“Come un tuono”, recensione di “Sentieri Selvaggi”

04 Apr
“Capture the mood” chiede il bandito della moto Handsome Luke. E catturare il sentimento nell’immagine è anche l’intento di Derek Cianfrance in questo prezioso film: epopea all american rischiosa, ambiziosa, sregolata, cinefila, sincera. Un film fortemente voluto e pensato prima di girare Blue Valentine, passato negli anni per ben 37 riscritture. Un film-vita si diceva una volta…

Catturare l’umore, l’anima, il sentimento. Tutto in un singolo frame, uno scatto che resisterà al tempo, lasciando un’impronta di reale su quella pellicola. Sul nostro film? Capture the mood chiede Luke (Ryan Gosling) ad una sconosciuta cameriera, pregandola di scattare l’unica fotografia che lo ritrarrà con il suo fugace amore Romina detta Ro (Eva Mendes), amata un anno prima e ora madre di un bambino. Perché quel figlio, che ha appena saputo di avere, devierà il corso della sua vita verso il tragico destino da sempre scritto per lui. Nel passato del cinema e dei suoi eroi maledetti, dei Billy the Kid e dei John Dillinger, che non possono sottostare alle regole perché scritti prima delle regole.
Catturare il sentimento nell’immagine. È esattamente l’intento del giovane regista Derek Cianfrance in questo preziosissimo film, epopea all american lunga, ambiziosa, sregolata, come il cinema che i movie brats anni ’70 inseguivano nel loro sublime sogno tra Hollywood e la Nouvelle Vague. Un film fortemente voluto e pensato prima di girare Blue Valentine, passato per ben 37 riscritture nell’arco di cinque anni in cerca di un produttore. Un film-vita si diceva una volta, che resuscita l’antico rischio di scommettere tutto sulla propria intima visione del mondo filtrata dalla tradizione del cinematografo. Etica registica che avvicina Cianfrance a James Gray, forse senza raggiungerne la grandezza, certo, ma la strada è quella. Un film che smargina dalla sua sceneggiatura e dal suo montaggio finale evidentemente “compromissorio” (il regista aveva scritto e girato molto materiale supplementare sulle tre linee narrative), mostrando ogni cicatrice di questo travaglio e limitando a solo 140 minuti l’imponente costellazione di traiettorie umane che riesce a erigere. Ancora: è proprio in questa sua sincera “incompiutezza” che Come un tuono raggiunge una profonda affezione per le persone inquadrate, catturando schegge di vita in primi piani insistiti che riemergono per giorni dopo la visione.

Tre percorsi diegetici si diceva, quasi tre film indipendenti uniti da un “incontro”. Si inizia da Handsome Luke, Luke il bello (impossibile non pensare anche a Walter Hill), che da stuntman/showman nomade e vagabondo, arresta il suo vagare nella cittadina di Schenectady perché scopre il destabilizzante sentimento della paternità. Ha bisogno di far qualcosa per suo figlio, fargli assaggiare per la prima volta il gelato, sentirsi padre a qualsiasi costo: anche “contro la Legge”. Poi si vira verso il giovane poliziotto Avery (Bradley Cooper), che braccando Luke dopo una rapina giunge al crocevia della sua esistenza: da paladino della Legge, celebrato dai media, ai meandri lugubri della giustizia incarnati nel corpo iconico di Ray Liotta che porta tatuati in volto i segni perturbanti dei Goodfellas e dei Narc. Infine il salto generazionale: i destini dei figli coetanei di Luke e Avery, il loro incontro quindici anni dopo, marchiato delle indelebili e pesanti eredità paterne. È la figura del cerchio, insomma, che domina questo film sia formalmente (la sfera dello stuntman, la ruota panoramica, il gelato) sia narrativamente (il ritorno di Luke dopo un anno, le costanti rime interne tra i protagonisti, i figli che reiterano i comportamenti dei padri), ponendo ogni personaggio sull’orlo di abissali dubbi etici da elaborare solo nel controcampo di noi spettatori. Uscire dal cerchio determinista e volgere la moto e lo sguardo verso Ovest, ancora nel West, significherà raggiungere “il posto oltre i pini” come nel vecchio detto Iroquois.

E poi: c’è il cinema. Dalla sperimentazione sul colore mutuata dal suo maestro Stan Brakhage all’uso della musica che a tratti ricorda il primo Scorsese; dalle citazioni coppoliane letterali – il battesimo del Padrino, il taglio di capelli alla Pony Boy, il bandito della moto che riecheggia Motorcycle boy– agli inseguimenti in soggettiva che rimandano a William Friedkin; dalle suicide rapine in banca alla Michael Mann al controcampo di poliziotti corrotti alla Sydney Lumet. Cianfrance sfodera il suo (e il nostro) vocabolario cinefilo, paga un privato debito con i padri, facendo fluire gli umori di quarant’anni di cinema americano occultato in un personalissimo racconto di formazione. Certo: si avverte una qualche meccanicità nella scansione filmica dei tre filoni narrativi e generazionali; con l’ultima parte che risente un po’ troppo dei compromessi al montaggio. Ma la staffetta attoriale/umana tra Luke e Avery, fulminea, posta direttamente in (immagine)azione, in inseguimento, un passaggio di consegne in apnea che segna la fine (e l’entrata nel Mito) per l’uno, e l’inizio (di un “opaco”) percorso di vita per l’altro…è un momento che non si dimentica. Derek Cianfrance riesce ancora a catturare l’autenticità di quel tra le persone che da sempre, nel grande cinema, interfaccia i film alla vita. Lo schermo allo spettatore. I padri ai figli. E lo fa oggi, nel 2013, con tutti i rischi del caso. Capture the mood.

Titolo originale: The Place Beyond the Pines

Regia: Derek Cianfrance
Interpreti: Ryan Gosling, Bradley Cooper, Eva Mendes, Rose Byrne, Ray Liotta, Dane DeHaan, Ben Mendelsohn, Bruce Greenwood, Harris Yulin, Emory Cohen
Origine: USA, 2012
Distribuzione: Lucky Red
Durata: 140′

(Pietro Masciullo)

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