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Enrico Ghezzi su “Apocalypse Now”


28 May

L’Apocalisse, adesso, è solo un film, più che mai un film, un film solo. Il fallimento di Coppola: aver prodotto in fondo un solo film, nient’altro che un film. I motivi per cui questo fallimento è entusiasmante sono gli stessi per cui l’impresa è fallita. 
Può esistere oggi un kolossal che non sia Terremoto o 007 o Guerre stellari o la stessa guerra del Vietnam trasmessa per anni alla televisione? Il coinvolgimento e la “disperazione” di Coppola nel girare il film sono più che mai comprensibili, sono affascinanti; e il film per questo piace (o non piace) prima di essere visto. Piace per l’ambizione, per la mania di realismo, per gli anni nelle Filippine: mi piace perché le decine di miliardi non impediscono al film di essere dilettantesco, personale, quasi da superottimista come “concezione complessiva”. Vediamo.
Dopo le interminabili riprese, Coppola si ritrova con giorni di materiale girato. Per giocare di più – e più elettronicamente – al montaggio, lo riversa in ampex, lo monta e lo rimonta senza mai giungere a una versione definitiva; fino alle due-tre versioni circolanti oggi, con finali differenti. È un segno ammirevolmente manifesto dell’ambiguità generalizzata su cui si fonda la “nuova Hollywood”, proprio in quanto il film di Coppola è atipico e mostra scopertamente le proprie contraddizioni. Un film che costa quanto un piano d’aiuti ai terremotati, che si promette smisurato, che utilizza risorse tecniche e sceniche straordinarie; e nello stesso tempo un film “privato”, e ancora una volta (per Coppola) quasi da clan familiare. Fare il film più costoso e industriale, e poi non saper concludere – letteralmente – la propria regia. Modernità di accorgersi, in qualche modo, di essere da meno del proprio film, di non poterlo decidere: perdere la scommessa, inventando il primo grande esempio di film “incompiuto”, il cui finale non conta. La chiusa, questo momento narrativo decisivo, questa “morte” che condiziona la struttura vitale di ogni prodotto che si narri, è qui letteralmente indifferente: nel finale si taglia la testa al toro, ma nessuno dei finali taglia la testa al toro.
Da un punto di vista classico, si vede bene cosa significa tutto questo: il film rischia di non esistere. Ed è proprio così: più avanzato dei Wenders, Duras, Rohmer, Coppola, perdendo tutte le sue scommesse (quella cultural-antropologica, quella goffamente umanistica, quella letteraria con Conrad), fa un film che non esiste, che si impone e incassa forse perché affascinante e gonfiato è il “racconto” del progetto e della realizzazione di esso. 
Personalmente, ho amato e difeso Apocalisse prima di vederlo. Vedendolo, non c’è quasi una scena che non deluda, rispetto al racconto che se ne poteva avere o immaginare prima. Eppure il film non delude, non può deludere. Appunto perché non esiste. Neanche come kolossal, si diceva. Chiunque abbia visto più di cinquanta film resta infatti colpito qui non tanto dall’esibizione (tipica dei kolossal), quanto dallo spreco che si manifesta in ogni minimo dettaglio. L’Attore ultrapagato compare solo alla fine, e dietro ogni immagine si avvertono le altre mille immagini e inquadrature che sono state girate e non scelte, si intuisce uno spreco enorme di lavoro, di pellicola, di tempo, di 70 mm eccetera. Anzi, “si sa” che è così: ma solo perché Coppola lo ha gridato ai quattro venti, lo ha urlato nelle conferenze stampa, non potendo mai fino in fondo sperare di mostrarlo nel film.
Quanti film ci sono nel cassetto di Coppola? Potrebbe vivere montando e rimontando un Apocalisse ogni due anni. E sarebbe più giusto. Ma Apocalisse è un film onesto e ingiusto. Mostra tutta la sua insensatezza, fino a far ridere. Rimane spietatamente solo Cinema. Ha la gratuità di ogni film, moltiplicata per ogni fotogramma. È un film ricco che sembra povero cineamatoriale. Un film di guerra intimista.

 

Tant’è che la trama più affascinante resta quella delle fotografie dei nastri registrati che separano l’apparizione di Brando: ciò che avrebbe potuto essere girato con il budget della Conversazione. Tant’è che il film risulta anche tecnicamente “non montabile”, e Coppola ricorre sistematicamente alla dissolvenza, e alla sovraimpressione, dando già all’inizio la cifra finale di tutto il film, con la straordinaria serie di dissolvenze e sovrimpressioni triple (e più) accompagnate dalla non meno straordinaria This is the End dei Doors. E proprio vedendo La conversazione in televisione si capiscono – per associazione – altre due cose che concorrono alla modernità paradigmatica di Apocalisse. La gratuità formale televisiva, e la quasi totale dipendenza dal suono, dalla stereofonia, dal dolby, dalle dieci, cento, mille piste.
Senza Wagner, a orecchi chiusi, anche l’assalto degli elicotteri di Duvall alla baia del surf risulta piatto, girato così e così. Parecchi spettatori di “provincia” – senza 70 mm, ma soprattutto obbligati a un sonoro appiattito – sono rimasti poco interessati. E la trovata più geniale del film è la nave dei folli del rock, il trip alla radiolina in cui si trova immerso Martin Sheen.
Nel rollio continuo della barcaccia, si ritrova la musica degli stadi, degli appartamenti, delle discoteche, l’insoddisfazione Rolling, la cultura totalmente spezzettata ricomposta solo dalla radio-televisione. Per il resto, le decine di elicotteri inquadrati sono semmai l’implosione del concetto di kolossal. Il kolossal si autodistrugge con l’accumulazione di sé, dopo aver già distrutto tramite il catastrofico il genere “realtà” (del disastro; lo mostra in questi giorni la spaventosa facilità con cui ci si è abituati dall’oggi al domani all’ipotesi di guerre su vasta scala). Gli elicotteri non fanno più impressione di un drappello di cavalleggeri in un film di Ford. 
Di certo, l’ingenuità apocalittica di Coppola è la vera fine: è il Vietnam del Cinema, sconvolto in una serie di contraddizioni. Un kolossal da discoteca, da radio, da televisione, che mostra la linea d’ombra su cui si muove tutto il Cinema americano “di successo”: il quasi totale affidare alla forza (poco controllata) del sonoro, immagini sempre più lavorate e elaborate fotograficamente (luci, colori, valori plastici delle “cose” riprese) ma sempre meno curate e necessitate dal punto di vista compositivo e strutturale complessivo. È così nel film da “laboratorio” di Lucas e Spielberg, figuriamoci se poteva non esser così in mezzo alla giungla (ma Cimino?).
In questo tornare a essere pura realtà, proprio mentre si vuol fare del cinema quasi “maledetto” e da artista, è il fascino definitivo di Apocalisse, e il suo porsi come definizione catastrofica della modernità del Cinema d’oggi in perfetta opposizione col film-cardine degli anni settanta, il Barry Lyndon in cui Kubrick tenta di controllare gli stessi elementi che Coppola si limita a mettere in gioco. 
Per coerenza (gratuita forse, o se vogliamo, poco costosa), Coppola dovrebbe ora sul serio continuare a giocare. Ha già speso, in riprese e pubblicità. Ha già fatto l’uso più sensato che si può fare di un esercito e di una forza militare (farne un film). Dopo questa produzione geniale, potrebbe dar da montare le sue decine di ore di produzione a cinque, sei, otto registi diversi, far fare tanti altri film diversi e possibili e plausibili (con slogan vietnamitico: uno dieci mille apocalissi). Capire che non sono sue, come suo non è il finale. Compiere l’operazione ultima e definitiva, per un regista autore non scevro da ambizioni: offrirsi come repertorio, darsi da montare. 
Forse dentro ogni kolossal possono annidarsi tanti piccoli film: anche nei film più personali, anche in un Novecento di Bertolucci (che intanto fu l’occasione per i film di Giuseppe Bertolucci e di Amelio). Permettere a altri di aggirarsi tra gli sguardi e gli accadimenti che – spesso imprevisti – succedono sul set e si nascondono nelle immagini finché un altro montaggio non riannoda o inventa. Forse, sarebbe l’unico modo per superare le manie piccolo-borghesi (fino allo spreco superomistico) che si aggirano in tutto il Cinema americano di oggi. Coppola compreso. E insomma: amo le dieci apocalissi che si nascondono oltre la piccola Apocalisse coppoliana.

[Il Patologo, 3, 1981]

(Enrico Ghezzi, “Paura e desiderio”, Bologna, Bompiani editore, 1995, pp. 136 – 138)

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