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Dizionario dei film 2012 (“The Amazing Spider-Man”)


07 Aug

 

Eccoci, intraprendenti e intrepidi mozzi del nostro galeone “pirata”, alla nuova “rotta” della nostra avventura esplorativa.

 

Oggi, ve ne avevo accennato “poc’anzi”, conosceremo più da vicino M Valdemaravatar di lynchiano “nano” che riflette il Misterio della sua stanza mentale, mesmerica.

 

Immancabile nel suo cervello fantasmagorico la visione di questo Marc Webb di Andrew Garfield in tutina da Peter Parker.

Ebbene, orsù, leggiamo e sentiamo le sue parole in merito.

 

The Amazing Spider-Man di Marc Webb

 

 

Da un grande potere derivano grandi fesserie: The Amazing Spider-Man.

Un reboot da ributtare nei bidoni della spazzatura “creativa” dei potentissimi e (inci)vili creatori/produttori di questa ingorda operazione commerciale, frutto di una politica scellerata e pericolosa.

Cioè: facciamo finta di niente? Non è di “ieri” la stimata trilogia targata Sam Raimi?

Solo chi ha meno di dodici/tredici anni può apprezzare la “novità”, per tutti gli altri si tratta di una continua, insinuante, ronzante, assillante, poco simpatica sensazione di déjà vu.

Dopo dieci minuti pensi: “Questo film l’ho già visto”.

Dopo venti minuti sei sicuro: “Quella scena mi ricorda troooppo qualcosa”.

Dopo mezzora profetizzi: “Sì, va beh, mo’ succede che…”.

Alla fine sbotti: “Tutto qua?!”.

Ebbene sì: tanto rumore (in tutti i sensi) per nulla. Nulla di nuovo, nulla di eccitante, nulla di non già visto/sentito/assimilato (e non solo dalla precedente saga), nulla di che.

Non un film orrendo, s’intende, poiché appartiene alla codificata ed estremamente professionale combriccola blockbusteriana, di derivazione fumettistica, e pertanto legittima portatrice di collaudati meccanismi narrativi e fascinazioni visive e sonore. Un “giochetto” (arci)noto, dagli effetti limitati e precisamente misurabili (la durata del film stesso); infine, dunque, sterile e facilmente espellibile. In pratica un’eiaculazione precoce con partner a pagamento: l’effimero e fiacco, quasi forzato, piacere scompare, e non resta pressoché niente.

Se poi si aggiungono il fiato corto, affannoso, l’umorismo di riporto modesto e saltuario, lunghe fasi di stanca, e diversi passaggi scritti e risolti sbrigativamente, senza sufficiente capacità di spiegare, interagire, “ingannare” (a mero titolo esemplificativo: come e dove, e quando, e con quali mezzi, Peter Parker si procura le iperchilometriche, fortissime, e all’avanguardia “ragnatele?”. E com’è che in cinque minuti si costruisce degli aggeggi sofisticati e superefficienti per “spararle” a distanza che alla Nasa ci impiegherebbero anni?), allora è ben comprensibile il fastidio. Alimentato, inoltre, da una non decisa ed efficace descrizione di caratteri e personaggi, le cui relazioni in alcuni casi cambiano in maniera troppo repentina e incongruente, come a voler a tutti i costi accelerare verso l’epico scontro finale, non curandosi di fornire adeguato approfondimento alle azioni e motivazioni delle figure in campo, anzi perlopiù definite per mezzo di schemi e metafore elementari, tracciabili su un semplicistico e monotematico piano dal quale, per puro apparir affrancati dall’ingombrante ombra raimiana, viene evitato il celeberrimo motto sui poteri e responsabilità, comunque declinato banalmente in altra forma.

Per poi tornare appunto: impossibile fingere di non ricordare il passato recentissimo… alle situazioni e scene già bagaglio della memoria collettiva: l’amore scolastico, i bulli, la tragica morte dello zio, la scoperta del “dono”, i sensi di colpa, la volontà di porre rimedio, le responsabilità, il cattivone da affrontare. Tutto già filmato e rimirato, e qui rappresentato in modo più o meno differente. Eppure uguale, copia conforme di un atto riuscito e precursore.

Per quanto ogni singolo componente possa dirsi certo non scarso, tutt’altro: musiche ficcanti e precise, “giuste” (pure troppo), messa in scena senza sbavature, effetti speciali buoni (con un 3D ottimo in un paio di sequenze), montaggio frenetico e puntuale, recitazione discreta.

Ecco, proprio sul protagonista erano ovviamente concentrati i riflettori: Andrew Garfield fornisce una buona prova, anche se dal confronto con Tobey Maguire ne esce sconfitto per via di una minor abilità espressiva nel sostenere i mutamenti del personaggio. Ma tutti gli attori si dimostrano bravi, compreso un inedito Rhys Ifans nel ruolo del Dr. Connors, il villain di turno, e naturalmente Emma Stone, la quale però, se non fosse per i suoi occhioni verde smeraldo e l’innato talento (soprattutto brillante, e qui non sfruttato), passerebbe per una biondina/bella della scuola qualunque. Ritorna rossa, please!

Sicuramente ritorna il secondo capitolo del “nuovo” Spider-Man, come annunciato durante i titoli di coda.

Decisamente un film già visto.

 

 

Un post di Stefano Falotico

Dizionario dei film 2012 – I migliori film dell’anno (“L’alba del pianeta delle scimmie”), parte prima


01 Aug

Prefazione di Stefano Falotico, il Genius, Travis Bickle 1979, nato per essere Lui.

Un altro magico journey nelle favole incantatorie del Cinema, nostro diletto supremo e convergenza delle più alte emozioni nel tenue sospirarle e vagabondo adorarle.

 

Un’immersione dentro la celluloide ad abisso dei suoi punti focali, nevralgici, fra tramonti di color alabastro “arrossito” nell’intingerci sui nostri pudori svelati romanticamente, sfocato spalmarcene come febbre divorante per attraccare focosi ai suoi polmonari respiri infatuati dell’immenso, fluttuante arcobaleno, “inghiottirli”, “incenerire” le angosce che ci turbano, veleggiar armonici nel sobrio “assopire” la realtà e mutarla a specchio dell’infinità mastodontica. Come artisti, “sofferenti” gioiosamente nei cunicoli del meandro esplorato, come ricercatori d’oro in questo tripudio di triste, spesso, cinica società che non crede più nei sogni, nella traspirazione onirica a “proiezioni” del grande schermo ottico, o forse finge di non vedere all’interno di tal stupenda, fotografica, dunque immortal profondità con quell’illusorio ma riprovevole senso pragmatico che a noi mai si accor(d)a.

 

Siamo noi i guerrieri dell’amore per l’Arte, e il Cinema rappresenta la montagna più sacra di coloro che protendon alla vetta della Passione.

Dei cieli a limpidezza estrema, a scarnire le nostre combattive anime nel “blob” esplosivo e stordente delle pellicole più suadenti.

N’afferriamo la “disomogenea” miscel(lane)a e inanelliamo prose a venerazione del suo ipnotizzante lirismo.

Come creature di un’altra epoca, “assoldati” al Dio Cuore, piacevolissimevolmente attanagliati dalle sue “morse”, e morsi, appunto divinatori d’eccelso.

D’estrema “unzione” che ci bacia, con delicatezza, d’angelico rinascerci a ogni nuova prodigiosa immagine, a innovarci col nobile fine d’arcuare i nostri lineamenti visi-vi nel “supplicare” altro goderne delle visioni, e innamorati, per sempre, del flusso madido d’intrecci sfavillanti.

 

Mercoledì 1 agosto 2012, 10:54

Ebbene, scoccan le ore a noi più intraprendenti, di palpitazioni emotive affilate come sempre di sogni “errabondi”, corroborati e dunque coloratissimi, talvolta, d’intrepida furia a noi più incarnata, scatenata e dalle “catene” slegata. Come scorribande nel “nitrato” di cavalli pazzi, irti in magnificenze nostre, dorate e ancestrali d’“ammaestrarci” solo a briglie sciolte, pittando le nuvole, anche gli umori “ombrosi” d’annuvolate tempeste caratteriali, mai di “cattedra” pomposa o “s(c)ibilante” (pres)untuosamente, ma forbitamente “crateriche”, in tenue “acquerello” che, pennellando “guasconissimo” d’una irriverenza solo nelle reverenze a noi più congeniali d’innata indagine delle nostre variopinte, pindaricissime, fiammeggianti anime, s’“arzigogola” come un dondolarci mesti e poi “mareggianti” nelle lagune veneziane da gondolieri contemplativi nell’ascetico nostro effonder la purezza acquosa d’una foschia via via più rallegrata ed erta, a cangiar i mutamenti oscillanti dei nostri cuori “arsi” dalle piogge o dai gocciolii d’appassionate immersioni stupende ove i raggi della solarità ancorata all’“accorarci”, appunto, di cavalleresco veleggiarci, ci svela in vortici mnemonici d’immagini già (sovra)impresse nei nostri cutanei bagliori di folgori fulminee, dunque profondi sotto l’appariscenza meno visibile ma di visibilio visivo, nel fulminarci di Bellezza.

Atrocemente vivi e fieri.

 

Passeggiai, di motivetto “serenetto”, stamane lungo questa città, tetra d’Inverno e desertica d’Estate, oggi ch’è vigilia d’Agosto, anzi no, è proprio l’1 del mese più rovente dell’anno, mese di spiagge “bikinizzate” per esibizioni “costumistiche” ove una bionda impiegata impiegherà mezz’ora solo per infilarsi nel “bagno”, “estatico” appunto degli occhi allupati di bagnanti già essiccati dal brivido di desideri furibondi, castrati da docili mani “ammogliate” per vol(t)ar la vista verso l’orizzonte tramontato dell’o(r)mone, al fin “taumaturgico” dell’ipocrisia “conciliante” con le nuziali “fedi” d’un anello al dito che ha promesso giuramento e ne ha irreggimentato la lussuria, nel caldo rifiorita, ma da sfiorir ché non riaffiori il maschio che eri, prima che t’evirò.

Sì, immagino la giornalista Elvira, stanca di discorsi “balistici” d’un Calcio che odia ma le mantiene il privilegio d’essere amata dalle videocamere “spioncine” delle sue maestose gambe di minigonna attizzantissima fra un goal e un’esultanza del “volpon” che ferma la cardiaca “serenità” d’un “tifo” molto “afoso”, (s)lanciato, slacciatissimo, “investigativo” a spogliar le sue calze, lì lì, indecisa se mostrar impudica il seno, pezzo forte, o “spezzettartelo” in due, tranciata in “monodose” di pareo “detergente”.

 

Al che, “violentato” dal desiderio riscaturito di gola bruciata dalla temperatura bollente, impazzisco, e decido, come il mio amico di (s)ventura Ismaele, il “mozzo” delle balene bianche, di sguazzar nell’Oceano spirituale d’elevazioni filmiche, forse per “tramarmi” d’intrecci “aggrovigliati” a un casto “cinturar” l’onor valoroso da coltissimo cinefilo, per dimenticare (per un po’, solo “istantanee”) le rive troppo “asciutte”, e navigar di perpetui, “abissali” tuffi, quasi quanto le nostre olimpioniche, “greche”, statuarissime campionesse dei “trampolini carpiati” e da me carpiti in stardust golosità più metafisiche.

Sì, Elvira ha un fisico che ti fa “tribolare” peggio del fisco, è una che se la vedi poi “fischietti”.

E, se ti deluderà d’un “No(do) reciso”, la fiaschetta sarà di consolazione per non esserti “assolato” con Lei. Non confidatelo, amo quella Donna, i suoi tacchi “depredaron” la mia virilità da “macho man” alla Kevin Kline, e mortificarono, “pietrificandomi”, il mio In & Out(ing) in zona “Onoff”, incerta e titubante se corteggiarla o esser avaria, “torpediniera”, del mio “modellino” da nautico in miniatura.

Sì, non merito la sua statura, e Lei non merita il mio cervello e il mio amor visceralissimo per il Cinema.

Perché il chiodo tu batterai, ma non ti schiodi dalla prima, più vera e vivifica infatuazione fastosissima, la Settima Arte, la più grande di tutte, poiché in essa convergono tutte le altre d’amplessi (s)fumatissimi.

Virtualità o realtà più nuda delle maschere carnevalesche di Elvira? Bugiarda della sua sensualità?

Sì, il Cinema mi salverà dalle sue grinfie, e “smalterò” le unghie del mio erotismo in un onirismo catartico.

L’importante, comunque, “ricordatelo” sempre, è unire appunto al “piccante” i neuroni plananti.

Mai platinati, semmai ci pattiniamo sopra, di gusto zuccheroso, poi malinconico, un po’ sal(t)ato. E molto saettante.

Tutto questo preambolo, un po’ “embolo”, per presentarvi il nostro nuovo “Dizionario dei film”, stavolta della stagione appena trascorsa.

 

Come ben sapete, l’anno scorso, io e Valerio Vannini, cioè Travis Bickle 1979 e Spopola, che io scrivo sempre con la “S” di Superman maiuscola, abbiamo allestito un vademecum di recensioni e “bizzarrie” che, oggi, ha trovato sovran diritto di cittadinanza alla Feltrinelli ed è acquistabile sul sito “Ilmiolibro.it”.

 

Tutto partì per affinità elettive, una raccolta entusiastica che “copia-incollò” le nostre opinioni su “FilmTv.it” proprio qui, su “Cinerepublic”.

 

Le potete trovare tutte in tal luogo, già, “guarnite” di clip, curiosità, filmati, locandine, poster trailer.

 

Perché dunque non ripetere la straordinaria, unicissima esperienza e imbastirne un altro, semmai ancor più grande, più completo, più articolato e anche più “ermetico?”.

 

Come sempre, c’avvarremo di “guest star”, le firme più autorevoli del nostro sito per dar voce un po’ a tutti, indiscriminatamente, come già avvenuto per il primo…

 

Ma esagereremo, eccome se remeremo.

 

L’imprescindibile, illuminato nostro M Valdemar  ha dato il suo assenso e la sua magia di “assenzio” per un “Non c’è due senza tre”. A cui, come detto, se ne aggiungeranno altri.

 

Anche il magnifico, titanico ROTOTOM fa parte dei nostri, i quattro moschettieri, quindi. Arditi e “arsissimi” nella celluloide, di spade incalzanti.

 

Sì, dunque vol(t)eremo su incantatori sprazzi e spaziali orbite filmiche, “mirati” nel vento e nelle memorie.

Capitani coraggiosi, cavalieri romantici e romanzeschi, Excalibur nostra per un Sacro Graal perduto, forse dalle inique “modernità” d’un progresso che sta schiacciando progressivamente, appunto, il magma favolistico delle eruzioni più intimamente “evolutive”.

 

Cristo, coi suoi fedeli, apostoli d’un terzetto via via ad allargarsi e prender forma e sembianze.

 

Recensioni quindi personalissime, perle come Atlantide sommersa da “dissotterrare” dall’Oceano, forse (ig)noto, e rifulgerle in tutta eroticissima, erculea, forzuta, energica, adrenalica robustezza.

 

Stoici combattenti.

 

E allora, come Gerard Depardieu/Cristoforo Colombo del capolavoro di Ridley Scott, 1492… La conquista del paradiso, eccoci qua, Io, e le irrefrenabili tre caravelle a imbarcarci per lidi di scoperte magnifiche e immaginifiche, col timon d’un Peter Weir che ci sprona soffiandoci nelle iridi d’ incontaminato idillio visivo e in noi fulgido.

 

Chi è M Valdemar? “Misterico” personaggio d’ascendenza lynchiana, il cui nome, forse, riveleremo più avanti, forse in una Notte tempestosa e solitaria, “nudissima” a confidarci chi (non) siamo, nell’autentico guardarci dentro e negli occhi.

 

Chi è ROTO? Questo genio cinefilo che, dal vivo, è più bello e sexy di Javier Bardem?

Avrete modo d’ appurarlo, forza, salite sulle nostre navi.

 

Miei prodi, noi lodiamo il Cinema!

 

E mi sembra, quantomeno doveroso, iniziare il viaggio con Valerio, mio mentore e raffinatissimo chef che ci fa gustare i film come pietanze prelibate quando apriamo la bocca, anzi no, il boccaporto e pranziamo assieme.

 

 

In una data indeterminata…

 

L’alba del pianeta delle scimmie di Rupert Wyatt

 

Will (James Franco), giovane scienziato, sta cercando di sviluppare una cura per l’Alzheimer attraverso la creazione di un virus benigno capace di riparare i danni provocati dal morbo. Quando la ricerca viene chiusa, Will decide di tenere con sé il figlio di una delle sue migliori cavie, lo scimpanzé Caesar. Ben presto, Caesar comincia a mutare a causa degli effetti del virus fino a divenire il capostipite di una nuova stirpe che dichiarerà guerra agli umani.

 

 

Il pianeta delle scimmievero e proprio cult non solo fantascientifico della seconda metà del secolo scorso girato da Franklin J. Schaffner nel 1968 e sceneggiato da Michael Wilson e Rod Serling a partire dal romanzo di Pierre Boulle, con il suo rovesciamento radicale della gerarchia uomo/animale e il bellissimo e inquietante finale pieno di apocalittiche premonizioni sulla stupidità del genere umano e le disastrose conseguenze che ne potrebbero derivare per troppa presunzione e sete di potere, è entrato a buon diritto nell’immaginario collettivo di intere generazioni di spettatori diventando un classico del genere per quel suo essere un thriller sociologico futuribile, ma allo stesso tempo anche una favola filosofica e politica che, ambientata in un domani ancora lontanissimo, parla però di un presente non tanto immaginario pieno di incertezze e di azzardi come quello in cui viviamo.

Il successo del film fu davvero planetario, ed era inevitabile che invogliasse gli studi hollywoodiani a sfruttare le ardite tematiche implicitamente suggerite fino a spolparne l’osso, inventandosi altri episodi intorno e creando di conseguenza una saga organizzata in ulteriori quattro capitoli fra sequel (L’altra faccia del pianeta delle scimmie, 1970) e prequel (nell’ordine, Fuga dal pianeta delle scimmie del 1971, vero e proprio anello di congiunzione fra presente e passato, 1999: Conquista della terra del 1972 e Anno 2670 ultimo atto del 1973) sempre più stanchi e ingarbugliati (nessuno dei quali davvero all’altezza dell’originale), finalizzati soprattutto a raccontare in quale modo si era potuti giungere a quel punto di “non ritorno” messo in scena con appassionato vigore anche visionario (magnifica la fotografia di Leon Shamroy) dalla pellicola di Schaffner.

Quando in America si è a corto di idee, si cerca poi sempre di ripercorrere sentieri conosciuti sperando di rinverdire gli allori correndo pochi rischi, e anche in questo caso ci si è provati a farlo (un po’ maldestramente per la verità) già nel 2001, Planet of the Apes – Il pianeta delle scimmie (diretto da Tim Burton), che si conferma un remake tutt’altro che memorabile e poco necessario, se non per un finale ugualmente inquietante e particolarmente indovinato, comunque insufficiente per riscattarlo interamente e dare un senso compiuto all’operazione di rivisitazione.

La crisi sempre più profonda degli studios, e il progredire delle possibilità offerte dall’evoluzione della tecnica computerizzata degli effetti speciali, ha poi determinato una nuova attenzione “commerciale” sul soggetto che ha generato nel 2011 questo L’alba del pianeta delle scimmie diretto da Rupert Wyatt, con il quale si è cercato di ritornare di nuovo sull’argomento in modo più personale e “realistico”, proprio mettendo in scena il prologo di quella tragedia con una sceneggiatura molto liberamente ispirata al libro di Pierre Boulle (o meglio a quello che tale romanzo poteva suggerire fra le pieghe), ma ben strutturata e credibile, scritta a quattro mani e con intelligenza narrativa da Rick Jaffa e Amanda Silver.

Pur rimanendo nel segmento minato dei blockbuster, il risultato possiamo definirlo un gradevolissimo ibrido fra divertimento e impegno che è riuscito a centrare pienamente entrambi gli obiettivi, fornendo per altro davvero nuova linfa a una impresa che io personalmente avevo immaginato (evidentemente sbagliando) persa in partenza.

Intendiamoci: niente di eclatante, ma l’intelligenza che il regista ha messo nel narrare per immagini questo “rifacimento inventivo” della Genesi della Storia, lo rende particolarmente interessante proprio perché, nonostante la contiguità tematica e di riferimento, Wyatt è riuscito a lasciarsi definitivamente alle spalle la sudditanza psicologica verso la serie originale, realizzando così un kolossal stimolante per più di un motivo (e soprattutto meno ovvio) che, proprio partendo dalle vestigia un poco arrugginite delle ultime precedenti puntate, ripropone spettacolarmente e narrativamente temi ormai in larga parte sfruttati e forse anche un poco usurati, ma rigenerandoli “a suo modo” e senza troppi timori reverenziali, non perdendo però mai di vista il “timone” che consente comunque di restare inequivocabilmente “dentro” la storia, anche se letta da un’altra prospettiva (anche temporale), un procedimento questo che finisce per rendere il film un prodotto certamente “commerciale”, ma di gran lunga più valido e interessante di quasi tutte le altre pellicole in circolazione e ormai tanto di moda a Hollywood, che hanno organizzato il proprio percorso narrativo come prequel, o reboot proprio per andare sul sicuro.

L’azione è infatti ambientata ai giorni nostri o giù di lì, e parla di uno scienziato, Will Rodman, che ha appena scoperto un farmaco che cura l’Alzheimer attraverso la rigenerazione delle cellule cerebrali. Ma quando uno degli scimpanzé da lui utilizzati come cavia riesce a fuggire, seminando il panico, il progetto va a monte e l’animale viene abbattuto. Il figlio dello scimpanzé, che ha ereditato un’innaturale attività cerebrale, viene adottato quasi come atto riparatorio da Will, ma l’intelligenza dell’animale aumenterà esponenzialmente con la crescita, fino a eguagliare (ed anche superare) quella umana, creando qualche grosso problema di contenimento.

Grande spazio è infatti lasciato proprio al mondo animale, il che potrebbe far pensare persino a un blando tentativo di provare a rinunciare – grazie alle nuove frontiere della teconologia – al ruolo una volta preponderante degli attori in carne e ossa, a favore delle sorprendenti “creazioni” digitalizzate delle scimmie (creature ibride, quasi “realizzate in serie” a opera di Andy Serkis e della Weta, che per la verità sono così perfettamente e realisticamente “(in)naturali” da far ampiamente rimpiangere – per lo meno a me – i più artigianali trucchi scimmieschi su attori in carne e ossa inventati da John Chambers per il film di Schaffner).

Il meccanismo del ribaltamento che punta alla collocazione dell’uomo in un contesto animalesco (e viceversa), vero elemento scioccante (e anche disturbante) di tutti i vari tasselli della serie, rimane evidentemente invariato anche in questo caso, ma rimodellato e vivificato da una ingegnosa riscrittura interna che prova (e ci riesce) a capovolgere ogni “certezza” precedentemente acquisita dagli spettatori (intendo riferirmi soprattutto a coloro che già sanno come nel prosieguo andranno a finire le cose), una condizione di sospensione incredula che crea una costante tensione che si propaga per tutto l’arco di un racconto che altrimenti potrebbe essere considerato persino risaputo, scontato e poco coinvolgente.

Come ci fa giustamente osservare Mauro Antonini su “Segnocinema” n. 172, nel vero e proprio gioco di ribaltamento interno del racconto fatto dagli sceneggiatori e dal regista, i ruoli dei due scimpanzé della saga originale (Cornelius e Zira) vengono questa volta volutamente assegnati a due “umani” (Will e Caroline) che sono però chiamati a svolgere le stesse funzioni narratologiche delle due scimmie (il riferimento è soprattutto al terzo titolo delle pellicole realizzate negli anni ’70) e nel fare esercitare loro persino gli stessi mestieri (scienziato e dottoressa). Nell’incipit per altro viene citato in maniera abbastanza esplicita proprio 1999: Conquista della terraanche se poi l’ombra sinistra della bomba si trasforma qui in una mutazione dei geni (lo sfruttamento di cavie animali per fare esperimenti in laboratorio alla ricerca di nuovi orizzonti per la medicina, un mondo di prigionieri vessati e “torturati” che, trovato in Cesare il loro capo, si ribellano in massa con il furore distruttivo dell’intelligenza acquisita, per sovvertire l’ordine delle cose e “capovolgere” le regole del gioco).

L’alba del pianeta delle scimmie si conferma quindi anche come un’opera che, grazie alla densità tematica e alla forza affabulatrice del racconto, è in grado di compattare e di fonderli insieme i tanti registri e i numerosi riferimenti evidenti, mai banali o superflui, usando come reagenti e catalizzatori, ingredienti tipici dei blockbuster come la suspense, l’azione e la spettacolarità ma con una capacità invero inconsueta, che è poi quella di utilizzarli nel pieno rispetto delle regole del settore, ma dominandoli e addomesticandoli in maniera creativa, senza però renderli una antitesi sostitutiva del cuore pulsante del progetto che forse fra le righe vuole essere anche politico.

E proprio grazie a questo insolito modo di organizzarsi e di sostenersi, il regista riesce a evitare gli errori dei suoi protagonisti umani, non perde il controllo della sua stessa creatura, non ne dimentica la specificità e la differenza ma, anzi, le coltiva (Federico Gironi, “Filmcritica” n. 508). Tematiche che spesso si muovono in sottotraccia comunque (è un po’ il destino delle opere realizzate per fare grandi incassi) e supportate da una espressività ridotta delle scimmie che, a parte gli occhi (severi, colmi di odio e di furore), non presenta poi molte altre differenze di “riconoscibilità” differenziata, ma che riesce a diventare una miscela esplosiva quando Cesare, il primate “emancipato”, evade dalla struttura che li imprigionava, portandosi dietro tutti i suoi compagni, e il gruppo, il branco diventa una inarrestabile marea che invade le strade di San Francisco, prima alla ricerca di altre scimmie da liberare, e poi di un luogo in cui esiliarsi momentaneamente per “crescere”, mutarsi definitivamente e passare finalmente al contrattacco. Una vera e propria tattica da guerriglia urbana insomma quella portata avanti con indignata consapevolezza e frustrazione dagli scimpanzé in cerca di riscatto e di “potere” dove, invece e per contro, i tentativi di repressione della rivolta incontrollata della specie da parte delle autorità cittadine, sembrano avvicinarsi con inquietanti analogie comportamentali a quelli messi in atto con analoga virulenza per contrastare e “domare” gli scontri di manifestazioni “libertarie” di ogni tipo in giro per il mondo, quasi che Wyatt intendesse lasciare spazio, fra le regole codificate dei blockbuster dedicati ai supereroi di turno, a qualcosa di più nobile e importante che tende a trasformare Cesare nella metafora evidente di uno Spartaco o un Che Guevara delle scimmie (ognuno con tutta la retorica che si porta dietro, ma con una novità importante e non secondaria: il “potere” che si trasforma da fatto politico in una questione di evoluzione mentale, oltre che di genetica modificata).

Ottima la tecnica complessiva del regista ed eccellenti gli avvolgenti piani sequenza che , soprattutto nelle parti più concitate, si alternano ad acrobatiche carrellate aeree che rendono dinamiche le scene: buona soprattutto la prova di James Franco che, nonostante le premesse fatte sopra (la probabile marginalizzazione degli attori prevista dal progetto), riesce a imporsi con la bravura del consumato interprete portando in primo piano la figura del personaggio a lui affidato, per altro ben coadiuvato nell’impresa da tutte le altre caratterizzazioni “umane” di contorno.

Come conclude proprio Gironi la sua recensione, a questo punto allora resta solo da sperare che l’apocalisse politica e sociale che la pellicola preannuncia inequivocabilmente, possa essere contraddetta in extremis da una nuova consapevolezza: quella che il personaggio interpretato dai James Franco riesce a intravedere, ma solo nelle ultime scene, e che non si tratti invece di uno zuccherino messo a bella posta per mandare a casa lo spettatore con meno nuvolosi presagi sul futuro.

 

 

(Valerio Vannini)

 

 

Un post di Stefano Falotico

 

“Killer Elite”, la recensione


02 Jun

 

Attenzione! Sono presenti spoiler o anticipazioni del finale.

 

Siamo uomini, ammettetelo anche voi

Si parte sempre dai personaggi, per “intimarci” e prender, poi, confidenza con l’ambientazione, la storia, la vicenda narrata.

Qui, ci troviamo di fronte a un terzetto che è già “moschettieretrio vincentissimo, lucente, fra le “locande” non tanto candide, di spadaccina audacia e inoppugnabile virilità.

Jason Statham, colosso atletico di movenze felinissime, quasi “felpato” anche nella nervatura e intelaiatura “ossea” dei suoi bicipiti “agilissimi” ma schioppettanti di “schiocco” cric-crac “spaccaossa” (e tutta la carcassa, fragorosamente “fracassandoli” di pugni e “pam pum” senza esser docile di “piume” ma acrobatico “spataccarli” velocissimamente come un selvaggissimo puma che ti “sfiora” appena appena), divenuto oramai celebre nel “cementato” (e “armato”) “mondo” dei b-movie, o delle pellicole “tritadenti”.

Azioni, inseguimenti, funambolica spia e guardingo amante fra villici lombrosiani, del suo (an)alfabetismo, poco loquace, ma perspicacissimo, spiccato a spaccar i musi di tali antipatici e ad appiccicarli…

Icona, inizialmente paragonato a Bruce Willis, in termini non proprio eufemistici, quasi “effeminandolo” d’un blandito “Non può reggergli contro”.

Assurto, invece, a eroe prescelto per questo genere, anzi, oramai per il Cinema “di genere”.

Cinema che non ha la pretesa di ereditare i geni da Woody Allen, ma che ti serve, spesso “caldo”, pietanze saporite che ti puoi gustare in sal(s)a, sgombro dagli ingombranti “imbrogli” sociali, dalle “schede elettorali”, dai capriccini, dalla riccia che, accanto a te, muove il “piedino” (ma potresti “starci”, una sola poltroncina è “scomoda”), Cinema ove il “buono” è un bel pezzo… che spezza le reni, che non viene irretito, che, “cafonissimo”, agguanta i cattivi, li sfida di “guantoni”, aggiusta i conti, anche un po’ “raccontando(se… e “ma”)la” alla sua bellona, qui Yvonne, un nome ch’evoca la Donna da “ingioiellare” anche se non sei sempre un damerino, semmai, come Jason, sei invece solo, “decorato” e decorosamente, un “giullare” che la corteggia, finissimo, d’anello al dito anulare, ché se ne “abdichi” e con te, di Notte, “canticchi”.

Questo è Statham, se stesso, inutile chiedergli di essere Sylvester Stallone dei tempi “rapaci”.

Quella è la sua faccia, e “questo” ti “schiaff(eggi)a”.

Clive Owen?

Spenderò poche parole su “costui”. Non ho ancora capito se è davvero un “mercenario“, un tizio da paycheck, o un attore “inglese”.

Qui, il mustacchio è “canagliesco”. Fottutamente bastardo.

Owen. Ma, Lei, chi è? A quale giuoco gioca?

Piacere, è un omaccione piacente, ma a volte “Non mi piace”, e non “lo” condivido sul “like button“.

Qui, sì, eccome, bravo! Il posto a tavola è per Lei…

De Niro?

Esce da Ronin, esce dal “semifreddo” di Frankenheimer, è un mentore, è un cacciatore, il ricercato forse numero uno, in possesso della sua “valigetta” malinconica. Parla, dice e non dice, ammicca, sta zitto, guarda di “traverso”, ti fa vedere, anche a settant’anni, e in forma strepitosa, le “traveggole”.

De Niro. So bene chi è Bob. Se non lo sapessi, la nostra vita non ne avrebbe giovato.

Trama, esplosiva sin nei primi, “trivellanti” ma rivelanti minutaggi esagitatissimi, di “smitragliate” a raffica su panorami deserti sullo sfondo. Di corpi sfondati con del piombo rovente, di sangue “asfaltato” dai siderali colpi letalissimi, di bronzei guerrieri metallici con De Niro, truce e ruvidissimo a sparare, “rosatamente” sventrandoli, su capigliatura sciolta, “raccolta” in una “senile” carrozzeria di Sguardo disincantato, incagnito, “scandagliante”, a rincarar poi la dose di morti ammazzati, “uccidendo” anche solo le macchine già “ammaccate”, come da sua battuta antologica nel prefinale mozzafiato.

Da Ronin è “invecchiato” di voce ancor più esperta, che ha spirato tante volte, e si è esperito di fiuto sempre più affinato e non affatto deperito, semmai a spellarli e “perirli” tutti, d’indurita chioma argentata e barba sofficemente incolta da (im)paziente “prigioniero” del meccanismo, appunto, che innesca quest’action. A breve, ce ne “ricollegheremo”.

Però, è tutto improntato nella (di)sfida, malfidatissima, fra Danny (Statham) e Spike (Owen).

Il volto dell’innocenza su cui son “sgorgate” lagrime di sangue nel frenetico, senza tregue Incipit, han intenerito il duro Statham infatti, che par essersi redento e purificato.

Ma, il suo maestro, Hunter (De Niro), è ora nelle mani di un “sultano” saudita che, come in tutti gli “scambi” (il)leciti di “rapimenti, ostaggi e riscatti”, pretende un lavoro sporchissimo da Danny, in cambio, appunto, della vita del Bob tra le sbarre, “barricato”, anzi, in una ieratica “melanconia” afosa tra schegge “sceicche” di Luce rossa come il vento di scirocco, “sapide” e lungimiranti d’un “loculo” sotterraneo di “segretissime…” confessioni.

Qui, entra in gioco Ranulph Fiennes (no, se siete dislessici e vi è venuto in mente il famoso attore “omonimo” Ralph, ci avete quasi preso, ne è il cugino), “giallista” di spionaggi e avventure “misteriose”, autore di “The Feather Men”, romanzo incentrato, “macinato”, “marciato” sul massacro di alcuni membri delle forze speciali inglesi, per l’esattezza la S.A.S (Special Air Service).

Il regista, il pressoché esordiente Gary McKendry, confeziona un filmone che nondicenulla sotto il Sole, eppure, sebbene molti se ne “accaniranno” screditandolo con recensioni “tagliate con l’accetta” dei modaioli sarcasmi snobismissimi, ce lo “spara” di combattimenti maschissimi, iperrealistici, fedelissimi a strenui amicizie, non tutte da mantenere o solo tradite, di “distretti” e di strette di mano da “morse”, di fitte dolorosissime, di corse e di quello che corre a fiotti.

Statham, allora che “picchia” legato a una sedia, con tanto di “atterraggio” da wrestler, e “carpiato” knock-out massacrante. Poi, senza sprezzo del pericolo e della verosomiglianza, spacca, ancora “ammanettato”, il vetro della finestra e “rimbalza”, “nudo”, senza paracadute su un “materasso” abbastanza resistente agli “urti”.

Ferito, solo “di striscio”, appena “zigrinati” i suoi zigomi, di mascelle slogate e “legamenti” un po’ spappolati.

Statham, allora già un classico.

Ecco il miglior Owen d’occhio “sinistro” davvero, “fintissimo” e doppiogiochista che imparerà l’unica lezione importante di chi è assoldato: quando le fazioni opposte decidono di porre fine alle ostilità, devi arrenderti, (ap)pagato o meno.

La lezione “amara”, vera di Frankenheimer.

C’è sempre una bionda che aspetta, preoccupata, nei bistrot parigini, ove può spuntare proprio Hunter il redivivo, e interrogarla per carpire informazioni utili alla sopravvivenza dell’amore.

Be’, quando si son calmate le acque, Jason sfila per il boulevard luccicoso, “stronzo” ma romanticissimo, e, con quel look police-sco, “pollice su” alla grande, vincente di risatina che “sospira”, tiratissimo in giubbotto di pelle adorante, non può che strizzarle l’occhiolino e aspettar che salga in macchina.

Sofferenze (in)giustamente patite, giusta vittoria di solletico e “sollievo”…

Vissero tutti felici, i buoni”, scontenti quelli che non ci sono più, in tutti i sensi. Forse, non erano poi tanto cattivi…

Perché, il Mondo, bello, brutto, che ci piaccia o no, o “Può darsi”, è lotta e darsele, le cazzate le risparmiamo al reparto “filosofi” delle “buone maniere”.

La verità è nella frase di Hunter, che recita a Danny le parole di suo padre, dei padri, dei saggi.

La vita è comeleccare miele da un cactus…

Che significa?

Ve lo spiega sempre Lui, ma, adesso, per (il mio) Piacere, la mia l’ho già data e detta.

 

 

Recensione spaccaregolucce…
Non è un film da spallucce e da lagrimuccine….
Prendete la valigia, “nomignolizzatela” in “valigetta”, 24h di soldi e pulp fiction, e ficcatevi nel centro della Terra. Optate, senza batter ciglio, senza pensarci due volte, a questo poker d’assi: Statham, Owen, De Niro, Strahovski. May the best man live, e vedrete che vincerete anche voi…

Yvonne, una che carezza il suo cavallo, il suo “stallone”.
E vuole amarlo…

 

(Stefano Falotico)

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