HALLOWEEN: Venezia, la città del JOKER – Un racconto di Stefano Falotico e tutti a vedere THE IRISHMAN

01 Nov

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Dopo la parte divertente, ladies and gentlemen, dopo la mia brevissima esegesi su The Irishman, il pezzo forte.

Ovvero, un racconto di sublime fattura e melanconia pura.

Poiché, bambagioni, ricordate:

il Falotico sa essere battutista, grande autista e a volte nichilista, nei giorni no è un fancazzista, quando è triste diventa semi-autistico e sfodera espressioni da ebete come Ryan Gosling, ma è uomo nonostante tutto di carisma.

E scrittore trasformista. Che può servirvi una barzelletta da lui riscritta, recitata con far da poliedrico artista, ma anche un racconto gotico e al contempo barocco.

Il Falò non è un uomo ricco e, a differenza di quando fu infante, non è più riccio.

Eppure vive al di sopra di ogni squallido moralista, è un uomo iper-sensitivo che non ha bisogno di parlare come un qualsiasi deficiente logorroico e triste, sa porsi a un concettuale livello della realtà da lasciare annichiliti tutti col solo potere dei suoi denti ingialliti e del suo fascino da uomo giammai finto né ancora coi capelli tinti.

Non lo fate incazzare, pensando che sia un coglione perché, altrimenti, da apparente quasi handicappato, diventa qualcosa che nessuno aveva previsto.

Venezia, la città del Joker

Come molti di voi, cinefili appassionati e amanti della più roboante, fulgida Settima Arte smagliante, sapranno, alla 76.a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, fu presentato Joker con Joaquin Phoenix.

Ecco, io fui tra i fortunati ad assistere all’anteprima stampa di tale magnifica pellicola giustamente incensata dalla critica, già amatissima dal pubblico e in vivida, squillante rampa di lancio per sbaragliare la concorrenza alla prossima edizione degli Oscar.

Poiché, dopo una fila interminabile, dopo un’attesa spasmodica di proporzioni disumane poiché, febbricitante ed eccitato, elettrizzato e ammantato dal sole furentemente abbacinante dell’ultimo cocente giorno d’agosto atmosfericamente assai rovente nel quale, di première mondiale molto eccitante, Joker fu proiettato, sudai accaldato e d’anima piacevolmente accalorata fra la calca degli spettatori allineati dietro le transenne ad aspettare che le maschere strappassero i nostri biglietti, fremendo nervosamente esaltato nell’essere già incoscientemente consapevole che avrei visionato un film immediatamente annettibile alla storia del cinema più emozionalmente sfolgorante e indimenticabilmente eterna, radiosamente conturbante.

Tanta mia infinita, sudata attesa non fu affatto delusa. E, a proiezione terminata, di Joker rimasi ipnoticamente estasiato.

Un capolavoro sostenuto da una superlativa prova attoriale di un Joaquin Phoenix monstre, spaventosamente bravo e, in ogni senso, paurosamente magnetico.

Capace d’infondere al suo personaggio tutte le imbattibili, malate afflizioni di cui innatamente soffrì imperituramente, capace di trasfondergli tutta l’esiziale sua dannazione tremenda, tutta la sua lancinante flagellazione atroce e la commovente disperazione di un uomo che, dopo un’immane solitudine sin troppo dolorosa, dopo tanti suoi romantici e al contempo disperati patimenti strazianti, risorse feroce, erigendosi nella gloria apoteotica d’una vendicativa rinascenza stupenda, furibonda, ambiguamente armonica e spietatamente catartica.

Finita la proiezione, dopo la standing ovation sacrosanta tributata a quest’epocale pellicola già storica, dopo il doveroso tributo riservato a questo fortissimo instant classic oramai già considerabile come un’indelebile pietra miliare meravigliosa, passeggiai in lungo e in largo per il Lido veneziano.

Dunque, ancora avvolto dall’alone del magico incanto trasmessomi nell’anima da tale pellicola straordinariamente romantica e vigorosamente stupefacente, a passo felpato, discretamente ritornai nella mia camera d’albergo.

M’assopii per molto tempo e, al mio risveglio, con mio sommo stupore m’accorsi che il tramonto già declinò nella cupezza spettrale della notte più fonda e ancestrale.

Al che, dopo essermi sciacquato il viso, dopo essermi adeguatamente pettinato e rassettato, con enorme compostezza ed energica spavalderia, uscii dalla mia camera per immergermi nuovamente tra le fioche luci intermittenti e sottili d’una notte veneziana misteriosamente tenebrosa. Che illuminò il mio cuore di nuovi, impennati, inaspettati, emozionali bagliori e onirici, esistenziali turbamenti imprevisti, accarezzandomi di soavi, tetri torpori e di delicatissimi, emotivi languori bellissimi.

La strada era assolutamente deserta. Come se fossi precipitato in un film di zombi ambientato in laguna.

Mi fermai a una fontanella e bevvi ogni goccia zampillante d’acqua limpidamente sgorgante, sorseggiandola fra le mie labbra insecchite dall’afa di quest’arida notte dai lineamenti mortiferi e poco raggianti.

Quindi, mi sedetti a una panchina. Situata nel mezzo di un parco desolato, avvolto dalle rifrangenze rarefatte dei raggi lunari mescolati alla flebile illuminazione di antichi, rustici fari.

Sprofondai nella più mistica contemplazione, rimembrando i miei inquietanti trascorsi. Rivivificandoli nel fulgore melanconico d’una sopravvenuta, mnemonica rinascenza fervida.

Poiché, nella leggera rievocazione del mio ondivago, turbinoso passato enigmatico, sentii accendersi dal profondo della mia anima fremente lo scalpitio e il potente vibrare d’ogni mio apparentemente appannato, dimenticato ricordo che credetti d’aver nel mio inconscio per sempre seppellito, d’aver sigillato e inconsapevolmente rimosso, d’aver segregato nel mio cuore inabissatosi nella più nera dimenticanza torpida. Imprigionato come fui tra gli anfratti ingannevoli dell’amnesia più criptica, obliante ogni mia addolorante ansia che però pensai d’aver definitivamente vinto nel mio spensierato presente sereno, poco rischioso e non più meschino, in verità ancora poco lindo.

Risentii, con vigore e vivissimo dolore, le emozioni persesi fra i meandri felici della mia apparente, attuale, immacolata lindezza cristallina, rivivendo immantinente, nel ricordo più a me ferente, i tempi assai bui in cui, invece, prima di evolvermi a ritrovata, sfavillante vita rigeneratasi, mi smarrii e angosciai come il personaggio di Joker, eclissandomi tristemente nel perpetuo, ectoplasmatico, mortificante tormento.

Oh sì, m’assonnai nel disincanto e nell’amarezza, trafitto da perenni, estenuanti dubbi amletici e avvinghiato da paure permanentemente preoccupanti.

Celandomi nel silenzio più terrificante, triste e agghiacciante.

Come Joker, son qui adesso a Venezia. Una Venezia deserta in cui non passa anima viva, rischiarata da un plenilunio fluorescente e luminosamente flebile, ai piedi d’una luna piena che coi suoi teneri, morbidi riflessi, ogni mia trascorsa sofferenza illanguidisce e coccola come un bambino allegro che ride, giocando col dondolo.

Infatti, alzando gli occhi al cielo, da lassù, questa luna gioconda vedo brillare e mi sembra che il suo volto ovale sia stranamente truccato dalla cosmesi decorativa dei suoi indistinguibili, luciferini, indistinti eppur profondi crateri che l’umanizzano in una parvenza da sinistro viso demoniaco simile a quello d’un pagliaccio scuramente ridente.

Qui, solo a Venezia, mi sento come il clown Joker, impallidito dall’era mia trascorsa in cui giacqui nella brace della mia insanabile ira primordiale che, dalle tenebre del mio passato a me stesso ignoto, sta forse armoniosamente corroborandosi e intonandosi alla maschera più vera del mio innato ribelle dannatamente sincero, sta dipingendomi nella svelata bellezza pindarica della mia anima colorita, pregna e intrisa di tante contradditorie, giuste emozioni variopinte, un’anima che, per troppo tempo, ingiustamente punendosi e colpevolizzandosi senz’alcuna ragione concreta, si dissipò nella tetraggine per colpa di tanti miei incontri sbagliati e a causa della viltà crudele di tanti amici infingardi e assurdamente maligni.

Qui, nello scroscio pacato della mia riagguantata acquiescenza, sulle rive della mia perennemente tormentata, mai terminata fanciullezza assai poco moderata, invero spesso molto opaca e da mille dubbi nella spensieratezza, da me dilapidata, amaramente obnubilatasi, rifletto sulla mia adolescenza oramai andata, soventemente dai bulli e dagli invidiosi scalfita e sbudellata, da me stesso bistrattata, destrutturata, oscurata, vilipesa e odiata, auto-ingannata o soltanto vigliaccamente stigmatizzata a causa solo della mia troppo verace, vivace e vorace, nevrotica ilarità smodata.

Cosicché, al tintinnare di questo primo sole di settembre, inebriato dalle mie invitte, intatte emozioni squinternate, penso che or andrò a cercare un bar ancora aperto, nonostante l’ora assai tarda.

Per bere un liscio caffè forse macchiato caldo come la mia anima nuda e cruda e la mia carnagione cangevole, oggi bianchissima, domani scura, come il mio carattere adesso fermo e deciso, in futuro ancora ballerino e poco sicuro, come la mia stramberia da uomo ex smidollato, permeato e adombrato da umori assai mutevoli e maculati.

Son un uomo fuggevole, a tratti amabile come la gustosa, estatica leggiadria d’una donna fascinosa col suo irresistibile profumo fragrante e dolcemente avviluppante.

Mi sento un commediante, un comico fallito, un uomo rinato, forse qui a Venezia il Joker reale, persino regale, sono io.

Lasciatemi dunque ammirare il mare adesso in burrasca e, ripensando alla follia inutile del mio disordinato, giullaresco, penoso passato, fate sì che pienamente comprenda che le tormente del mio essere stato naufrago della mia buffa esistenza sono solamente, ora che è finita la tempesta, sciocche inezie a cui porgere un sorriso beffardo.

Poiché la vita di noi tutti è ridicolmente farsesca e siamo tutti dei Joker che aspettano l’onda vincente d’un grande sogno spumeggiante nell’alta marea infinita dei nostri mille, umanissimi abissi.

 

di Stefano Falotico

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