Archive for March, 2019

Compagni di scuola, gli altri hanno un bel ricordo di te?


25 Mar

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Sì, ieri su Facebook, ho scritto che molti ex compagni di scuola, da quando c’è Facebook, mi hanno contattato a distanza di molto tempo da quegli anni acerbi e inquieti, forse rivisti col senno di poi, eh sì, inquietanti, e son rimasti stupiti dal fatto che io non sia più quello di una volta.

A volte, rimangono scioccati perché ti ricordavano ragazzino, semmai complessato, timido, pieno di paure. E hanno stampato nella lor memoria ancor l’idea di quel che tu eri, appunto ieri, ai loro occhi.

Un colossale imbranato, uno sfigato. Un impresentabile, sciocco squinternato, ingenuo e poco cresciuto.

Ma ora il velo di quelle apparenze passeggere, forse anche veritiere perché probabilmente rispecchiavi davvero quel che sembravi e proprio così eri come venivi visto, si è svelato.

David Lynch diceva che le persone non cambiano, bensì si rivelano.

E se oggi sei uno scrittore molto bello, molto cercato, dalla prosa ricercata e hai un gran fisico, forse tanto sfigato non lo sei mai stato.

Era solo questione di tempo. E il buio si sarebbe asciugato, le tempeste emotive sarebbero state superate e semmai pure il Genius si sarebbe mostrato come Dracula.

Immensamente magnificente. Oramai inarrestabilmente, furiosamente. Intrepidamente potente.

Altre volte, questi “perfetti sconosciuti” restano impressionati da metamorfosi tue che non riescono a spiegarsi. E, paralizzati paradossalmente dal cambiamento in meglio, increduli, tremano di commozione, si agitano nervosamente oppure buffamente, tra sé e sé, sorridono, pensando che il tempo è passato per tutti e forse riflettono sul concetto stesso di tempo. Pensando infine che tu sei cambiato e invece loro son rimasti agganciati ancora ai loro stupidi, puerili scherzetti e alla loro visione limitata e carnascialesca dell’esistenza.

Esiste il tempo anagrafico, cioè l’età registrata all’anagrafe per cui, inevitabilmente, a meno che in Occidente non scelgano di cronometrare il tempo fisico con un nuovo, rivoluzionario calendario, eh sì, può apparirvi incredibili, quaranta saranno presto.

Compirò i miei primi quarant’anni. Ma io non li sento. Ieri ero giù e ne sentivo ottanta. Oggi mi sento allegrissimo e me ne sento quindici.

Il mio tempo è infinito, lo riavvolgo, lo sciolgo nelle mie tempie, appunto. Lo mastico, poi lo cancello, elido i brutti ricordi. Ma essi non si assopiscono e, dalle profondità sepolte dei miei creduti, sopiti microtraumi subiti, riemerge la splendida superficie, dapprima semmai immalinconendoti, obbligandoti a commiserarti, poi schiarendoti le idee, aprendo a nuove luci del giorno fragranti. Straordinariamente romantiche.

Che, come uno scroscio marino, cavalcando le lancette del tuo orologio, si trasforma e modella a incastonatura delle tue iridi lucenti.

Un tempo annerito, dimenticato, adamantino, seppellito vivo eppur che ancor vivace vive.

E allora ecco perché succedono madornali equivoci. Avevi brutalmente, vergognosamente litigato col tuo ex miglior amico. E fu una brutta rottura, una lacera frattura, forse soltanto una triste fregatura.

E lui ti ricordava appunto intimidito dalla realtà, spaurito, chiuso e ripiegato nelle tue afflizioni depressive insanabili. E ancor scortesemente, in maniera canzonatoria, con infima malignità ti approcciò con far stronzo.

Poi, repentinamente, meglio ti adocchiò. Nuovamente adesso t’inquadra e i suoi ricordi non quadrano. Ti ricordava “tondo”, sì, tontissimo, e scopre che oggi sei invece velocissimo, un futurista ed è proprio vero che le donne ti corteggiano e sei pieno di spasimanti.

Come si suol dire, è rimasto impressionato. Dategli un calmante.

Spiacevoli o forse piacevoli sorprese.

Amici, e se non mi siete amici non m’importa, io ho sempre ben gestito (eh, come no) la mia solitudine pazzesca, un mio amico delle scuole medie mi ricordava come un grande.

Purtroppo, e sottolineo, purtroppo, sono ancora questo qui. Sì, di questa clip.

Un gigante fra i nani, un “nano” fra giganti solo di statura e invece piccolissimi nell’anima.

Una roccia fra bambini di cinquant’anni, lagnosi, maniaci, ingordi della tua pelle. Maliziosi, noiosi insopportabili.

No, non me ne frega niente di essere chirurgo, avvocato, giornalista da Pulitzer.

Io son sempre stato un underground.

Forte, spaccatutto.

E non permetterò mai più a nessun idiota di dirmi come si sta al mondo.

Perché io voglio vivere così.

Sennò, saranno altri colpi mancini.

Tutto ciò è patetico? Pensate quello che volete.

Come canta il grande Bruce Springsteen, Born To Run.

Eh già. Allora che cosa successe?

Successe che, oh, può succedere, che uno già molto avanti si fosse affezionato a dei ragazzini.
Molto indietro. E, a forza di farsi prendere per il culo dai ragazzini, stava perdendo di vista chi era.

Orribile a dirsi. Se frequenti i ritardati, diventi tu il ritardato.

Se frequenti gente sveglia, tutto ritorna e cambia.

Sì, un bel gancio sinistro.

 

di Stefano Falotico

Compagni di scuola, anche di suola, adesso parlo io, come il grande Al Pacino di Scent of a Woman


24 Mar

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Sì, la mia vita è stata proprio un Ritorno al futuro, un viavai di smemoratezze, di amnesie, d’ipocondrie, di melanconie, di lascivie, di ragazze con lo sci che facevano lo slalom gigante attorno ai miei ormoni nevosi, spesso nervosi, irrequieti e ghiacciati.

Di pattinatrici che ho amato, spesso da solo, alla follia. Ah, che onanismi deliziosi. Ad esempio, la prima volta che vidi Ronin col grande Robert De Niro (e poi sul Bob, ah ah, ci torneremo sopra, con tanto di giubbotto di pelle per resistere al freddo polare di questa mia depressione invernale, oh oh), persi le rotelle.

Sì, la testa andò a farsi fottere. Anche qualcos’altro. Scusate, l’avete presente? Katarina Witt che pattina sulle note di Andrea Bocelli. Bellissima, donna magnifica, dalle forme perfette. Scivolava dolcemente e basculante come una soave musica melodiosa all’interno dei miei turbamenti adolescenziali, raschiandomi il cuore. E invogliando il mio saliscendi ardente.

Che donna stupenda. Cominciai a prendere informazioni su Katarina. Sì, la sognavo di notte, non prendevo sonno, immaginandola caldissima, avvolta nella valanga del mio uomo non tanto roccioso, bensì friabilissimo. Sì, con lei avrei acceso un falò in uno chalet accogliente…

Togliendole delicatamente lo scialle nell’odorarle i feromoni delle sue profumatissime ascelle.

Katarina, all’epoca, era veramente la donna più sexy del mondo.

Sì, debbo ammettere che anche Carolina Kostner non scherzava. No, anche lei m’innervava e volevo innevarla…

Sì, avere con lei un amore selvaggio come quello di Kevin Costner in Balla coi lupi con la sua indiana.

Invece, sempre solo, afflitto da una grave malinconia incurabile, leccavo… solamente il gelato Indianino e tutti mi chiamavano Stefanino. Eppur la penna, come dicono qui a Bologna, a proposito di quella, mi attizzava.

La mia depressione fu enormemente fraintesa. E, anziché essere accettata, venne apertamente derisa. Io nella follia svenni e per niente venni!

E fui scambiato per Forrest Gump con tanto di piuma d’una vita persa fra le nuvole così come nella famosa scena d’apertura e di chiusura dell’omonimo film di Robert Zemeckis su musica triste ma speranzosa del mitico Alan Sorrenti. No, questo è quello di Figli delle stelle.

Volevo dire Alan Silvestri.

Sì, sognavo con Katarina e Carolina amori rupestri, oserei dire campestri da vivace capriolo, sì, ove potessi morbidamente scivolar fra le collinette delle loro maestose rotondità svettanti come le più alte montagne, per scalare ogni parete liscia dei loro corpi granitici e giocar anche di capriole. Arrampicandomi in ogni cavità, in ogni loro aiuola…

No, non feci mai il “bagnoschiuma” con Katarina, nemmeno con Carolina e mi consolavo, mica tanto, massaggiandomi le scapole da vero scapolo col pino silvestre.

Ah, e dire che ci fu un tempo in cui ero uno Stallone. Proprio come Sylvester. Poi, rimasi solo pure nella notte di San Silvestro.

Il mio primo amore, come detto, si chiamava Tiziana, ribattezzata da tutti Titti.

A proposito di gatte e, appunto, Gatto Silvestro, non riuscivo mai ad acchiapparla, con lei fu soltanto uno stupendo amore platonico. Fu solo un’inchiappettata… Diciamocela!

Uno struggimento, oserei dire, daltonico. La pensavo e penavo. Non capendo più niente. Sì, ne risentì la vista. Da quella delusione d’amore immane, non mi ripresi mai più. Fidatevi.

Tiziana era un angelo biondo. Come Philip K. Dick, sublimai la realtà amara, mangiando spaghetti alla marinara, sì, marinai tutto e mi diedi a una vita rustica e favolistica.

Cybill Shepherd di Taxi Driver e Penelope Ann Miller di Carlito’s Way mi parevano Tiziana. E idealizzai il mio amore fantascientifico, credendomi rispettivamente Robert De Niro e Al Pacino.

Ma da Tiziana ottenni solo compassionevoli bacini. Ah, però aveva un gran culo, che bacino!

Peraltro, pure a questi machi andò malissimo. Travis Bickle/De Niro, in un impeto del suo “orgasmizzarsi” schietto, senza peli sulla lingua, portò da “bestia” la bella a vedere un porno.

Lei, troppo sofisticata e piena di sovrastrutture, anziché venir… emozionata da un uomo tanto puro, lo mandò a fanculo.

Alla fine, dopo la missione salvifica di Travis, eh sì, lei gli avrebbe dato eccome la figa. Aspettava solo che lui si lanciasse, finalmente. Che s’infiammasse…

Ma Travis era proprio schizofrenico.

Lui le disse: – Lei non mi deve niente.

 

E si perse in un’altra notte in bianco fra le luci fluorescenti di Michael Chapman.

In Carlito… invece, quel Brigante di Charlie non aveva avuto problemi di quella topa, no, di quel tipo. Prima che lo sbattessero in carcere, si era eccome sbattuto quella gnoccona di Penelope come Ulisse prima che la sua vita andasse lontano dalla sua Troia. E, una volta uscito, le entrò ancora.

Alla fine, vorrebbero entrambi felicemente convolare e virare verso una meta idilliaca. Ma il destino bastardo aspettò Carlito e lui fu ammazzato per colpa di un traditore.

Così, anche lui perse un’altra volta il treno.

Voglio però, dopo tanti patimenti e tristizie, rassicurare voi tutti e augurarvi davvero, dal più profondo del cuore, una vita piena di gioie e calore.

Sì, miei ex compagni di scuola, vi ricordate l’omonimo film di Carlo Verdone?

In questo film sono tutti diventati tristi, patetici, passatisti. Tutti più brutti, soprattutto nell’anima. Alcuni, come Massimo Ghini, si son corrotti, altri la prendono alla Amici miei, combinando ancora porcate e zingarate, altri forse si son ridotti a guardare Zingaretti de Il commissario Montalbano, sognando la sua donna, attrice pessima ma altra femmina infinita, Luisa Ranieri. Che dio ti benedica. Che figa!

Evviva il pino silvestre. Ma anche Pino Daniele!

Luisa, così liscia, con cui esserle liso, una che non dovrebbe aprire bocca… È una donna dalle gambe mozzafiato ma, per piacere, non recitasse più. Aprisse quelle, appunto, paradiso ove ogni uomo vorrebbe salire… un’ascensione come l’ascensore che fa su e giù, poi pigia… alt, ah, Carol Alt, fatemi riprendere fiato.

Katarina, Carolina, Carol, donne per cui anche l’ex Wojtyła Karol avrebbe perso la fede…

Ecco, io ne vidi davvero delle brutte. Fui preda di manie suicide, crisi allucinanti, sofferenze psicologiche che non garantisco nemmeno al mio peggior nemico.

Anzi, a essere sincero, in quel periodo non ne vidi… proprio.

Ma, come sostiene la mia ex amica, Silvia, e non è quella di Leopardi, bensì onestamente un’altra donna bella da morire, ero il più bravo di tutti.

Sapete qual è la cosa più tragicomica di questa storia tanto strana che è stata la mia vita?

Sono ancora il più bravo. E sono persino, quando voglio, più in gamba e carismatico di Robert De Niro.

Anche di Al Pacino. AH AH.

E allora perché tanti anni fa mi dovettero fermare?

Perché, all’ennesima provocazione fuori luogo, ebbi una reazione simile a questa. Soltanto mille volte più potente.

Ma ora avete finito di fare i potenti, no, prepotenti! Poveri stronzi deficienti!

Di mio, cazzeggio e cammino, tirandomela…

E, come Checco Zalone, altro che pazzo e cieco. Come dice Checco, io ci vedo perfettamente…

Siete voi che non vedete un cazzo. Per forza, a forza di effeminarvi, siete diventati pure delle lesbiche.

E non tanto puri.

Be’, prepariamo questo purè.

 

 

di Stefano Falotico

Il nome della rosa e Il nome del rosso, il grande Aristotele(s)


24 Mar

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Sì, secondo la versione cinematografica del libro di Umberto Eco, il nome della rosa altri non è che il nome della fanciulla ignota.

Questa è la versione data dagli sceneggiatori dell’opera di Annaud con Sean Connery.

Eco invece aveva scelto questo titolo, assolutamente metaforico, per rimandare a citazioni medioevali di varia natura, non solo femminile.

Ebbene, stavo pensando di scrivere un bestseller intitolato Il nome del rosso. Storia di scaramanzie, di sceme zie, di nonnetti cattivi.

Sì, molte oscurantistiche superstizioni popolari hanno sempre sostenuto che uomini come il sottoscritto, ovvero coi capelli rossicci, fossero persone altamente instabili caratterialmente. Facili alla pazzia, indotte geneticamente di DNA dal bulbo color vermiglio, appunto, a cader vittima di strani, indecifrabili squilibri mentali.

E a quei tempi, tempi ove regnavano i sovrani assolutisti ma soprattutto imperava l’ignoranza più brada, a quest’assurda diceria molta gente, bigotta e sprovveduta, dava stupida udienza, come si suol dire.

Non solo le donne nubili venivano arse vive perché accusate di stregoneria. Anche gli uomini che, per questioni ereditarie di livello cromosomico, non si attenevano ai canoni, diciamo, ariani, venivano bruciati nei forni crematori. No, non quelli di Auschwitz, quelli del pregiudizio e del chiacchiericcio discriminatorio partorito dalla malattia mentale delle persone deficienti.

Sì, se fossi nato in quell’era cupissima e folle, avrebbero bussato a casa mia dei gendarmi con tanto di tonache nere, mi avrebbero imbavagliato e, ammanettandomi dopo sevizie e torture fisiche di proporzioni inaudite, mi avrebbero trascinato al cospetto di un inquisitore fuori di testa.

Che, dall’alto della sua maligna idiozia, ah, il Maligno in confronto a costui è un angelo buonissimo, mi avrebbe prescritto prima la gattabuia, una cella d’isolamento senza pane e acqua. Dunque, dopo avermi disidratato e lasciato stremante solo come un povero cristo a cui sol urla e gemiti spaventosi mi sarebbero rimasti per difendermi dall’oscena persecuzione, mi avrebbe condotto sulla cima di una collina arida. Inaridendomi del tutto, ah ah.

Impalandomi fra rossissime fiamme voraci che avrebbero essiccato ogni altro residuo grido di rabbia focosa.

Purtroppo, no, nessuno ancora fortunatamente mi ha esposto, bruciante, ah ah, al pubblico ludibrio della gogna d’un popolo inferocito assalito dalla più purpurea cattiveria immonda. Ma molti si dovrebbero ugualmente vergognare.

Sì, molti episodi d’ignoranza parimenti, se non superiori a quella da me ivi descrittavi, nella mia vita mi son successi. Perché, nonostante siamo nel nuovo millennio, gli artisti, le menti vivamente fervide e gli spiriti liberi, ancora son guardati con malocchio, eh eh, da questi esorcisti probabilmente soltanto della loro diabolica demenza. E allora può succedere che, per emanciparsi da tutta una serie di madornali, orrendi equivoci scatenati da quest’orda di uomini bacchettoni, di donne, queste sì, stregonesche con le loro invidie a pelle, ah ah, col loro bigottismo figlio della loro cultura puritana da moraliste frustrate, per sconfiggere questi mangiapreti e Mangiafuoco così presuntuosi e untori della giovinezza altrui da lor lordata con malevolenza sfacciata, con farisea lor mente assai bacata, devi far capire a questi qua (a chi sennò?) che le tue sono scelte assennate, non da asino, e che non sei affatto un semi-eunuco monacale come Venanzio de Il nome della rosa. Libro che verte sulla liceità del riso e la commedia allegra di Aristotele che spesso veniva fraintesa e tradotta come schizofrenia pericolosa dalla derisione sciocca poc’anzi illustratavi.

Bensì, sei Aristoteles. Sì, il “nero” Urs Althaus de L’allenatore nel pallone.

FAGLI UN CULO così!, urlava Lino Banfi.

E il fuoriclasse, dribblando con classe immensa ogni trappola ricattatoria, ogni altro giochino di scarso fairplay, ogni altro sgambetto e, come si suol dire, bastone fra le ruote e bestioni stupidi, ora festeggia il trionfo.

Mentre gli stronzi son rimasti all’asciutto. E sanno solo continuare a offendere per difendersi dalla figura di merda. Davvero brutta.

Perché Aristoteles si è dimostrato più veloce anche con le palle, che campione di razza, sì, di razza, Aristotele era un geniale pensatore e ogni idiota, ogni tonto e ottuso l’ha preso finalmente in quel posto, ogni cosa gli si è ritorta contro ed è chiarissimo che era solamente un panzone dagli evidentissimi, lapalissiani torti e dalla bile stomachevole da vecchio arrogantone molto (s)porco.

E questo è tutto.

Ammazza, questi bastardi son stati proprio distrutti.

E se la sono andata a cercare.

Arriva sempre un punto ove devi dire basta ai bastardi e zittirli una volta per tutte. Anzi, uno alla volta.

 

di Stefano Falotico

Credersi Montgomery Clift e Gregory Peck e scoprire che sei uguale a Mel Brooks e Carlo Verdone


23 Mar

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Sì, di mio, son sempre stato un uomo di poche parole. Taciturno, come si suol dire. Talmente impeccabile e serioso da indurre il prossimo perennemente a credere che fossi tonto.

E che navigassi nei sogni utopici con le mie folli chimere da spadaccino di mie incurabili ipocondrie da visione della vita distorta e distopica da topo, nel fronteggiare soprattutto la desolazione delle mie aridità e delle desolanti mie alienazioni per proteggermi da un mondo di continue, a me disturbanti feste e ilarità che mi son sempre parse sconsolanti e sconcertanti.

Un uomo cupo, ombroso, enigmatico, indecifrabile perfino per il mio riflesso allo specchio. Che m’ha puntualmente rimandato un’immagine amabile, altamente stimabile della mia persona.

Sì, io non ero avvezzo a specchiarmi molto perché, quando ciò accadeva, era solo per pettinarmi e lavarmi i denti, per sciacquarmi il viso e per tagliarmi la barba. Tutte situazioni in cui un uomo, tenendo alla sua salute fisica, alla sua composta presentabilità elegante e distinta, non è quasi mai smorfioso in selfie elogiatori di sé stesso.

Ma usa, appunto, lo specchio solo per migliorare la già nobile sua raffinatezza. Per aggiustare e rassettare la sua indole innatamente, se non perfetta, almeno ambiziosa e slanciata verso un modello alto di perfezione estetica, lontana da ogni sciatteria e da ogni disgustosa repellenza del proprio io, remota dalla trascuratezza e protesa a un insistito miglioramento della propria apparenza esterna da far combaciare il più possibile, maggiormente alla propria interiorità romantica, oserei dire ottima. Inappuntabile.

Sì, il mio specchio è stato uno dei miei amici migliori. Sapeva dirmi, senza pronunciare una sola parola ma soltanto emanandomi, con la sua smerigliata superficie diffondente, la mia parvenza, che non era certo quella di un deficiente o di un brutto uomo del volgo.

E io, in segno di stima, accarezzavo e lustravo il mio specchio, donandogli baci soffici delle mie labbra appena disinfettate col dentifricio più cremoso ed elargendogli la brillantezza che non avevo poiché, come detto, all’epoca ero melanconico.

Al che, andavo in sala e accendevo lo stereo, infilando uno dopo l’altro tutti i cd di Sergio Cammariere.

Grande artista lunatico da non confondere però con quel fornaio di Nicolas Cage/Ronny Cammareri in Stregata dalla luna.

Ci rendiamo conto? Raramente ho visto e vedrò in vita mia uno zotico come Cage in questo film.

Il quale, senza battere ciglio, s’innamora di Cher, del suo rimmel e delle sue sopracciglia. E, cafone agghiacciante, con tanto di petto villoso da scimmione, all’improvviso l’afferra da manigoldo e quindi la inforna.

Lei s’innamora. Hai capito le donne?

Io son stato invece talmente rispettoso dei pudori e delle sensibilità del gentil sesso da passare per femminuccia, anzi, per asessuato.

Timidissimo, ai limiti del patologico, chiuso in me stesso. Un uomo che adocchiava, sapeva ma troppo titubante si poneva. Patendo sofferenze inaudite di deliri d’amore raramente concretizzatisi.

Un uomo però che, con enorme dignità, indossava ogni suo fallimento esistenziale e sentimentale con uno charme da far invidia ad Alain Delon.

Tant’è che la gente, vedendomi così apparentemente impassibile, prima su di me spettegolava e poi sbottava:

– Ma è impossibile! Possibile insomma che questo continui a ricevere delusioni a raffica e non gli fa né caldo né freddo? Cos’è di marmo? Cos’ha al posto del cuore? Un iceberg?

 

No, come vi ho detto e come sanno gli uomini malinconici e ora perciò malconci, noi di questa razza psicologicamente un po’ anomala, poco chiassosa, non esterniamo quasi mai i nostri dolori. Teniamo tutto dentro nel cuore.

Eppure, dai oggi e non me la dà domani, la maschera del lord si scioglie e la società bavosa ti lorda con le sue porcate. L’infima pusillanimità della gente mediocre ti combina brutti scherzi perché, mal tollerando la tua principesca elevatezza, vorrebbe che fossi un comune stronzo come tutti.

E succede che, abdicando ai ricatti più mendaci, anche tu ti sporchi e cadi preda delle tentazioni più indegne del tuo nome. Del tuo uomo.

Però, anziché diventare appunto uno qualsiasi che ride, lavora per tirare a campare, si diverte come uno scemo e prende tutto come viene senza porsi problemi, il tuo cuore non può mentire. No, devi starlo a sentire.

Fingi una felicità e un’allegria che non ti appartiene. E allora, alla pari di tutti i grandi geni tragicomici, per non sprofondare nella collettiva demenza, ti dai al demenziale.

Così, può accadere che diventi più stronzo di uno psichiatra, come nella celeberrima scena di Alta tensione…

– Sono curioso. Qual è l’esatta percentuale di guarigione dei pazienti, qui all’istituto?

– La percentuale di guarigione? Glielo dico immediatamente. Una ogni morte di papa.

– Una ogni morte di papa. Uhummm…

 

Ora, cosa voglio dire con questo? No, il papa non è morto. Anzi, mi sta simpatico il Bergoglio e spero che possa campare ancora a lungo.

E io non sono guarito da un bel niente.

Come Mel Brooks e come Monty, ho sempre avuto semplicemente più classe e più pudore. Così grande da esser preso per un imbranato… e un sempliciotto.

Questa come la vedete?

Se oggi ho un lavoro?

E che se ne fa Mel Brooks di uno squallido lavoretto da quattro soldi?

Lui è davvero il più ricco di tutti. E sapete dove.

Che peccato insomma non essere diventato Gregory Peck così come avevo sognato.

Ma sarebbe stata in fondo noiosa una vita da gentile, amabile signore.

Meglio essere come Mel. Un genio spaventoso, almeno secondo Mel, no, secondo me.

Sicuramente non secondo a te. Ho detto a te, sì, a te.

E non secondo il modo di vivere falso della maggioranza.

 

mel brooks vita da cani

 

 

di Stefano Falotico

Il Cinema perduto: la memoria nostalgica de Il nome della rosa, di un saggio che non indossa il saio e non prega col rosario


23 Mar

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– Maestro, posso chiedervi una cortesia?

– Chiedi pure, ragazzo.

– Mi distruggeresti una volta per tutte questi nani?

– Con molto piacere.

 

Come saprete, poiché voi sapete di me tutto e spesso fiutandomi e poi inevitabilmente rifiutandomi, vivo mi linciate e come se io fossi una strega mi bruciate, rattristandovi io coi miei rifiuti poiché uomo malinconico che suona il liuto e, avendo gran fiuto, non può accettare parimenti e inversamente voi in quanto maliziosi e infingardi, della mia anima ingordi e di pettegolezzi pronti a rendermi lordo, ecco… io rifletto nel silenzio delle mie scelte monastiche, forse soltanto dinastiche. Ereditarie d’una generazione famigliare avvezza all’innata dannazione della propria sanguigna, genealogica, dunque consanguinea idea alogica d’una realtà materialistica a cui noi, combattendola da sempre, schierandoci a muso duro contro le false credenze popolari, le superstizioni voraci, infrangendo un dio finto, opponiamo la resistenza lupesca degli uomini melanconici afflitti da troppo mal d’amore. Dai cangevoli umori. Da diavoli agnostici.

Un nostro sentimento accorato alla verità del nostro pulsante, romantico cuore elevato e immolato a magnificazione della santissima trinità d’una reale oggettività.

Siamo malati di licantropia. Così come recita Adso da Melk al suo mentore nella famosa biblioteca dell’abbazia.

Rimembro il tempo e medito severamente sulla dissipatezza dei vostri inutili giorni che si fingono allegri e si acconciano di frivolezze da me reputate stantie. E sconce.

Ho rivisto Il nome della rosa con Sean Connery, raffrontandolo poi con la serie televisiva con John Turturro.

So che mi screditerete e forse scomunicherete per questo mio lancinante dubbio che mi sta tormentando in modo martellante. Ma, dopo dovute e acute, appunto, riflessioni in merito, malgrado riconosca a Connery la sua allure magnetica e, nel rivederlo così calibrato, misurato, interpretativamente carismatico, debba io porgli e rinnovargli complimenti sentiti di stima profonda ed eterna, forse gli preferisco Turturro.

No, non bestemmio come il gobbo Salvatore/Ron Perlman, uomo eretico di penitenziagite e blasfemo, deforme di sue estetiche bruttezze poco piacevoli ai vostri sguardi giocondi.

Sono un giudice forse troppo frettoloso come Bernardo Gui? Lo riconosco. Eppure, nonostante la classe di Connery, Turturro, sì, maggiore finezza e sfumature psicologiche rilevanti al suo Guglielmo da Baskerville ha saputo sobriamente infondere.

Detto ciò, dopo averlo opportunamente recensito, posso asserire altresì, in pieno orgoglio, che Il nome della rosa con Connery è un grande film soltanto nell’ultima mezz’ora. Quando, nel tripudio incandescente ed evaporante su rifrangenze lunari fantastiche di un casino pirotecnico, fotografato e immortalato in modo crepuscolare da Tonino Delli Colli che giocò sapientissimo con luci languide, esotericamente di fiamme dardeggianti e taglienti il buio di un’era oscurantistica e tetra, esplode il putiferio salvifico d’una incommensurabile notte degli orrori e degli spettri smarriti di quel che fu ieri ed è già svanito.

Oramai tutto è finito.

La biblioteca, bruciata da cima a fondo, il luogo meraviglioso ove erano raccolti i maggiori manoscritti della cristianità, appassisce e crolla in un batter d’occhio nell’essiccante erosione dell’inesorabile tempo turbolento, anzi, s’inaridisce istantaneamente a crocifissione tombale e al contempo monumentale del suo stesso tempio maledetto. Covo di oscure macchinazioni inconfessabili, di luciferini ciechi che odiavano il riso. Forse amavano gli spaghetti. Ah ah.

 

La cultura e la conoscenza sono state distrutte dal progresso barbarico dell’imperscrutabile volere di dio.

Ma la vita va avanti e, come in Blade Runner, è tempo di morire. E forse rinascere.

Sì, adoro questo Cinema fuori dal tempo. Era più bello, più stupefacente.

E si respirava davvero l’aria mitologica della Settima Arte benedetta dal fuoco virulento e vibrante di storie strepitose che c’entusiasmavano in maniera vigorosa.

Il Cinema di allora profumava di leggenda portentosa.

Quando noi tutti, raccolti intorno a un falò, auscultavamo l’odore del nostro cuore e c’emozionavamo come bambini nelle abissali voragini stupende della sospensione mistica e metafisica del tempo.

Dei nostri templi…

Ora purtroppo questo tempo è stato distrutto dalla volgarità, dall’ignoranza, dalla superficialità di un mondo più medioevale di quei tempi bui dei quali vi ho narrato.

Buonanotte.

 

 

di Stefano Falotico

Il fallimento esistenziale è l’unica via possibile per un artista perché la vita cosiddetta normale lo annoia e obnubila, deprime e comprime, comprend’?


23 Mar

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Sì, ne sono sempre più fermamente convinto, in quanto osservatore della realtà. Spesso, casco nella trappola dei ricatti. E delle gatte, ah, me le gratto fottutamente. Al che, com’è palese e insindacabile, incancellabile che sia, io vita normale non so cosa sia da circa venticinque anni quando, al tintinnare dei primi turbamenti adolescenziali, volutamente m’arricciai in una vita claustrale, paludare, oserei dire rupestre. Scalando le sommità dell’Everest della mia mente e conducendola al K2 di nuovi livelli percettivi aggrappati al cuore come le corde robuste di un intrepido scalatore. Voi, uomini pusillanimi, definireste questo mio atteggiamento, semplicisticamente, psichiatricamente, all’acqua di rose come schizofrenia, come inconsapevole distacco dalla realtà materialistica e terrena fatta di edonismi e culto della vanità personale, a favore di un’incomprensibile, almeno da parte vostra, visione della vita che reputate distorsiva. Mi spiace deludere le vostre più nefaste e anche rosee aspettative. Io non offro nessuna rosa. Sì, malgrado forzature ignobili, pressioni esecrabili, perfino storpiature e psicologiche torture, asserisco in gloria ed eloquio affatto sconnesso, bensì mica tanto sommesso, perfettamente allineato al mio cervello che di neuroni rimesto ma soprattutto, alla mia anima baricentrica malmessa senza sciocche messe impestate, io di stati strani tempesto, perpetuandomi nel mio tempo, nel mio sacro tempio, nelle mie bislacche tempie, consacrando uno status emozionale giustamente singhiozzante, paciosamente alterato e vivamente squinternato, che da ogni frivolezza meschina e ruffiana dell’amore, borghesemente inteso, io continuo ostinatamente a rifuggire. Via da me le messaline. Deluso da questo vostro patetico poltrire insulso di moine e, appunto, amorini. Poiché il vostro amore è un diminutivo della parola stessa di amore e io, a contatto, senza lenti e vostri balzani, ottici filtri, quotidianamente con le vostre emozionalità da me reputate coscientemente inaccettabili e banali, mi sminuisco e apparentemente pare che regredisca quando, invero, il mio sentire è un crescente, scolpente, scalpitante ingigantimento di un’anima oramai dipartitasi dal comune vivere e dallo stolto gioire dei dementi. Una vita mia modellatasi nella fluidità metafisica sempre più lontana dalle logiche corporee dei vostri cardiaci battiti senza vero, profondo calore. La mia esistenza è sempre più remota sebbene ancora non del tutto eremitica. Perché gradisco, all’albeggiare di questi giorni primaverili, essere perennemente, immutabilmente puerile. Uscire ai primi battiti di sole fioco, dardeggiante laconico, mettendo in moto la mia macchina a benzina e olio, dunque istradandomi, prima del fracasso e del casino dei vostri loschi traffici, dei vostri alti tacchi, dei vostri grassi tacchini e dei vostri frontali cranici sbullonati, in direzione d’un locale già aperto nel quale possa un caffè sorbirmi mestamente, appaiandolo alla mia anima così precocemente, innatamente lesta da esser stata subitaneamente non più desta, quindi presto destatasi e perciò allontanatasi da ogni scema estate e da ogni carnascialesca festa, in quanto, addormentatasi in un prematuro, secondo voi odiabile, per me invece amabile, scontro con una realtà da bestie non addomesticabili, da me considerata insanabile, ché preferisco la morigeratezza malinconica dei miei beati, lievi sospiri fragranti, molto friabili. Evviva il belato, lo spellato, il pelato e il prelato. Che boato! Son senza fiato. Sì, ieri mi ha telefonato un amico. Gli ho porto, sì, si può dire, un solidale e al contempo compassionevole ascolto. E lui mi ha riferito dei suoi drammi personali, delle sue lotte giuridiche con la sua malasanità mentale. Ascoltare, sì, potevo e posso fare solo quello. Alla mia seconda risposta, usatagli a mo’ di consigliera supposta da lui ritenuta supponente ed egoistica, mi ha al solito detto, screanzato, che devo crescere e rispettarlo in quanto più uomo di me. Mi son tolto sol il dente. Ardendolo di verità che lui testardamente vuole rifiutare con ostinatezza che mi fa ribrezzo! Allora perché mi ha telefonato? Son solito dire il vero. Per questo sono giustamente solo. Perché non posso dire a un amico che la sua vita senza sole non è una sola. Devo essergli sincero e spiattellargli che invero è la vita che s’è scelto in quanto scemo e mai sincero, è tutto un suo piagnisteo coi ceri, rimembrando quel che era senza più prospettiva di nuove ere, continuando a camminare nelle finte stabilità delle sue suole e preferendo l’ipocrisia da suora. E io non sono dio per potergliela cambiare. Se cercava consolazioni, è pieno di donne che vogliono solo bacetti e coccole. Ma quali ricotte, che bigotte. E tante idiozie con Nutella e vai che sei bello, dimmi che sono bella! Così per te belerò e tutto mi berrò. Sono un monaco d’abbazia?

Mah, di mio sono oggi un fantasma nel campanile, domani suono le campane, guardando il fienile della campagna e bagno il pane di pene da pover’uomo ricchissimo senza porcile, senza besciamelle, ché voi sapete cosa sono, senza ciambelle di buchi da stupidi fringuelli. No, non sono cambiato. Ed è una lezione potentissima, devastante. Inculante, incurabile!

La grandezza di chi non accetta amicizie e amori senz’amore, solo conditi repulsivamente di bone, puttanesche more, flagellandosi e sfracellandosi negli avidi compromessi dello svendersi e poi, avendo a mille la bile e a bestia, pensa che la vita sia solamente inevitabilmente questa. Senza stile, una vita che a lui fa svenire di piaceri e risatine, a me fa morire solo di disgusto per colpa della sua idiota frenesia figlia malata della stirpe della sua squallida borghesia.

Se questa è la mia estrema volontà, allora che così sia, senza più squallidi scherzetti di pessimo gusto omicida e induzioni al suicidio e alla vita suina. Io a voi non sono supino, sono un volpino, un ottimo lupino.

No, mi spiace, non ha funzionato. Io ho perso il pelo ma non il vizio di rompervi il cazzo e gli orifizi. Perché non amo quelli che delle anime diverse sono ricattatori assassini se non ti attieni ai loro schemi precettori e alle loro violenze da calunniatori e untori. Voi, falsi mentori, mi darete del malfattore, miei fattoni. Evviva il fattorino!

Parola del Signore, un uomo che ti sbatte il bastone in capa, mie capre e miei bestioni.

Evviva il mio fustone, ti do io la frustrata, ecco pigliati quell’altra frustata.

Lasciami adesso magnare la crostata, sennò da me piglierai altre palate, altro che patate, nel costato.

Sì, essere onesto, questo mi costò ma io non ci sto e te lo do.

Da cui… do re mi fa sol sol la si , nel vostro mondo di balli, galli, canti e hullygully, io, non vi preoccupate, sto a galla, in quanto alligatore che morde i bulli.

E son pugni, altro che prugne e pugnette.

Poi scivolo nella melma e nelle sabbie mobili. Ma quasi quasi domani mi compro un altro antico mobile.

Rustico, australopiteco e di gusto.

di Stefano Falotico

Il famoso sessappiglio di Morando Morandini, parola inventata dal compianto decano dei critici italiani a proposito di Richard Gere e altri/e belloni/e


22 Mar

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Ecco, se digitate sessappiglio o anche sessapiglio su Google, non troverete, a parte forse il dizionario Olivetti, nessuna corrispondenza.

Perché sessappiglio non esiste in italiano. Eppure, il dizionario dei film Morandini n’è colmo.

Nella recensione di Affari sporchi, il critico suddetto e compianto, a proposito di Richard Gere, dice o meglio diceva testualmente quanto segue:

Gere esibisce il proprio sessappiglio come una nave inalbera la bandiera di combattimento.

Tant’è che questo suo neologismo, coniazione scherzosa, come ha ben osservato qualcuno, del più comunemente noto sex appeal, è entrato a far parte del gergo di molti. Addetti ai lavori e non, cinematografici e non, per ironizzare sull’evidente carica sensuale di un attore o di un’attrice. Sensualità evidente e lapalissiana nel caso del succitato Gere.

Ma anche una sensualità talmente sfacciata e appunto palese da diventare, in alcuni film, eccessiva, fuori luogo e ridicola. Tale da inghiottirsi la serietà della performance.

Insomma, un uomo talmente sexy, affascinante e carismatico, soprattutto per il gentil sesso, da avere non tanto il sex appeal bensì, ah ah, il sessappiglio. Che suona molto come presa in giro.

Una sensualità così debordante da risultare imbarazzante. E patetica.

Più volte, in alcuni miei scritti, io stesso ho usato questa parola, cambiandola a mia volta e storpiandola in sessapiglio con una sola p. Ché rimbomba ancora di più di sonora bertuccia all’erotismo plastificato di massa.

Quello che mi chiedo però, dopo aver visto L’incredibile vita di Norman e Gli invisibili, ove Gere è tutt’altro che sexy, ma davvero Gere aveva e ha il sessappiglio?

O era solo invece un grande attore mai preso troppo sul serio per via del fatto che era eccessivamente bello?

Sono molti i casi di attori e attrici tanto belli che la lor bellezza li ha mangiati vivi. La classica arma a doppio taglio.

A tutt’oggi, ad esempio, Brad Pitt non viene ancora considerato un grande. Ma solo un discreto attore, appunto, belloccio per antonomasia.

Insomma, per essere dei grandi attori, bisogna per forza essere Dustin Hoffman? Per essere delle grandi attrici, bisogna essere necessariamente Meryl Streep?

Due che, rispettivamente, non sono quelli che si possano definire propriamente dei “figoni?”.

Di questo ne siete e siamo sicuri?

Come dice il detto: quella lì è bravissima ma è pure bellissima. Il che non guasta mai.

 

di Stefano Falotico

Il fascino di un attore risiede spesso nella faccia e negli occhi, vedere e toccare per credere


22 Mar

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Sì, da tempo immemorabile son afflitto da una sindrome ineludibile.

Così come Bob De Niro non può cancellare il suo neo dalla guancia, particolare segno distintivo della sua atipica bellezza anomala, differente dai canoni classici e dai mascelloni alla Brad Pitt e Ronn Moss, io non posso disincagliarmi dalla mia espressione imbattibile.

Mio cavallo di battaglia infrangibile. Posso provare a imitare Johnny Depp e la somiglianza, sì, c’è. Indubbiamente. Eppure sono anche simile ad Al Pacino e, appunto, a De Niro.

Attori più malinconici e meno freak rispetto al ribaldo Johnny.

Posso fare il comico, spesso lo sono per mia natura imbarazzante e sfacciata, ecco. Ma non convinco appieno nella parte “mostruosamente ridicola” di Benigni. Sguardi ben attenti intuiscono, al mio terzo aggrottar la fronte, a basamento di un naso pronunciato e aquilino, che Tim Roth mi fa un baffo. Sì, sovente mi lascio crescere i baffi poiché, se la donna baffuta è sempre piaciuta, D’Artagnan fa più vintage, più uomo d’antan. Forse d’annata. Come il vino stagionato, più passa il tempo e più divento prelibato per bocche buone. Quelle alcoliche d’amore rosé di donne osé e ipercaloriche in tutti i sensi. Delle ottime assaggiatrici, non so se massaggiatrici, sicuramente stiratrici e grandi attrici. Sì, con me, Meg Ryan di Harry ti presento Sally è sostanzialmente amatoriale nel suo orgasmo simulato. Con me, le donne sanno spingersi a finzioni ben più esagerate. Che audacia! Grida spropositate, platealmente finte e fottutamente stronze. Urlano come delle pazze… e che cazzo! Per forza, non gliela fo, come dicono in Toscana, manco se mi tirano i capelli e le orecchie. Eppur, tiranti, vibranti e cazzeggianti vanno i nervi a fior di pelle nei loro for(n)i di tante palle… ficcanti che mi raccontano per non farmi incazzare in maniera sbraitante. Sì, come mi prendono per il culo le donne, nemmeno Casanova. Quello se ne fotteva e, per consolarsi, anziché ovulare le galline spennacchiate, si cucinava delle uova al tegamino, cantando nello spiazzo della sua terrazza che affacciava al Canal Grande. Poiché lui prendeva due piccioncine con una fava di Fuca e ed era perennemente fucker d’una fica merdosa con cui sognava lo sfogo iroso, eppur si ammalò di scolo ondoso e odioso. Ah, poveri miei bavosi.

Ah ah. Come sono autoironico. Farò la fine di Sean Connery. Chissà!? Anni fa ne ero convinto. Stavo perdendo i capelli. Ne perdevo a ciocche. Adesso son ricresciute e al massimo sarò come Nicolas Cage. Un uomo The Rock su stempiatura d.o.c.

Un vero man da stress da vampiro. Sì, a me è successa la stessa cos(ci)a. Dopo aver fatto l’amore con una gnocca come Jennifer Beals, sì, era indubbiamente bella colei a cui diedi piacevolmente del tu e fai tu ché è meglio così, mi sveglio in piena notte di soprassalto, devastato da languori affamati mai visti e mi ficco in gola degli scarafaggi. Pappandomeli con tanto di volto schifato da puro Scarface. Non sarò mai Alain Delon ma sono bassino quanto lui. Non sarò Liam Neeson per la ragione contraria. Liam è stato l’eroe della serie Taken. Di mio, non ho intenti vendicativi bollenti ma ho solo voglia di quella cosa viola con cui l’uccello vola? Macché, ardo dentro, mi fanno gola, ah che acquolina, i ravioli al vapore roventi, ordinati alla rosticceria cinese, splendida carne abbrustolita del mio pollo fritto al limone per una via oramai take away. Eppur conservo il viso roccioso di Clint Eastwood con tanto di foto simile ai suoi loghi della Malpaso e Warner Bros nei titoli di testa dei suoi capolavori crepuscolari. Color crema e nocciola tendente al noir, marrone tendente all’uomo duro che fa venire due marroni di ferro, bianco lattiginoso su neri, no, nei sparsi lungo tutto il mio corpo su carnagione chiara da cowboy del Texas e uno sfrontato cavaliere pallido del mio cianotico esser spietato. Soprattutto verso me stesso. Insomma, le ho tutte. Una testa di cazzo molto The Mule. E dire che scopai anche una mula e poi una mulatta quando ancora avevo i denti da latte. Datemi quella stalla, no, stella di lattea e fatemi sceriffo. Siatemi stalloni, spaccatemi il grugno e avrò anche il labbro pendulo e affascinante di Sylvester.

 

di Stefano Falotico

C’era una volta… a Hollywood? Ah, questo teaser è proprio brutto, al momento vince sempre The Irishman


20 Mar

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Ma che roba è questa qua? Ora, io non sono uno che giudica un film da un trailer, anzi, da un teaser.

E Tarantino è troppo imprevedibile per poter capire che razza di film abbia tirato fuori soltanto assistendo a un minuto e mezzo di filmato.

O forse ero stato io a farmi un’idea ben diversa di questo progetto. Dapprima, se ne parlò come di una sorta di noir molto drammatico incentrato su Charles Manson. Poi capimmo che Manson e la sua setta avrebbero fatto solo da sfondo, alquanto velato per quanto cruciale, alla vicenda narrata. Che invece verte principalmente su un attore e la sua controfigura.

Dunque, ripeto, ero stato io a prefigurarmi un film dalle atmosfere diverse che, almeno a pelle, da questo primissimo assaggio, non ho respirato e non traspaiono.

Pensavo a qualcosa di cupo.

Inoltre, continuo a sostenere che Margot Robbie non assomigli assolutamente a Sharon Tate, appunto, l’ex moglie di Polanski trucidata da quegli psicopatici per mandato di quel tipo manicomiale di Manson.

È lui al minuto 1 e 09? Credo di sì. L’attore Damon Herriman.

E Rafal Zawierucha interpreterà il “cameo” di Roman? Ma smettetela!

La Robbie qui appare molto bella ma, ripeto, come già scrissi, la sua è una bellezza da Baywatch. Con Sharon Tate ha poco a che vedere. Sharon era conturbante, maledetta, insomma una da Polanski. La Robbie, per quanto molto avvenente, ah, niente da obiettare in merito, mi è sempre parsa un po’ di plastica.

DiCaprio e Pitt sembrano le brutte copie di Robert Redford e Paul Newman e chi è quello lì? Quello sarebbe Bruce Lee? Ma dai. Assomiglia a Bruce Lee più il cinesino da cui ogni mattina vado a prendere il caffettino. Ed è anche più veloce. In tre secondi, prepara un ottimo caffè, cazzo, proprio buono. Con tanto di piroetta sul bancone e spaccata a chi non paga il conto.

Questo Mike Moh non c’assomiglia pe’ niente, parafrasando la celeberrima battuta di Roberto Benigni in Johnny Stecchino.

Fra l’altro, sfatiamo un altro luogo comune. Secondo cui i cinesi sarebbero tutti uguali e con la stessa faccia.

Infine, Pacino? Sì, dov’è finito? In questo trailer, di Al nemmeno l’ombra.

Insomma, Quentin, al momento questo suo film mi pare la sua solita gigionata, spacconata, sostanzialmente una mezza minchiata come The Hateful Eight.

Sa bene, signor Quentin, che io non giudico mai dalle apparenze. Ma mi sa che lei prenderà una bella trombata da Martin Scorsese col suo The Irishman.

Sebbene, lo ammetta, io sia il primo a temere che The Irishman possa deludere enormemente, tragicamente le mie aspettative. Il mio incubo peggiore.

Ma così non sarà e a Hollywood, un giorno, ricorderanno che c’era Scorsese mentre lei, Quentin, stava molto più in basso. A lustrargli le scarpe come Frank Vincent di Quei bravi ragazzi.

Si fidi. Lei è un bravissimo sceneggiatore ma con la classe e la cultura vera di Martin ha poco a che vedere, a parte DiCaprio.

E ho detto tutto.

Sì, al momento gliele suono, caro Quentin. Questo trailer fa veramente schifo e non pochino. Sembra lo spot del Galbusera.

Mio Quentin, mi sa che, se continuerà con queste cazzate, la verrò a trovare a San Quintino. E le offrirò, fra un secondino e l’altro che gliele danno di santa ragione, un farcito panino. Più nutriente di questo suo Cinema macrobiotico e invero un po’ zotico. Di troppa carne al fuoco, senz’anima se non citazionismi a iosa, come al solito. Un Cinema ipertrofico, pieno di cinquemila idee da far gridare tutti al capolavoro, invero sterile, secondo me dimenticabile, iper-frenetico, esagerato con tanto di finto logo della Columbia.

Sì, un buon panino, mio Tarantino. Perché lei spesso fa impunemente il paninaro e ficca troppa “senape” nei suoi dialoghi.

La senape è buona. Se troppa, è stomachevole.

E sa che le dico? Sebbene io sappia che mi linceranno vivo tutti i suoi irriducibili ammiratori, qui lo dico e non lo nego. Lei ha realizzato tre grandissimi film. Che sono Le iene, Pulp Fiction, Jackie Brown.

Poi, sinceramente, ha proprio rotto le p… e. Sì, lei è un pallonaro.

Ripeto, staremo a vedere. Mi auguro per lei, anche per me, in quanto spettatore che ama le grandi robe, che sia davvero un capolavoro.

Ma la prima mia impressione m’induce a un severo giudizio lapidario.

Questo è.

E, se non mi sbaglierò a visione avvenuta, la saluterò una volta per tutte.

Quasi quasi meglio Zeffirelli.

 

di Stefano Falotico

Il professore e il pazzo, ennesima storia banale di genio e sregolatezza?


20 Mar

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Ebbene, siamo agli sgoccioli. Domani in sala approderà Il professore e il pazzo.

Paradossalmente, esce prima da noi che negli Stati Uniti perché in America sta avendo problemi distributivi.

Doveva uscire lo scorso anno e invece son sorte delle complicazioni.

Segna finalmente il debutto, parentesi esclusa di The First, serie televisiva, di Sean Penn come attore di Cinema dopo quattro anni, su per giù, sabbatici. In cui si è dato a cause umanitarie e anche alle case delle sue mille amanti che non poco devono averlo distratto dalla celluloide. Chissà, forse una di queste sue sempre bellissime (detto per inciso) amanti aveva un po’ di cellulite.

Insomma, dopo divertimenti e tanto impegno, Sean è tornato a recitare con dedizione di ottima dizione e pure col dizionario. Ci mancava questa faccia lupesca, un attore che, come disse il suo amico Bob De Niro, al di là della conclamata bravura, è sempre stato specializzato in personaggi alquanto borderline, molto sopra le righe, non propriamente degli straight men.

Personaggi che si vanno a cacciare sempre in qualche guaio per il loro carattere iracondo e manesco, per colpa delle loro personalità indomabili e furenti.

Ed ecco allora che, a prima vista, questo pazzo rinchiuso in un manicomio criminale di tal suddetto film, gli calza a pennello.

Sean ha il viso spigoloso dell’uomo mangiato vivo da mille dubbi, distrutto da ineludibili complessi di colpa, angariato dalla sua anima angosciata, tormentato più da sé stesso che dagli altri.

Sono curioso di vedere questo film. Tempo fa, ironizzai in merito. Perché le storie di pazzia, soprattutto sul grande schermo, mi han sempre puzzato di romanzata idiozia.

La pazzia è una cosa alquanto seria e non bisogna né scherzarci in maniera cafona né prenderla in maniera spesso falsissima come fanno e han fatto molte versioni, appunto, cinematografiche. Assai retoriche.

Nemmeno il tanto osannato The Master secondo me non è, in fin dei conti, un grande film. Il miglior film sulla pazzia rimane, a distanza di più di quarant’anni dalla sua uscita, il classicissimo Qualcuno volò sul nido del cuculo. Forte, cattivo, vero. Come il miglior Cinema degli anni Settanta.

Esistono molteplici stati di follia. Chiunque di noi, sostanzialmente, n’è affetto. Solo che, obbligato giocoforza ad auto-ingannarsi per sociale convenienza, mente alla sua anima e all’apparenza pare normale.

Nessuno di noi è normale, per fortuna. La persona cosiddetta normale non esiste ed è un bene assoluto che non esista. Perché altrimenti sarebbe un automa, un’anima vuota, un essere robotico.

E non soffrirebbe, non gioirebbe, non si emozionerebbe. Le emozioni stanno alla base di ogni scompenso psicologico, sono il basamento, ripeto, importantissimo e peculiare dell’anima umana, senza di quelle saremmo morti oppure lobotomizzati nel cuore, prima ancora che nel cervello.

Tutti noi, nel corso della nostra vita, a causa di eventi negativi, di sfortune personali, di forti delusioni, appunto, affettive, possiamo incappare nella “pazzia”. O perlomeno in stati psicologici che si avvicinano in un certo senso all’anormalità, all’alienazione, alla dissociativa percezione della realtà, perfino alla demenza e alla schizofrenia più anomala.

Continuative situazioni di stress insostenibile, ad esempio, possono far crollare una persona. Che, deprivata dei suoi slanci vitali, si chiude nel suo mondo. E nell’insania mentale addirittura si crogiola in forma malsana o poco socialmente accettabile.

Perché il grado di sofferenza emotiva è talmente forte e tale da spaccare ogni equilibrio e trascinare una persona, anche la più sensibile, anzi, più sensibile è e più ci casca, negli abissi della perdizione, oserei dire, neurologica.

La pazzia può essere cronicamente patologica, vale a dire incurabile. Cioè, una volta che una persona è stata colta dalla pazzia, la pazzia stessa non è più sanabile e la persona non è in alcun modo recuperabile. Curabile…

Oppure può essere momentanea. Dovuta, come detto, soltanto a esaurimenti nervosi causati da una concomitanza di negativi fattori devastanti.

Stiamo parlando, sia chiaro, di pazzie “psicologiche”, non dettate da cause organiche. Altrimenti il discorso cambia.

Nella maggior parte dei casi, va altresì detto, che chi diventa pazzo è assai difficile che possa ritornare sano.

Anche perché i medici che vogliono curare il pazzo sovente adottano metodi repressivi altamente inibitori, affatto sanatori, anzi deleteri e controproducenti, paralizzando ancor più la già disturbata, rotta sfera emotivo-cerebrale della persona folle.

Prendiamo Leonardo DiCaprio di Shutter Island. Torna bello tranquillo a casa e scopre che i suoi due figli son stati affogati da sua moglie, a sua volta suicidatasi.

Voi avreste retto? No, nessuno può reggere a una tragedia del genere. Neppure Rambo.

Anche Rambo, nonostante la sua resilienza e la sua forza impressionante, prima o poi sarebbe franato a pezzi. Delirando a iosa.

C’è solo un uomo al mondo capace di essere come Sean Penn di questo film ed essere anche più bravo e bello di lui.

Io non starò a dirvi chi è. Non è compito mio. Informatevi e scoprirete di chi sto parlando…

Così è, l’unico uomo capace di essere stato temporaneamente pazzo, si fa per dire, e poi più colto di un professore universitario.

Mah…

Chi sarà?

Non lo so.

Credo che voi lo sappiate.

Io so una cosa. Ribadisco. Nessun uomo è pazzo. E tutti i pazzi comunque sono curabili.

 

– Signor Falotico, dissento. I pazzi esistono.

– Certamente, signor psichiatra. Non sono nessuno per asserire il contrario e certamente lei, per via dei suoi studi, ne saprà più di me. Ma la domanda che vorrei porle, cortesemente, è questa. Secondo lei dunque i pazzi non sono recuperabili?

– Non ho affermato questo. Voglio dire che sviluppano delle patologie contro le quali bisogna essere intransigenti, severi.

– Ovvero?

– Vede? La pazzia, come lei ben sa e come ha ben enunciato nel suo scritto, e mi permetta di complimentarmi con lei, assume varie forme. Esiste la pazzia innocua e la pazzia criminosa. In questo secondo caso, non si può transigere. E bisogna intervenire duramente.

– Cioè?

– Signor Falotico. È inutile che lei continui a pormi domande così retoriche di cui conosce a menadito la risposta. Comunque, se vuole che pedantemente le risponda, bisogna usare i farmaci. E anche potenti.

– I farmaci non servono a un bel nulla. Non facciamo altro, così facendo, che andare a spegnere dei recettori muscolari e neurochimici imprescindibili per la salute psicofisica del paziente trattato. Non è la cura adatta.

– Vede. Lei mi fa molto ridere. Vorrebbe confutare la mia scienza dall’alto della sua semplicistica presunzione? Se io ho studiato e, sa, ho sudato sette camicie per essere arrivato dove sto oggi, conosco la mia materia sicuramente meglio di lei. Che parla tanto per aprire la bocca.

– Io non l’avevo offesa. Ma perdono la sua arroganza.

– Ebbene. Visto che fa tanto il saputello con tale balorda sfacciataggine e quel sorrisetto per cui le dovrei dare una sberla, anziché continuare ad assecondarla, mi spieghi allora secondo lei come funziona…

– Questo lei come se lo spiega? È forse il suo trattamento, la sua scienza ad aver generato questo? Ecco, se questa persona avesse dato retta alle sue fandonie, e non si offenda se appunto le definisco scemenze, questa persona sarebbe oggi un vegetale. E invece legga, sfogli queste pagine. E guardi anche questa foto.

Questa le sembra l’opera di un pazzo? E questo il viso di un pazzo?

– Ah, ma trattasi di un caso diverso. Abbiamo a che fare con un ex pazzo geniale.

– No, non credo.

– Invece sì. Si tratta, come si suol dire, dell’eccezione che conferma la regola. Di una rarità. Sa, su mille pazzi presi in cura, soltanto uno su mille, come dice la canzone di Morandi e Tozzi, ce la fa. Gli altri 999 non ce la faranno mai.

– E lei si è mai dato una spiegazione perché non ce la facciano? Perché sono più stupidi?

– Esattamente. O, per meglio dire, perché sono pazzi. E pazzi rimarranno tutta la vita. E non possiedono le risorse per emanciparsi dalla loro follia. Quindi, l’unica maniera per far sì che la loro follia rimanga contenuta e non possa degenerare in azioni violente contro sé stessi e gli altri, mi spiace ammetterlo ma è così, è appunto l’intervento farmacologico e neurolettico.

– Non è vero.

– Ah, ma lei è incredibile, sa? Guardi, mi ha già fatto perdere troppo tempo. Io sono un professore con tanto di cattedra! Lei è solo un pagliaccio che m’ha proprio stufato. La saluto, addio!

– No, guardi. Mi perdoni. Io non volevo offenderla.

– Questo l’aveva già detto. Ma, nonostante i miei avvertimenti, lei sta continuando inusitatamente a insultarmi.

– Le chiedo umilmente scusa. Mi son lasciato prendere dalla foga.

– Va bene. Adesso torno a sedermi. Però si sbrighi perché devo tornare in ambulatorio.

– Vede. Io non credo che questi 999 siano pazzi. Sono persone che voi non volete ascoltare e non volete aiutare perché siete rigidi e ragionate col culo.

– Ah, ma allora lei è veramente pazzo. Come si permette?

– Mi permetto e ora stia zitto. Mi spiega come sia stato possibile che questo pazzo e quest’altro pazzo che, secondo lei e tutto questo ridicolo, fantomatico reparto medico, avevate considerato irrecuperabili, si sono salvati?

– Perché sì.

– Perché sì che significa? Non significa nulla. Si sono salvati perché hanno cominciato a cercare nella vita il loro obiettivo, la loro anima anziché farsi rincoglionire dalle vostre diagnosi da quattro soldi e farsi rimbecillire dai vostri farmaci.

E qui mi fermo.

– Sì, è meglio che si fermi. Perché sta parlando senza conoscenze. Senza scienza!

– No, non mi fermo.

– Ah, ma allora lei è infermo. Va fermato.

– No, va fermato lei. Sa cosa diceva Einstein? Ognuno è un genio. Ma se si giudica un pesce dalla sua abilità di arrampicarsi sugli alberi lui passerà tutta la sua vita a credersi stupido.

– E quindi? Che fa, Falotico? Da lei non mi aspettavo che mi cadesse in banalità da citazionismi di Facebook. La credevo meno sciocco.

– Dico quello che ho detto. E lei non ha il tempo né la voglia per fare il suo lavoro come si deve. Veda di prendere meno soldi e d’interessarti davvero ai suoi pazienti.

 

Buona serata.01718325

di Stefano Falotico

Genius-Pop

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