinti di fluorescenza temp(e)rata, anche allucinatoria, che urla “cupamente” abba(gl)iata  proprio  nel  picco  di  “The  Wolf”,  nona  track, l’unica ch’è un vagito, una sprigionata, inafferrabile, “ferina” redenzione dalle ibernazioni del mellifluo grigiore, e vola incorniciando, sghemba e dissolventemente turgida, dinamicamente statuaria, il selvatico liquore del primordiale, creatural incanto.

 

Culmina, rocciosa di montagne, nella sua sommità.

Il  candore  di  Chris  McCandless  muterà,  traslucido,  nel febbrile Alexander Supertramp, eruzione nella sua licantropica, vulcanica, irrefrenabile voglia di fuga dalle istituzioni e dall’asservimento logorante, asfissiante e caudino.

Capitoli scanditi dall’evoluzione che corre veloce, scalpita ed è illiquidito “marmo” (im)perfetto del senso, sfiora occhi innocenti (una Kristen Stewart “tragicamente” magnifica) e preferirà l’innevata e florida Alaska d’un magic bus perso tra le “foglie” fotografiche del Tempo, nella memoria istantanea, memorabile d’un autoscatto a immortalare un Uomo.

 

Nel planarci, soffici, d’un ricordo inestinguibile.

 

Forse, il valore e grondante dolore di questo film è inciso nello Sguardo (dis)illuso di Vince Vaughn, uno dei tanti compagni dell’avventura  in  cui  Alexander  s’è  imbarcato,  quando  lo lascia solo al “volante”, come a “mordergli” amorevole un “Vivi e ama come desideri, come imparerai da solo”.

 

E non si coagulerà…

 

 

(Stefano Falotico)

Bruce Springsteen, ,

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