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Bologna HARD BOILED & L’amore ai tempi del Covid – Il carnato di una città escoriata: scende in campo il più grande attore vivente. De Niro? Daniel-Day-Lewis, Toni Servillo, Gary Oldman? Uhm, non credo


25 Jun

apocalypsenowfilmtvmartinsheenPartiamo con una freddura alla Falotico.

Uno studente del Dams sostiene una potente interrogazione su Apocalypse Now.
Il prof.: – Mi parli di questo capolavoro di Coppola, tratto da Conrad.

– Ebbene, è un grandissimo film. Vi è anche la cavalcata di VAL KILMER.

Sì, faccio ridere le persone. Ho sempre pensato di essere bruttissimo. Mi vergognavo della mia bruttezza, cioè questa.Falotico

Ora, facciamo i seri.

Avete riso? Sì, non sono Val Kilmer dei tempi dorati, neanche Alain Delon. Infatti sono meglio. Comunque, non mi prendo mai sul serio. Ora, facciamo i seri. Prima, lasciavo che tutti mi prendessero per il culo. Sì, mi piaceva. Una donna, che ne so, mi diceva che ero carino e io rispondevo che lei non era bella. Lei rispondeva che ero un coglione e io replicavo di esserlo. Al che lei pensava che fossi Val Kilmer del film A prima vista. Aveva visto giusto. Ero totalmente cieco. Anche lei però, ah ah.
Al che le persone mi domandavano: Ma ci sei o ci fai? Il tuo problema qual è?
E io: – Non vedo una mia vita.
E loro: – In che senso? Cioè, fammi capire. Anche se tu fossi ricco e miliardario, saresti depresso lo stesso?
Io: – Più depresso di prima. Gli uomini e le donne sarebbero miei amici, non solo amici, soltanto nella speranza di fottermi.

Capito questo di me, avete capito tutto.
Breve estratto del mio libro, disponibile sulle maggiori catene librarie online, nei formati cartaceo e digitale. Presto anche su Audible, ovviamente.

Il finale di True Detective è di natura cristologica.

Attenendoci puramente, no, puristicamente alle parole da Rust/McConaughey pronunciate e scandite testualmente secondo il doppiaggio effettuatogli da Adriano Giannini, udimmo quanto segue:

È questo che intendo quando parlo del tempo e della morte e della futilità. Ci sono considerazioni più ampie all’opera. Principalmente, l’idea di ciò che c’è dovuto in quanto società per le nostre reciproche illusioni…

Quello che erano… che ognuno di noi e tutto questo grande dramma non è mai stato altro che un cumulo di presunzione e ottusa volontà.

Le persone sono così deboli che preferirebbero gettare una moneta in un pozzo dei desideri che comprare la cena. Trasferimento di paure e disprezzo di sé verso un tramite autoritario, è catartico. Lui assorbe la loro paura con la sua oratoria e per questo è efficace in proporzione alla quantità di certezza che riesce a proiettare.

Alcuni antropologi linguistici pensano che la religione sia un virus del linguaggio che riscrive i percorsi nel cervello. Soffoca il pensiero critico… Almeno, io penso con la mia testa.

Tutti noi incappiamo in quello che io chiamo la trappola della vita. Questa profonda certezza che le cose saranno diverse, che ti trasferirai in un’altra città e conoscerai persone che ti saranno amiche per il resto della tua vita e che t’innamorerai e sarai realizzato. Vaffanculo alla realizzazione… e la risoluzione? No, niente finisce davvero.

Nell’episodio 2, Rust inoltre dissertò, con saggezza ammirabile e finissima dialettica, sull’inequivocabile orrore rappresentato dall’amorale gesto condannabile di mettere al mondo una vita, tante vite, le nostre dissipate esistenze già nate finite. L’errore del voler partorire, con arbitrio degno nemmeno di Dio, tale succitato errore, sì, il bieco errore nato dal perpetuarsi dell’abominazione chiamata orgoglio…

Quando muori, il guaio è che sei cresciuto. Il danno è fatto, è tardi.

Avete figli? Credo che sia da presuntuosi volersi ostinare a sottrarre un’anima alla non esistenza e relegarla nella carne. Trascinare una vita dentro questo tritatutto. E mia figlia, lei mi ha risparmiato dal peccato di essere padre…

Parole, quelle di Rust, da santo o malsane? Chissà. Sciorinate con piglio melanconico da uomo rabbuiatosi per colpa d’un mondo vacuo, futile eppur allo stesso tempo ricolmo di carne umana erosa e corrottasi alla base, macerata e bruciata in questa porca brace atroce.

Maciullati, infatti, siamo noi tutti dentro la putredine bruciante d’una società che dei nostri corpi ha inestinguibile fame. Mangiati e divorati senza pietà saremo dagli uomini e dalle donne miserabili che attenteranno alla nostra incolumità per segregarci nella prigionia d’ogni mentale sanità oramai andata a puttane. Ineluttabilmente scomparsaci e andata via. Chissà dove, chissà quando, chissà in quale nero anfratto. Infranti, affranti, eppur giammai domi, speriamo forse da illusi infanti che migliore sia e sarà il domani, però giammai saremo dormienti in un mondo addormentato e precipitato nell’insipienza, pieno zeppo di fottuti stronzi e pavidi incoscienti.

Un libro cinematografico in cui vengono citati molti film. Fra cui questi. Vi consiglio la parte partente, eh eh, da 3:08:00.
Come disse Jack Burton/Kurt Russell: basta, adesso!
In effetti, sono un minus habens, vero?shiningnicholsonkubrick Ah ah!

Chiudiamo con una nuova super-freddura.
Un professore di Cinema mostra una foto di Francis Ford Coppola a un suo allievo (per modo di dire) e gli domanda:
– Chi è questo?
Risposta: – Un panzone.

Ecco, al che vi aspettereste che il professore abbia bocciato, semmai ingiuriando a sangue, il suo studente.
No, il professore risponde al ragazzo: – Bravo, anche io risposi così quando dovetti sostenere la mia tesi di laurea su Coppola.
Il ragazzo: – Non la bocciarono?
– No, io sono Francis Ford Coppola.
– Cavolo. Mi scusi se le ho dato del panzone. Ora lei è molto dimagrito. Ma, signor Coppola, mi tolga una curiosità. Lei sostenne la tesi di Laurea su sé stesso? (ricordiamo che non si scrive se stesso, anche se è comunemente considerato corretto e invece è reputato, erroneamente, paradossalmente sbagliato. Pregasi le insegnanti di Italiano di correggersi. Sì, nei libri troverete se stesso, quali libri?).
– Sì, negli Stati Uniti non esiste il Dams.

Morale della favola: se uno è un genio, non ha bisogno di pezzi di carta. Bensì soltanto di dimostrarlo.
Quando lo dimostra, è come trovarsi dinanzi a Marlon Brando. Tutti coloro che lo avevano deriso, piangono e piangono, piangono e piangono, piangono e piangono. Parafrasando Rust Cohle: ancora e ancora, ancora e ancora, ancora e ancora.
Per il semplice fatto che derisero un genio. Quindi, compresero di essere degli idioti.
Insomma, sarebbe come dire. Uno prende per i fondelli Orson Welles perché non lo capisce.
Pensava che fosse scemo perché non era come gli altri.
Ebbene, per la signora in prima fila, che non è Rita Hayworth, no, mi sembra sulla racchia forte, un altro giro di vodka, un valzer col cascamorto boomer e poi, domani, tribuna elettorale coi politici matusalemme alla tv.
Il mondo si divide in due categorie: chi è tonto e, in quanto tale, non capirà la vita.
E chi la capisce subito. Perciò piange, ride, soffre, ama, odia, si arrabbia, si dispera, sta bene, crolla, rinasce, balla e poi canta, dunque si ammutolisce, poi non viene capito, lui stesso non capisce sé stesso, si pone delle domande inutili, si arrovella, si scervella, dà di matto, poi si placa, è inquieto, nevrotico, irrequieto, felice e poi tristissimo.
Per forza, non è mica un imbecille. Mi spiace per gli imbecilli. Sono sempre sicuri di sapere tutto degli altri e di sé stessi.
Ne sono sicuri?
Finirei così.
Vado da un mio amico, almeno pensavo lo fosse.
– Che hai?
– Niente. Non avevo capito nulla di te. Mi perdoni?
– Di cosa dovrei perdonarti? Di avermi giudicato troppo presto?
– Sì, di questo. Ho sbagliato. Me ne vergogno dal più profondo del cuore.
– Ma io lo sapevo già. Mi hai chiamato a casa tua solo per scusarti? Scusa, ho fatto dei chilometri soltanto per ascoltare il tuo pulirti la coscienza?
– Scusami.
– Scuse (non) accettate. Tanto, sbaglierai ancora. E ancora e ancora, ancora e ancora.
– Come fai a saperlo?
– Si chiama vita. Altrimenti si chiamerebbe morte. Non lo sapevi?

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di Stecitybytheseadenirodzundza5numeroperfettofano Faloticofilonascostodaylewis

Burbanza inquisitoria, requisitorie, la retorica, le oche, il superomismo e le indagini aleatorie


23 May

Prove tecniche di trasmissione? No, di copertina.

J’Accuse, atto accusatorio ineludibile della mia ricerca di giustizia inestinguibile.

Bologna HARD BOILED & l’amore ai tempi del Covid, miei prodi.

Chi mi ama così come sono non mi persegua ma mi segua. Chi necessita di biglietti di giustificazioni, eh già, soffre d’indisposizione genetica.

Io insisto e, imperterrito, la mia strada perseguo, inseguo.

(In)Seguitemi, ah ah!

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di Stefano Falotico

 

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Chloé Zhao, è nata una grande regista – NOMADLAND: un film che mi ha scioccato, immensamente doloroso e al contempo soave, il grande Cinema distruggerà ogni tempesta pandemica, ogni turbinio traumatico


20 Jan
Frances McDormand in the film NOMADLAND. Photo Courtesy of Searchlight Pictures. © 2020 20th Century Studios All Rights Reserved

Frances McDormand in the film NOMADLAND. Photo Courtesy of Searchlight Pictures. © 2020 20th Century Studios All Rights Reserved

Prefazione acrimoniosa verso i lockdown morbosi

Ho assegnato quattro stellette su 5 a Nomadland. Ma mi sono mantenuto cauto. In attesa di dargliene sei. Ah ah.

Film magnifico, uno dei pochi, veri capolavori da me visti recentemente. Anche perché il 2020 è stato funestato da qualcosa di terribile che c’ha schienato, schiantato, lasciandoci tumefatti e disossati, spellati nell’animo e infreddoliti.

Giunse infatti dal cielo, forse dal laboratorio di qualche cinese scienziato pazzo, un virus influenzale assai sottovalutato. Dicesi, fantozzianamente, no, dicasi Covid-19.

Morbo virale che contagia anche di depressione abissale, svuotandoci dentro e imprigionandoci in quarantene uguali agli arresti domiciliari. Opprimendoci in casa ad allietare la melanconia, si fa per dire, più che altro ad allentare la noia esistenziale, imbrigliandoci nell’oramai fievole speranza che qualcosa cambi. Quando si suol dire, ah, c’auguriamo che a ciel sereno un fulmine ci miracoli e folgori… chi sbagliò a non chiudere la Lombardia e tutti i fronti. Poche frottole. A frotte siamo segregati. Sudiamo freddo di fronte rugosa, sdrammatizzando a mo’ di Non ci resta che piangere, ambientato nell’immaginaria Frittole.

Nel frattempo, rannicchiati e ibernati nelle nostre case, patendo un freddo polare da eschimesi negli iglù, altri bocconi amari mandiamo giù e la vita non va up. Però, lecchiamo un dolce tiramisù.

Molte donne, sull’orlo dell’assideramento, azionano il riscaldamento… del marito e “aspirano” calorosamente qualcosa di più duro d’un ghiacciolo fortemente “resiliente” d’un mondo intirizzito, oserei dire stizzito, insomma incazzato.

I ristoratori stanno morendo di fame poiché non hanno più i soldi per comprare il cibo da dare ai figli, non quello dai loro cuochi cucinato alla gente oramai ridotta come una pera cotta. Sì, scioperano al contrario. Cioè fanno i cremini, no, i crumiri e si ribellano non al padrone, bensì allo Stato che ha tolto il lavoro anche ai mega-direttori galattici coi super attici.

Al che, mentre io sono impossibilitato a incontrare la mia lei poiché abita fuori regione e non siamo ufficialmente conviventi, canto l’intramontabile Clandestino di Manu Chao ma ugualmente patisco dei momenti di frustrazione incredibile. E, con enorme “decoro” da John Travolta di Pulp Fiction, vado di là e… avete capito.

Anche perché la mia lei è più bella di Uma Thurman e dunque, uomini, come potete biasimarmi? Quando ho terminato di darmi da fare, leggo un fumetto nell’attesa che Bruce Willis mi ammazzi. Forse, Bruce Venture, pornoattore che non vale un cavolo…

Comunque sia, sono Die Hard. Anzi, Willis di 58 minuti per morire. Fuori si gela, c’è il Coronavirus e, qui a Bologna, sembra inoltre di stare in Fog di Carpenter. Raggomitolati nelle nostre trappole di cristallo…

Accoccolati e accovacciati nel tepore delle nostre nostalgie mai sopite.

La nebbia agli irti colli (bolognesi da Cesare Cremonini?) piovigginando sale…

Ah, vita mia salita, ancora salata. Addolcita, rabbonita, riassestata dopo tanti tormenti e spiacevoli, burrascose tormente. Dopo mille afflizioni, è ora giunta per me la definitiva resurrezione, la beltà dell’infinita, immacolata illuminazione.

Cosicché, fra un’amarezza zuccherata con della Nutella in mancanza del cioccolato della mia bella, fra un gelato all’amarena e un’emotiva, glaciale marea, mangio pure un cornetto, sperando che lei, lontana, non mi renda cornuto. Spingo quindi di streaming e mi pappo Nomadland.

Mica un polpettone. Comunque, i polpettoni di mia madre, fidatevi, sono più buoni de Il paziente inglese.

Kristin Scott Thomas di questo film perse contro Frances McDormand di Fargo.

E fu premiata da Nicolas Cage di Arizona Junior. Grande Frances! Da non confondere con Coppola Francis… Ford, zio di Nicholas Kim Coppola…nomadland poster

NOMADLAND, a proposito di Quarto potere e Mank, è questo il film che vincerà tutti gli Oscar possibili e immaginabili!

Questo film mi ha distrutto, sì, Nomadland.

Da tempo, forse dai tempi di Cuore selvaggio, no, di Una storia vera di David Lynch, non piangevo alla fine d’un film.

Durante la giornata, invece, piango sempre come Bob Wells di tale capolavoro inaudito di Chloé Zhao.

Sì, il mio dolore è immane. Sognai di essere Nicolas Cage ma, mi spiace per lui, la mia bella è più bella della sua ex Patricia Arquette. Eh eh.

Sì, possiedo una fortissima ironia cinica da fratelli Coen. Uno dei due sta con Frances. L’altro con chi sta? Con nessuna? Però scrive e dirige i film col fratello. Che gli vuole bene.

Sì, Ethan Coen è come il fratello di Christopher Nolan. Uno incassa, cioè quest’ultimo, l’altro si fa il culo ma non si fa nemmeno la McDormand.

Ora, Frances è bruttina. Anche se, ai tempi di Fargo, l’avrei riscaldata dalla sua neve. Ammantandola di delicate carezze, amandola anche in modo turbinoso e nevoso, no, nervoso, focoso. Donna deliziosa, donna che sa rendere un uomo qualcosa di emozionante come Nomadland, film davvero eccezionale. Poche palle… di Natale.

Film intimista, film neo-realista, pubblicato dalla Rizzoli, no, con una locandina da Adelphi e musica di Ludovico Einaudi. Un film meraviglioso.

Che ve lo dico a fare?

Date questo terzo Oscar alla McDormand.

Anche se Vanessa Kirby di Pieces of a Woman non scherza.

Sì, la Kirby è mille volte più bona di Frances. Ma Frances è l’attrice par excellence.

Donna che lavorò con Bob De Niro in City by the Sea, film nel quale interpretò l’amante di Robert. Il quale stava per perdere suo figlio.

In Tre manifesti a Ebbing, Missouri, Frances perde chi? L’avete visto? Me, invece, mi vedeste. Ove di vista mi perdeste?

In Nomadland, è vedova.

Perde anche il lavoro di Amazon ma è grintosa e volitiva come un’amazzone.

Recita una poesia da pelle d’oca a un ragazzo rimasto solo e ascolta, commossa, il racconto di Bob Wells.

Ma che bello. Bob Wells qui interpreta un “guru” che non avendo potuto salvare suo figlio dal suicidio, cerca di resistere, aiutando gli altri. Riunendoli attorno a sé con dei camper frastagliati in mezzo alla nudità di deserti punteggiati da roveti e da selvatiche piante simili ad erbe delle Pampas.

Le riprese non sono da peggior Terrence Malick di To the Wonder, cioè da National Geographic, il film non incede in inquadrature fighe e paesaggistiche su leccata, ruffiana musica cool e finto-grezza dei Pearl Jam come nell’estetizzante Into the Wild, qui viaggiamo veramente su altri livelli molto fini, poco grunge, imbattibili.

Alcuni reputarono Kurt Cobain un genio. Moderiamoci subito. Mozart non lo vide neppure. Per forza, morì prima. Ah ah.

Metafisica celestiale, lacrimosa immensità allo stato “brado” più alto.

Mi sono commosso. Capolavoro!

Signore e signori, dopo Jane Campion, abbiamo trovato finalmente un’altra grande regista donna, cioè Chloé Zhao.

Roba da annientare Shinya Tsukamoto, uomo sopravvalutato, e Banana Yoshimoto, scrittrice stupenda, con atmosfere che non vedono neanche cagate come Tetsuo, c… zi affini e Amrita.

Ah ah.

Ma quale Parasite, parassiti. Film furbissimo più di una volpe imprendibile. Cioè il sottoscritto, ah ah.

Diciamocela, Frances McDormand è la più grande attrice vivente. Mi fanno ridere quelli che osannano Margot Robbie. Quelli che ancora ci tediano con Meryl Streep. Quelli che strepitano per Kate Winslet. Anche se, a proposito della Campion, Holy Smoke docet…

Tornando a Chloé Zhao. Ha soltanto 38 anni. Amatela, custoditela, appoggiatela. Siamo dinanzi forse a tutto ciò che Kurosawa immaginò di essere ma non possedette mai il cuore di questa donna straordinaria. Smettiamola anche con Yasujirō Ozu.

Ma quale Ozu. Ma quale Zizou, cioè Zidane. Ehi, Zhao, mica Zorro.

McDormand di Nomadland, da non confondere con Promised Land. Se non vi piace, amate vostra moglie. È brutta e non è due volte premio Oscar. Quasi tre… quasi record. Credo inoltre che Einaudi sia più bravo al piano di David Strathairn in questo film straordinario.

E che scena è quella in cui Fern va a trovare il personaggio interpretato da Strathairn perché ne è segretamente innamorata? Mamma mia, che classe, che pudore, che candore!

Scende le scale e, di nascosto, lo osserva suonare. Ma non riesce a dimenticare suo marito e, malgrado fuori si geli, nonostante abbia bisogno di essere abbracciata e avvolta dal calore di un uomo, lascia stare…

Poi, prima della fine, piange ancora con estremo decoro e pudicizia. Ma s’incammina nel vuoto così come il grande Bob De Niro del cortometraggio Ellis. Sparendo nel suo furgone.

Mentre lentamente, cullati da Einaudi, piangiamo anche noi spettatori. Nomadland, un film gigantesco.

Ripeto, il racconto di Bob Wells è da pelle d’oca. Sa che suo figlio non tornerà più ma sa anche che, un giorno, lo incontrerà per strada.

Perché la vita è un sogno, un incubo, una tragedia, è piacere e sofferenza. Dai, stavolta vinciamo anche noi, italiani. Perché la colonna sonora di Ludovico Einaudi, ribadisco, è immensa!

E Nomadland è uno dei più grandi film della storia del Cinema! Date il terzo Oscar a FRANCES! Grande attrice, grande donna. Come la Zhao!

di Stefano Falotico

 

 

LETTER TO YOU: che io mi ricordi, sono sempre stato fan di Bruce Springsteen e di Asbury Park, di City by the Sea e del mio fantasma nella notte


16 Sep

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Ora, non so perché mai, dopo la tragica caduta delle Torri Gemelli, Bruce Springsteen compose l’album The Rising. Per far sì che, assieme appassionatamente, dalle ceneri d’una tragedia senza pari, gli Stati Uniti risorgessero collettivamente, cingendosi in preghiera, a raccoglimento d’un musicale giubileo ove qualsiasi cittadino della Nazione a cinquanta “contee” forse chiese perdono a dio per essere stato un peccatore o, probabilmente, per essersi sentito involontario responsabile di qualcosa di terribilmente nefasto che non poteva comunque essere evitato.

Dinanzi alla morte per mano altrui, rimaniamo infatti pietrificati, scioccati, oserei dire solamente costernati.

Non fu colpa di nessun americano poiché l’attentato terroristico scagliato contro le Twin Towers fu architettato, diciamo, nei minimi dettagli studiato e orchestrato dalla mente diabolica di Osama bin Laden, appoggiato nella sua imperdonabile, esecrabile malefatta aberrante dai suoi adepti radicalizzati.

Ma forse tutto ciò ebbe inizio a causa della coscienza sporca del guerrafondaio Bush. Che, in Medio Oriente, permise che i soldati statunitensi trucidassero innocenti a raffica, propugnando un osceno culto bellico figlio della più mostruosa, oceanica distruzione delle culture non appartenenti all’edonismo reaganiano. Oggi tornato di moda, a livello planetario, con lo spopolare di Instagram ove chiunque esibisce svergognatamente la sua carne in scatola, anzi in scatti selfie e stories che si autodistruggeranno come le vite di chi le crea a mo’ della fuggevole, stolta vanità estemporanea del suo capriccioso implorare 15 minuti, anche meno, di celebrità warholiana, svendendosi nel suo prodotto da macelleria, mercificando la sua anima in cerca d’un patetico, clemente Mi Piace in più. Elemosinando l’autostima più meschina e vile, pusillanime e priva d’una benché minima, personale dignità, nell’inscenare la nudità del suo essersi disumanizzato ed animalizzato in un prosciutto vivente offerto allo sguardo godereccio e porcellesco di chi, consumandolo, ne trarrà godimento cannibalistico dei più parimenti parassitari. Oramai sono radicale anche se non mi stette mai simpatico Marco Pannella e giammai ne voterò il partito omonimo. E, a tutt’oggi, reputo scandalosa e di cattivo gusto la premeditata mendicità di Marco, ritenendo raccapriccianti i suoi sciocchi scioperi della fame. Un modo forse più puttanesco della prostituzione per accattonare voti elettorali in forma ricattatoria delle più capziosamente orride. Postulando la falsità della povertà, sputando nel piatto di chi non poté davvero mangiare.

Detto ciò, per miracolo mi avvicinai a Springsteen. Dopo che, essendo scomparso durante l’adolescenza nella morte della mia anima forse già ultraterrena, forse solo assai tenera, ne ascoltai al massimo due canzoni, ovvero Streets of Philadelphia e The Ghost of Tom Joad

In data 8 Giugno 2003, come già scrissi, mi recai allo stadio Artemio Franchi di Firenze ad assistere a un suo concerto storico. Io, poco amante dei ritrovi canterini, io, cantore solo delle mie malinconie, ecco che fui in tribuna ad ammirare la folla in delirio, una folla più folle di me.

E, già come Joker, incitai la foll(i)a al ritmo del mio essere Nothing Man.

Peraltro, nel 2002 uscì un film che piace solo a me, ovvero City by the Sea.

E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia…

Perché forse, in quel momento, potevo davvero essere salvato come James Franco. Ma, da allora, invece non mi sentii più giovane, gagliardo e veramente romantico come il Boss di The River. Malgrado, di enorme, monumentale resilienza, stia curando l’editing di un libro di 249 pagine esatte per la Kimerik Edizioni, intitolato La leggenda dei lucenti temerari.

In quanto, prima di morire, voglio citarvi un pezzo celebre di Shutter Island: ricordatevi di noi, perché anche noi abbiamo vissuto, amato e riso.

Aggiungo io, ricordatevi di me. Perché io non ho saputo vivere da idiota come quasi tutti, non ho amato tre donne, sì, solo tre, come un maiale qualsiasi, non ho riso come un pagliaccio.

Perché io sono io. Bruce Springsteen è dio ma anche Jim Morrison non scherza poiché è Satana.

E, quando si arrabbia uno così, il re Lucertola, fatevi il segno della croce.

È arrivato l’Anticristo.

Così come non dimenticherò mai il finale di True Detective.

Errol Childress sostiene di essere molto cattivo.

Dinanzi a lui però ha Rust Cohle.

di Stefano Falotico

Nanni Moretti uscirà presto con Tre piani, peccato che dalla nascita non sia uscito dal suo Super Io da Henry – Pioggia di sangue, anche di romantiche lacrime


10 Jan

nanni morettikeitel holy smokewinslet holy smokeattimo fuggentebasic instinct 2getta la mamma dal treno

 

Basta!

Pensavo si fosse affiliato a Di Maio, il Nanni. Pensavo che avesse preso il reddito di cittadinanza, chiedendo a Salvini di censurare Henry. Credetti, ma sbagliai, che avesse pagato magnanimamente gli zaini della Invicta degli 80 Euro di Matteo Renzi a Jasmine Trinca, da lui scoperta, oddio, ne La stanza del figlio.

Sì, Jasmine è ancora schizofrenica come ne La meglio gioventù, come la ragazza di faccio cose, vedo gente di Ecce Bombo. Dunque, deve tornare a “squola” con la q per divenire un quadro aziendale di tale società che non ama più i pasticceri trozkisti.

Sì, Jasmine va rieducata e riprogrammata come Kate Winslet di Holy Smoke.

Kate Winslet, nell’appena menzionatovi film di Jane Campion, riuscì a depistare il percorso rehab da John Lone de L’ultimo imperatore di Bertolucci, regista che fu amatissimo da Moretti, poiché si spogliò dinanzi a Sport/Harvey Keitel di Taxi Driver. Il re dei papponi. E, come dice Travis Bickle, dei ruffiani, dunque degli ipocriti.

Kate, in una notte calda di cosce e zanzare alla Luciano Ligabue, si mostrò ad Harvey tutta ignuda e Harvey, dinanzi al suo seno, certamente più sodo e grosso di quello piattissimo di Margherita Buy, al buio gustò tutta la Winslet buona, animalizzandosi come un bue.

Insomma, la matta Kate lo fotté in ogni senso, in tutto il suo seno. Harvey perse il senno, qui parafraso Alessandro Bergonzoni, perciò si rivelò solo un grosso porcellone assai presuntuoso, molto unto, bisonte e cafone.

Poiché volle reprimere la giovinezza d’una figlia dei fiori nel (de)moralizzarla da tutor della minchia.

Sì, spesso anche a me succede soventemente d’incontrare, lungo YouTube, persone che vorrebbero bocciarmi, bloccarmi, imboccarmi, intubarmi e trombarmi.

Gente che, gelosa della mia libertà e della mia florida bellezza, mi dà del troll quando invero mi piace giocosamente viaggiare per il mondo con il trolley.

Visitando città a me ancora ignote che vanno da Noto, in Sicilia, sino a Milano, poi arrivano a Mirano, in provincia di Venezia, cittadina natia di Federica Pellegrini, campionessa di nuoto per cui sarei rana, poi principe di stile libero da vero sessuale pellegrino per tuffarmi in lei con salti carpiati da Tania Cagnotto.

Sì, cerco un centro di gravità permanente, eh già, cantò Nanni Moretti, no, scusate, cantò E ti vengo a cercare di Franco Battiato quando fu ancora bellamente autarchico… in Palombella rossa.

Un Nanni politicamente scorretto e controcorrente che a me piacque un sacco bello…

Poiché agguerrito polemista, incazzato anche sano fancazzista schierato apertamente contro un mondo d’ingiustizie. Delirante, sfigato mai visto, uno capace di leccare, insonne, un barattolo intero di Nutella, struggendosi per Laura Morante e sospirando nella sua anima, nel plenilunio alto, Con il nastro rosa di Lucio Battisti.

Comunque, adesso ho un po’ paura, adesso che quest’avventura sta diventando una storia vera, spero soltanto che tu sia sincera…

Di mio, che posso dirvi?

Inseguendo una libellula in un prato, un giorno che avevo rotto col passato quando già credevo di esserci riuscito, son caduto.

E non vorrei aver sbagliato la mia spesa o la mia sposa…

Sì, quando m’innamoro, non so più gestire le mie emozioni e divento come Stefano Accorsi, sì, sempre de La stanza del figlio.

La mia Laura Morante mi fa uscire di testa come Stefano/Dino Campana di Un viaggio chiamato amore.

Ma devo ringraziarla… i miei pezzi migliori li scrivo quando sono Innamorato pazzo come Adriano Celentano. V’è una forza, una disperazione, una potenza emotiva da lasciare stordito anche me.

Di cui si può dire tutto tranne che non possegga un Segni particolare, bellissimo.

Quando m’innamoro, divengo, poche volte vengo, un personaggio larger than life come il miglior Cinema di Lars von Trier.

Sono capace di seguire lo stream of consciousness delle mie Onde del destino.

Sì, l’amore rende ciechi e allora ballo con Dancer in the Dark.

Anche Dancing in the Dark alla Bruce Sprinsteen di I’m on Fire.

Molte persone invece s’istupidiscono come in un film e libro di Moccia con Riccardo Scamarcio e non possiederanno mai il carisma malinconico di John Wick 2.

Insomma, si castrano come Stefano Dionisi di Farinelli.

E sbraitano come Carlo Verdone di Maledetto il giorno che t’ho incontrato.

Nanni, comunque, il miglior film sulle tre stanze del figlio, no, istanze della personalità rimane Mulholland Dr.

Mah, di mio, che io mi ricordi, mi dissero a tredici anni che ero un genio.

Non diedi mai retta a una puttanata del genere.

Al che, ieri sera, feci ascoltare l’audiolibro, da me recitato, del mio nuovo romanzo a una platea di amici.

– Vai, spingi play.

 

Alla fine, tutti quanti mi picchiarono a sangue. Perché, purtroppo, lo sono ancora…

Se siete curiosi di ascoltare tutto l’audiolibro, dovete aspettare. Occorreranno giorni e ancora giorni affinché possiate ascoltarlo in forma integrale e ottimale. Se invece, nel frattempo, volete comunque leggerlo, anche in digitale, digitate La prigionia della tua levità su Amazon, IBS.it e sulle maggiori catene librarie online, dunque accattatevelo! Se invece non vi piace leggere, nemmeno le anime delle persone, e pensate che la vita sia un lavoretto e un sabato sera per far bisboccia, onestamente, potete anche andare a prendervelo in culo. Non m’impedirete di fare l’artista, no, non ho bisogno di essere medico, non m’indurrete al suicidio come fece il ragazzo poeta de L’attimo fuggente.

Dunque, nessun (rim)pianto, nessun pilifero impianto, mi sono ricresciuti i capelli. Abito al quarto piano e quella del settimo non ce la fa a prendere l’ascensore con me perché arrossisce e rimane imbarazzata poiché è l’unica super figa del quartiere che non riesce a rendermelo rizzo.

Su questa faloticata, vi lascio e ci sentiamo domani. Tanto, ce n’è sempre una. Ah ah.

Comunque, i tempi sono cambiati. Anche io, come no?

Per anni, fui Jack Nicholson di Qualcosa è cambiato. Poi, mi accorsi che esistono i pazzi. Sì, nella clinica di Qualcuno volò sul nido del cuculo, incontrai, oltre al d.o.c., ovvero il disturbo ossessivo-compulsivo, anche DOC di Ritorno al futuro. Vale a dire Christopher Lloyd.

Sì, Christopher mi disse che le mie mani non tremano più. Sì, mi curai dal Parkinson come Michael J. Fox.

Al che, chiesi a Chris se potesse spedirmi indietro ai tempi in cui Elisabeth Shue era più giovane e pure io.

Lui mi disse che la macchina del tempo esiste solo nei libri di Marcel Proust, a livello metaforico, e nel succiato film di Bob Zemeckis.

Mi consigliò però di dare lezioni di scrittura creativa a Danny DeVito.

Me la tirai da Billy Crystal di Getta la mamma dal treno.

L’avete mai visto questo gioiellino? Billy interpreta la parte del professore d’italiano che dà lezioni neanche se fosse Alessandro Baricco. Era ricco quasi quanto lui ma la moglie gli portò via tutto. E Billy, distrutto, si chiuse a riccio.

Al che, si trovò a insegnare a degli studenti peggiori di quelli di Paolo Villaggio di Io speriamo che me la cavo e di Michele Placido di Mery per sempre.

Prende su parola un tizio col suo elaborato, sicuramente una disamina degna del Nobel e del Pulitzer, certo…

Il suo romanzo s’intitolò Cento donne che vorrei scoparmi.

Non sto scherzando, guardate il film.

Sì, il mio prossimo romanzo sarà proprio intitolato così. Non siete curiosi di leggerlo?

Già, non sarà solamente una lista della spesa o del vorrei che fosse la mia sposa…

Credo che partirò da Sharon Stone. Dunque, in medias res della sua figa, no, della sua filmografia, ovvero partendo da Basic Instinct, cioè dalla sua, appunto, scrittrice Catherine Tramell, ripercorrerò in anale, no, in psicanalisi, no, in analessi il suo excursus di donna desiderata non soltanto da un maniaco voyeurista come William Baldwin di Sliver, bensì anche da Sam Rothstein/De Niro di Casinò.

Michael Douglas, in Basic Instinct, si chiama Nick Curran. De Niro scopò Milla Jovovich in Stone, appunto, di John Curran.

Poi, chiederò a un altro Michael, Michael Caton-Jones, il regista di Scandal e di Voglia di ricominciare, come mai girò il sequel orribile, Basic Instinct 2 ma pure un film malinconico più di Luigi Tenco, Colpevole d’omicidio, un film su un’ingiustizia, una pellicola dal titolo italiano che non rende giustizia al belllissimo titolo originale, City by the Sea. Ambientato, perlopiù, ad Asbury Park, la patria dei sogni perduti di Bruce Springsteen. Asbury Park, ove i fantasmi luccicano nelle notti più cupe e ove La messa (non) è finita. Poiché Nanni Moretti è bravo, molto bravo ma Tom Morello ancora di più. Cammino per istrada con aria sconsolata e, fra le stelle della luna alata, i vampiri mi chiamano the poet… Perché, che vi piaccia o no, i cani offendono ma i cantori esistono. E non vi è alcuna spiegazione razionale possibile.

 

 

di Stefano Falotico

 

A Top Gun preferisco Top Rat e un film accanto al mare


27 Sep

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Riuscirà nei cinema la vaccata di Tony Scott, “fiera” esibizione di muscoli e mascelle, di bulli e pupe, di aerei svolazzanti e di poca poesia nelle palpebre ma molto testosterone nelle “palle”. Spotpubblicitario di due ore tediose e “teutoniche” per “esaltare” il faccino di Tom Cruise per una storia risibile di tragedie, lacrime amare, retorica ed edonismi reaganiani al “massimo”. Film pessimo, forse neanche un film, una castroneria di uomini poco castrati che rivaleggiano nei cieli degli amori da cartolina, col pollice su in motocicletta d’un Cruise ingenuo quanto mai e ruffiano-scemo ai limiti dell’idiozia più becera.

Nella mia vita ne ho viste “tante”, di ogni forma, colore e dimensioni. Ho fatto ravvedere panzoni xenofobi e nazisti nel farli riflettere sulle loro responsabilità e sull’uso screanzato delle loro “ragioni”, obiettando con classe riguardo alle loro mentalità grette, meschine e minuscole. Ho redarguito, espellendole dalla mia vita, donne che si credevano intellettuali e non gradiscono invece il lieto caffè mattutino in un bar isolato delle periferie newyorkesi, ove ancor campeggiavano di panorami densi le Torri Gemelle.

I film son fatti di atmosfere, di malinconie, di resilienze, di traumi, di storie vere romanzate alle volte, di romanticismo non da videoclip.

E City by the Sea lo ritengo un gran colpo.

 

di Stefano Falotico

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Città marine, il prete & il Diavolo, le prime (s)volte “rosette”


25 Mar

Instradiamoci, non intestarditevi…

Alla riscoperta di un capolavoro perduto

Le “accigliate” increspature della nostalgia del Tempo in un noir dove le emozioni hanno il profumo nervico del mare

Nel 2002 debuttò nelle sale americane City by the Sea, capodopera di Michael Caton-Jones, da noi uscito l’anno dopo e ribattezzato “convenzionalmente”, in linea col “principio” tramico da cui si tesserà la vicenda, Colpevole d’omicidio.
Interpreti principali Bob De Niro (Vincent LaMarca), Frances McDormand (Michelle), e James Franco (Joey). Prove di alta densità recitativa, di sofferto tormento, la pacatezza crepuscolare di un De Niro superbo nel suo minimalismo “manierato”, avvolto nello “scialle” delle sue emozioni, una McDormand sensibile e pudica nella sua timida anima, e un sorprendente James Franco ancora una volta “rebel“, un outsider lungo strade bagnate di fango dove divampa l’inquietudine ermetica di un’adolescenza appena assopita lì lì per destarsi in un armonioso velo che si squarcia. Il velo della vita. Tutti, quasi, dormienti fantasmi delle loro storie, di modulati cuori che s’infiammeranno nella nudità di esistenze ancora in viaggio.
Tratto da un articolo comparso su “Esquire” di Mike McAlary dal titolo “Mark of a Murderer”, e scritto da Ken Hixon, il film s’avvale del notevole contributo della fotografia notturna di Karl Walter Lindenlaub, quasi danzante con Lune che accudiscono le acque del fiume Hudson e dell’Oceano, fra una Brooklyn che non ovatta i suoi dolori e i borghi fatiscenti di un’Asbury Park quasi più laconicamente malinconica delle ballate amare di Springsteen.
Un film che non assomiglia a nessun altro, un tuffo “liquorico” nello spettro autunnale del buio che giace mormorante in acuti lampi di Luce, quasi una sbronza alcolica che annebbia la vista iniettandola di quel bagliore chiaroscurale che vi guairà “glaciale”.

Vidi Colpevole d’omicidio in una sera in cui s’abbozzò quel nitore vivido che di lì a poco mi avrebbe come ridestato da un tramonto personale, un’anima rinnovata che ritrovò, dietro quei volti sofferenti, una cheta riacquescenza di un vitalismo sfrenato, quasi lisergico, che si seppellì.
Ho sempre, fin dalla prima visione e in quelle successive, ritenuto il film di Caton-Jones un capolavoro, nonostante i critici miopi dell’epoca, ingannati dalla pessima distribuzione italiana, mi smentivano coi loro giudizi eufemisticamente freddini.
Oggi, “scartapellando” nel magico Net, pesco una recensione d’affissione che combacia in tutto e per tutto a quel che penso io del film, apparsa sulla rivista online affiliata a “FilmTv”, “Sentieri selvaggi”. Ne è autore Francesco Ruggeri.

“Colpevole d’omicidio”, di Micheal Caton-Jones Caton-Jones arranca nelle retrovie nostalgiche del tempo e si sbilancia interamente nel filmare le tessiture nervose di rapporto mancati e proprio per questi saltellanti da un estremo all’altro del racconto, sempre lacunosi e mirabilmente sospesi. Tira un’irresistibile aria decadente in quest’ultima meravigliosa opera di Caton-Jones. E’ un fatto di spazi, di luoghi non più abitati, di umanità in dissolvenza abitate da umori descrittivi che ce le restituiscono vive per un’ultima, dolorosa volta, come se il cinema potesse davvero trattenere in qualche modo la vita. Si tratta di rappresentare il crocicchio che divide l’immagine di oggi da quella di ieri, provando a dare un’occhiata all’intersezione passato/presente, come Caton-Jones fa nelle prime sequenze in cui ridà letteralmente vita alla sfarfallio luminescente di una Long Beach immersa in un passato non meglio precisato. Appunto perché solo immaginato forse, visto che subito dopo il teatro degli eventi assume la fisionomia funesta di un luogo squallido, disabitato, fatiscente (eppure sempre di Long Beach si tratta). Si gioca con il passato dunque, per tornare al presente quando però quest’ultimo ci appare come meno preciso, non ben definito, diciamo pure sfocato. Vincent LaMarca vive il presente per praticare il passato, è un poliziotto con un matrimonio fallito alle spalle, e un figlio ventenne che non vede da anni. Il giovane è un drogato, ha un figlio con una giovane cameriera, ma l’assenza del padre nel corso degli anni si è fatta sentire. Viene implicato in un omicidio (uccide nelle prime sequenze un malvivente non bene intenzionato), per poi essere ricercato dalla polizia per un’uccisione di cui però stavolta non ha colpa. Intanto però rivede il padre che si sta peraltro occupando proprio del caso che lo vede coinvolto in prima persona. Ma non è questo ciò che conta. A Caton-Jones non interessa troppo sciogliere i nodi del pettine (si tratta peraltro di un plot ispirato ad un articolo di un certo McAlary), ma di lavorare di cesello sui corpi dei protagonisti (quello vagante e malfermo per la troppa droga assunta del ragazzo, quello deciso fino ad un certo punto e poi oscillante del protagonista, ma anche quello materno e risoluto della brava McDormand), racchiudendo nelle loro esitazioni al movimento lo spirito nascosto di tutta l’opera. Quando un certo Cinema ti entra dentro e ti sconvolge, il rispecchiamento dell’essenza in un puntino di luce qualsiasi (e quanta luce drogata / malata / sognata c’è nelle prime sequenze, quasi a fare da contraltare all’oscurità a-programmatica del seguito) provoca emozione ed estasi dello sguardo, quasi a voler cancellare di colpo il germe dell’identificazione e recitare senza più soggetto, in preda ad affettuose convulsioni del cuore. Subito dopo la prima mezz’ora Caton-Jones inizia a perdersi per strada la storia, arranca nelle retrovie nostalgiche del tempo (il rapporto impossibile vissuto col ritmo del salto temporale tra Vincent e il padre giustiziato tanti anni prima sulla sedia elettrica per aver causato senza volerlo la morte di un bambino, comunicazione scandita dal corpo stanco del protagonista che riguarda su un logoro divano le foto di quand’era bambino) e si sbilancia interamente nel filmare le tessiture nervose di rapporto mancati (straordinaria in questo senso la sequenza in cui De Niro / Vincent va a prendere al lavoro la McDormand, trasparenza / previsione fantasmatica della notte scorsesiana di Taxi Driver) e proprio per questi saltellanti da un estremo all’altro del racconto, sempre lacunosi e volutamente sospesi. Ma ancor di più in fondo punteggiati da insostenibili / sublimi in­serti melò che mandano all’aria ogni raccordo (basti pensare a che tipo di chiusura narrativa si va incontro) per fissarsi sul campo/  controcampo finale tra padre e figlio assediati dalle forze di polizia locali, direttamente immersi nell’inferno agghiacciante del confronto. Padre e figlio, dunque (De Niro è da manuale di recitazione come il suo solito e qui, se possibile, anche di più, James Franco è una promessa su cui puntiamo senza problemi), due perfetti estranei che la vita ha già messo al tappeto, eppure ancora capaci di lottare, di schierarsi. Di piangere. Caton-Jones spinge il suo Cinema alle estreme conseguenze e infuoca in un diluvio di spontaneità raggiante e spudorata quei misteriosi vuoti lasciati come solchi nelle nostre vite, lasciandoci in balia di uno sguardo gettato al di là del mare (il City by the sea del titolo originale, nonché l’ultima immagine). Lambito da tracce d’esistenza che ci appartengono per intero.

Titolo originale: City By the Sea
Regia: Micheal Caton-Jones
Soggetto: Micheal McAlary, tratto dall’articolo di Micheal McAlary “Mark of a murderer”
Sceneggiatura: Ken Hixon
Fotografia: Karl Walter Lindenlaub
Montaggio: Jim Clark
Musiche: John Murphy
Scenografia: Jane Musky
Costumi: Richard Owings
Interpreti: Robert De Niro (Detective Vincent Lamarca), James Franco (Joey Lamarca), Eliza Dushku (Gina), Frances McDormand (Michelle), William Forsythe (“Spider”), Drena De Niro (Vanessa Hansen), George Dzundza (Reginald Duffy), Patty Lupone (Maggie)
Produzione: Brad Grey Pictures-Franchise Pictures-Sea Breeze Productions Inc.
Distruzione: Eagle Pictures
Durata: 108′
Origine: Usa, 2003

Articolo del 25/03/2003 di Francesco Ruggeri

Un modo in più, per me che lo evoco spesso nei miei scritti, e per tutti coloro che l’hanno visto distrattamente, o per coloro che non l’hanno ancora visto, di riscoprire un’autentica perla.
Un capolavoro che sa essere anche melò.

 

 

No, non salvarmi…

 

 

Quivi ristetti, ansimante. Dalle vetrate penetrava la luce della luna, in quella notte luminosissima, e quasi non avevo più bisogno del lume, indispensabile invece per celle e cunicoli della biblioteca. Tuttavia lo mantenni acceso, quasi a cercar conforto. Ma ancora ansimavo, e pensai che avrei dovuto bere dell’acqua, per calmare la tensione. Poiché la cucina era vicina, attraversai il refettorio e aprii lentamente una delle porte che dava nella seconda metà del piano terra dell’Edificio.
E a questo punto il mio terrore, anziché diminuire, aumentò. Perché mi avvidi subito che qualcuno stava nella cucina, presso al forno del pane: o almeno mi avvidi che in quell’angolo brillava un lume, e pieno di spavento spensi il mio. Spaventato com’ero, incutei spavento, e infatti l’altro (o gli altri) spensero rapidamente il loro. Ma invano, perché la luce della notte illuminava abbastanza la cucina per disegnare davanti a me, sul pavimento, una o più ombre confuse.
Io, raggelato, non ardivo più retrocedere, né avanzare. Udii un ciangottio e mi parve di udire, sommessa, una voce di donna. Poi dal gruppo informe che si disegnava oscuramente presso al forno, un’ombra scura e tozza si distaccò, e fuggì verso la porta esterna, che evidentemente era socchiusa, richiudendola dietro di sé.
Rimasi io, sul limine tra refettorio e cucina, e un qualcosa di impreciso presso al forno. Qualcosa di impreciso e – come dire? – mugolante. Proveniva infatti dall’ombra un gemito, quasi un pianto sommesso, un singhiozzo ritmico, di paura.
Nulla infonde più coraggio al pauroso della paura altrui: ma non mi mossi verso l’ombra spinto da coraggio. Piuttosto, direi, spinto da una ebbrezza non dissimile da quella che mi aveva colto quando avevo avuto le visioni. C’era nella cucina qualcosa di affine ai suffumigi che mi avevano sorpreso nella biblioteca, il giorno prima. O forse non si trattava delle stesse sostanze, ma ai miei sensi sovraeccitati esse fecero lo stesso effetto. Avvertivo un afrore di traganta, allume e tartaro, che i cuochi usavano per aromatizzare il vino. O forse, come appresi dopo, si stava in quei giorni preparando la birra (che in quella plaga a nord della penisola era tenuta in un certo pregio) e la si produceva secondo la moda del mio paese, con erica, mirto di palude e rosmarino di stagno selvatico. Aromi tutti che, più che le mie nari, inebriarono la mia mente.
E mentre il mio istinto razionale era di gridare “vade retro!” e allontanarmi dalla cosa gemente che certamente era un succubo evocatomi dal maligno, qualcosa nella mia vis appetitiva mi spinse in avanti, come volessi esser partecipe di un portento.
Così mi feci dappresso all’ombra, sino a che, alla luce della notte, che cadeva dai finestroni, mi avvidi che era una donna, tremante, che serrava al petto con una mano un involto, e che si ritraeva piangendo verso la bocca del forno.
Dio, la Beata Vergine e tutti i santi del Paradiso mi assistano ora nel dire cosa mi accadde. Il pudore, la dignità del mio stato (ormai vecchio monaco in questo bel monastero di Melk, luogo di pace e serena meditazione) mi consiglierebbero piissime cautele. Dovrei dire semplicemente che qualcosa di male avvenne ma che non è onesto ripetere cosa fu, e non turberei né me stesso né il mio lettore.
Ma mi sono ripromesso di raccontare, su quei fatti lontani, tutta la verità, e la verità è indivisa, brilla della sua stessa perspicuità, e non consente di essere dimidiata dai nostri interessi e dalla nostra vergogna. Il problema è piuttosto di dire cosa avvenne non come ora lo vedo e lo ricordo (anche se ancora ricordo tutto con impietosa vivacità, né so se sia il pentimento che ne è seguito a fissare in modo così vivido casi e pensieri nella mia memoria, o l’insufficienza di quello stesso pentimento che ancora mi tormenta dando vita nella mia mente addolorata a ogni minima sfumatura della mia vergogna), ma come lo vidi e lo sentii allora. E posso farlo, con fedeltà di cronista, perché se chiudo gli occhi posso ripetere tutto quanto non solo feci ma pensai in quegli istanti, come se copiassi una pergamena scritta allora. Devo quindi procedere in tal modo, e san Michele Arcangelo mi protegga: perché a edificazione dei lettori venturi e a flagellazione della mia colpa voglio ora raccontare come un giovane possa incappare nelle trame del demonio, sì che esse possano essere note ed evidenti, e chi ancora vi incappi possa sconfiggerle.
Era dunque una donna. Che dico, una fanciulla. Avendo avuto sino ad allora (e da allora in poi, siano rese grazie a Dio) poca dimestichezza con gli esseri di quel sesso, non so dire che età potesse aver avuto. So che era giovane, quasi adolescente, forse aveva sedici, o diciotto primavere, o forse venti, e fui colpito dall’impressione di umana realtà che promanava da quella figura. Non era una visione, e mi parve in ogni caso valde bona. Forse perché tremava come un uccellino d’inverno, e piangeva, e aveva paura di me.
Così, pensando che il dovere di ogni buon cristiano sia di soccorrere il proprio prossimo, mi appressai a essa con gran dolcezza e in buon latino le dissi che non doveva temere perché ero un amico, in ogni caso non un nemico, certamente non il nemico come essa forse formidinava.
Forse per la mansuetudine che spirava dal mio sguardo, la creatura si calmò e mi si avvicinò. Avvertii che non capiva il mio latino e d’istinto mi rivolsi a lei nel mio volgare tedesco, e questo la spaventò moltissimo, non so se a causa dei suoni aspri, inusitati per le genti di quella plaga, o perché questi suoni le ricordassero qualche altra esperienza con soldati delle mie terre. Allora sorrisi, ritenendo che il linguaggio dei gesti e del viso sia più universale di quello delle parole, ed essa si quetò. Mi sorrise anch’essa e mi disse poche parole.
Conoscevo pochissimo il suo volgare, e in ogni caso era diverso da quello che avevo in parte appreso a Pisa, tuttavia mi avvidi dal tono che essa mi diceva parole dolci, e mi parve dicesse qualcosa come: “Tu sei giovane, tu sei bello…” Accade raramente a un novizio, che abbia passato tutta la sua infanzia in monastero, di udire affermazioni circa la propria bellezza, e anzi si è di solito ammoniti che la bellezza corporale è fugace e da tenere in conto assai vile: ma le trame del nemico sono infinite e confesso che quell’accenno alla mia venustà, per quanto mendace, scese dolcissimo alle mie orecchie e mi diede una incontenibile emozione. Tanto più che la fanciulla, nel dir questo, aveva proteso la mano e coi polpastrelli delle sue dita aveva sfiorato la mia gota, allora del tutto imberbe. Ne provai come una impressione di deliquio, ma in quel momento non riuscivo ad avvertire ombra di peccato nel mio cuore. Tanto può il demonio quando vuole metterci alla prova e cancellare dall’animo nostro le tracce della grazia.
Cosa provai? Cosa vidi? Io solo ricordo che le emozioni del primo istante furono orbate di ogni espressione, perché la mia lingua e la mia mente non erano state educate a nominare sensazioni di quella fatta. Sino a che non mi sovvennero altre parole interiori, udite in altro tempo e in altri luoghi, certamente parlate per altri fini, ma che mirabilmente mi parvero armonizzare con il mio gaudio di quel momento, come se fossero nate consustanzialmente a esprimerlo. Parole che si erano affollate nelle caverne della mia memoria salirono alla superficie (muta) del mio labbro, e dimenticai che esse fossero servite nelle scritture o sulle pagine dei santi a esprimere ben più fulgide realtà. Ma v’era poi davvero differenza tra le delizie di cui avevano parlato i santi e quelle che il mio animo esagitato provava in quell’istante? In quell’istante si annullò in me il senso vigile della differenza. Che è appunto, mi pare, il segno del rapimento negli abissi dell’identità.
Di colpo la fanciulla mi apparve così come la vergine nera ma bella di cui dice il Cantico. Essa portava un abituccio liso di stoffa grezza che si apriva in modo abbastanza inverecondo sul petto, e aveva al collo una collana fatta di pietruzze colorate e, credo, vilissime. Ma la testa si ergeva fieramente su un collo bianco come torre d’avorio, i suoi occhi erano chiari come le piscine di Hesebon, il suo naso era una torre del Libano, le chiome del suo capo come porpora. Sì, la sua chioma mi parve come un gregge di capre, i suoi denti come greggi di pecore che risalgono dal bagno, tutte appaiate, sì che nessuna di esse era prima della compagna. E: “Come sei bella, mia amata, come sei bella,” mi venne da mormorare, “la tua chioma è come un gregge di capre che scende dalle montagne di Galaad, come nastro di porpora sono le tue labbra, spicchio di melograno è la tua guancia, il tuo collo è come la torre di David cui sono appesi mille scudi.” E mi chiedevo spaventato e rapito chi fosse costei che si levava davanti a me come l’aurora, bella come la luna, fulgida come il sole, terribilis ut castrorum acies ordinata.
Allora la creatura si appressò a me ancora di più, gettando in un angolo l’involto scuro che sino ad allora aveva tenuto stretto contro il suo petto, e levò ancora la mano ad accarezzarmi il volto, e ripeté ancora una volta le parole che avevo già udito. E mentre non sapevo se sfuggirla o accostarmi ancora di più, mentre il mio capo pulsava come se le trombe di Giosuè stessero per far crollate le mura di Gerico, e al tempo stesso bramavo e temevo di toccarla, essa ebbe un sorriso di grande gioia, emise un gemito sommesso di capra intenerita, e sciolse i lacci che chiudevano l’abito suo sul petto e si sfilò l’abito dal corpo come una tunica, e rimase davanti a me come Eva doveva essere apparsa ad Adamo nel giardino dell’Eden. “Pulchra sunt ubera quae paululum supereminent et tument modice,” mormorai ripetendo la frase che avevo udito da Ubertino, perché i suoi seni mi apparvero come due cerbiatti, due gemelli di gazzelle che pascolavano tra i gigli, il suo ombelico fu una coppa rotonda che non manca mai di vino drogato, il suo ventre un mucchio di grano contornato di fiori delle valli.
“O sidus clarum puellarum,” le gridai, “o porta clausa, fons hortorum, cella custos unguentorum, cella pigmentaria!” e mi ritrovai senza volere a ridosso del suo corpo avvertendone il calore e il profumo acre di unguenti mai conosciuti. Mi sovvenni: “Figli, quando viene l’amore folle, nulla può l’uomo!” e compresi che, fosse quanto provavo trama del nemico o dono celeste, nulla ormai potevo fare per contrastare l’impulso che mi muoveva e: “Oh langueo,” gridai, e: “Causam languoris video nec caveo!” anche perché un odore roseo spirava dalle sue labbra ed erano belli i suoi piedi nei sandali, e le gambe erano come colonne e come colonne le pieghe dei suoi fianchi, opera di mano d’artista. O amore, figlia di delizie, un re è rimasto preso dalla tua treccia, mormoravo tra me, e fui tra le sue braccia, e cademmo insieme sul nudo pavimento della cucina e, non so se per mia iniziativa o per arti di lei, mi trovai libero del mio saio di novizio e non avemmo vergogna dei nostri corpi et cuncta erant bona.
Ed essa mi baciò con i baci della sua bocca, e i suoi amori furono più deliziosi del vino e all’odore erano deliziosi i suoi profumi, ed era bello il suo collo tra le perle e le sue guance tra i pendenti, come sei bella mia amata, come sei bella, i tuoi occhi sono colombe (dicevo) e fammi vedere la tua faccia, fammi sentire la tua voce, ché la tua voce è armoniosa e la tua faccia incantevole, mi hai reso folle di amore sorella mia, mi hai reso folle con una tua occhiata, con un solo monile del tuo collo, favo che gocciola sono le tue labbra, miele e latte sotto la tua lingua, il profumo del tuo respiro è come quello dei pomi, i tuoi seni a grappoli, i tuoi seni come grappoli d’uva, il tuo palato un vino squisito che punta dritto al mio amore e fluisce sulle labbra e sui denti… Fontana da giardino, nardo e zafferano, cannella e cinnamomo, mirra e aloe, io mangiavo il mio favo e il mio miele, bevevo il mio vino e il mio latte, chi era, chi era mai costei che si levava come l’aurora, bella come la luna, fulgida come il sole, terribile come schiere vessillifere?
Oh Signore, quando l’anima viene rapita, quivi la sola virtù sta nell’amare ciò che vedi (non è vero?), la somma felicità nell’avere ciò che hai, quivi la vita beata si beve alla sua fonte (non è stato detto?), quivi si gusta la vera vita che dopo questa mortale ci toccherà di vivere accanto agli angeli nell’eternità… Questo pensavo e mi pareva che le profezie si avverassero, infine, mentre la fanciulla mi colmava di dolcezze indescrivibili ed era come se il mio corpo fosse tutto un occhio davanti e di dietro e vedessi le cose circostanti di colpo. E capivo che da esso, che è l’amore, si producono a un tempo l’unità e la soavità e il bene e il bacio e l’amplesso, come già avevo udito dire credendo mi si parlasse d’altro. E solo per un istante, mentre la mia gioia stava per toccare lo zenith, mi sovvenne che forse stavo sperimentando, e di notte, la possessione del demone meridiano, condannato infine a mostrarsi nella sua natura stessa di demone all’anima che nell’estasi domandi “chi sei?”, esso che sa rapire l’anima e illudere il corpo. Ma subito mi convinsi che diaboliche erano certo le mie esitazioni, perché nulla poteva essere più giusto, più buono, più santo di quel che stavo provando e la cui dolcezza cresceva di momento in momento. Come una piccola goccia d’acqua infusa in una quantità di vino tutta si disperde per prendere colore e sapore di vino, come il ferro incandescente e infuocato diventa somigliantissimo al fuoco perdendo la sua forma primitiva, come l’aria quando è inondata dalla luce del sole è trasformata nel massimo splendore e nella medesima chiarezza, tanto da non sembrare più illuminata bensì essere luce essa stessa, così io mi sentivo morire di tenera liquefazione, sì che mi rimase solo la forza per mormorare le parole del salmo: “Ecco il mio petto è come vino nuovo, senza spiraglio, che rompe otri nuovi”, e subito vidi una fulgidissima luce e in essa una forma color zaffiro che avvampava tutta di un fuoco rutilante e soavissimo, e quella luce splendida si diffuse per l’intero fuoco rutilante, e questo fuoco rutilante per quella forma splendente e quella luce fulgidissima e quel fuoco rutilante per l’intera forma.
Mentre, quasi svanito, cadevo sul corpo a cui mi ero unito, capii in un ultimo soffio di vitalità che la fiamma consiste di una splendida chiarezza, di un insito vigore e di un igneo ardore, ma la splendida chiarezza la possiede affinché riluca e l’igneo ardore affinché bruci. Poi capii l’abisso, e gli abissi ulteriori che esso invocava…

 

 

(Stefano Falotico)

Uomo nero? No, Uomo noir


22 Oct

 

Meditando e meditando… s’addivien a se stessi, in una Notte di tempesta a renderti un po’ martire e un po’ “smorto”.
Ma è, nella languidezza, che riscoprii la parte noir, accesissima della mia pelle, nell'”impellicciarmi” in storie investigative in cui un detective spia forse il “suo” specchio che “aggronta” la fronte e gli offre una sigaretta, mentre il Mondo, a rotoli, arrotolerà un’altra cazzata, e andrà sempre “a puttane”, anche quando tutti fingeranno d’esser “brave” personcine.

 

 

Non so, stamane, nelle “mani” d’una Donna che m’apparve abbagliandomi, m'”abbacinai” porgendole una dichiarazione di “fottutissima” sincerità.

Mi par, sì, in linea con chi non s’è putrefatto ed è rinato, dopo “torbidi” vicoletti, un po’ “ciechi”, fuorviati da biechi figuri che volevano “ammazzarti”, mascherando l’omicidio per una casualità del Fat(t)o.

Ecco le mie vergate, testuali frasi.

Credo, si chiami Deborah… ah, che foto, solo tre, ma tanto basta(ro)n a incendiarmi…

Sai, mi piaci molto, perché nasconderlo?
Qui dentro, son risultato antipatico ad alcune, solo perché non tacevo né celavo la mia passione per le donne, di cui talvolta m’increspo sfumando in pindarici erotismi-aforismi anche solo immaginati, meglio che “carezzarsi” con le nuvole dell’apatia.
Non so, non so davvero se mai potremmo andar d’accordo, mi pari così “seriosamente sorridente”, d’una intraprendenza che lascia esterrefatti, ritratta a cena, o in un pub (lo sfondo lo “dipingerò” io), sempre a reggerti il capo, o in “posa da sci”, così vellutata dietro un monte bianchissimo, nel tuo “denudato” candore.
Non so, vivo d’impressioni, le aleggio e me ne divampo dentro, sebbene le vamp(ire) mai m'”ossequieranno” di baci “sanguisuga”. Meglio così, avrò risparmiato i globuli rossi per emozioni vere, romantiche d’una metafisica che non le asciughi nel cinismo globale, o solo nell'”arrivismo di balle”.
Sono uno scrittore, quando, a qualcheduna, segnalo i miei romanzi, credono sia venuto qui per farmi pubblicità spicciola. No, è un mio vanto, perché non rivelarlo? Siamo tutti falò delle nostre piccole o grandi ambizioni.
Su Ibs.it, alla voce “Stefano Falotico”, troverai, se lo vorrai, le mie opere. Per ora, son tre, si spera crescan di numero e che il Tempo m'”allevi” sempre di nuove, corroboranti migliorie. No, una volta pubblicati, non sono quasi mai soddisfatto del mio lavoro, sono molto esigente, soprattutto con me stesso, sarà per questo che vengo “emarginato” da molta gente.
Sì, son spigliato, spesso perfino mi “spoglio”, brillante ed emancipato da tante rigide convenzioni che furon bacata “invenzione” di classismi perentori, ora duri da scardinare.
Sì, conoscerti, anche sia solo un’amicizia senz’amore in cui “armarsi” d’idee, consigli, suggerimenti, “tendersi la mano”, confrontarsi per affrontarla con più grinta e piglio, anche sex appeal, perché no, mi “suggestionerebbe” positivamente nel mio atomico essermi riscoperto vulcano.
Amante della vita, del “canzonarmi” perché son autoironico, e delle canzoni tutte, dalla “leggera” italiana, al folk al rock, fino al metallo che si spera non sbiadisca e che ti tien sempre guardingo e “rabbioso” nel necessario, mai domo, pedina movente e mobilissima che non si fa “scaccar” dai giochi soggioganti “mangianima” della Dama.
Oh, tu lo sei, damigella, oserei dire, sarà per questo che mi son posato sul tuo profilo, per una mezz’oretta ch’è già parte della mia memoria.
Ah, son anche smemorato, mi dimentico il pigiama e dormo come Madre Natura mi creò, ma non c’è miglior coperta della propria pelle.
Sempre, anche quando una Donna come te, gentile, mi dirà “Parla con qualcun’altra”.
Un bacio. Spero che il bacio si scolpisca nei tuoi occhi, e in questo tuo volto bellissimo.
Stefano.

Cosa replicherà?
Forse, accetterà di “buon grado” le mie avance, con un bacio “al sorbetto”, chissà…

 


Mattine umide… a New York…

Canzoni melodiche che “parlan”, parlan sempre di decadenza. Ma se non sapete neppure dove abita!
Ah, per piacere, datemi un caffè e lo scremerò nella Luna, addolcendolo con un viaggio alle origini dei “fattacci”.
Dei delitti irrisolti, per me “solubili” come granelli di “canna”.

Non so, invece, se mi metterà in black list, come oggi va di moda, si “ragiona” per istinto e spesso si brancola nel buio, penserò a una femme fatale davvero stronza.
Quando penso a una Donna di questo “tipo”, ah, le uniche “tipologie” che mi vengon, sì, davvero vengono…   in mente, dunque anche in “qualcos’altro”, sono le forme biondissime di Shannon Tweed, reginetta dei B-movie, ma dal solluchero al seno “grondante”.
Ah, m’inginocchierei fischiettandole tutto, tutto il mio “Cuore”, energizzandolo perché “lo” accudisca”.

Donna per facce sfregiate…

 

Tutta la maturità del platinarla…

 

Ma Sharon è “nerissima”. Sì, di più…

 

 

Bene, dopo questo preambolo, innamorato della Donna, direi di parlar, davvero di nero…

 

Non so, molte cosc(e) si levigaron consistenti in Raymond Chandler e in tanti suoi, nostri adorati “figlioletti”.
Penso a James Ellroy, di cui divorai le turgide serate torpide di “L.A. Confidential”.

Come recita un importante passaggio… A certi uomini tocca il mondo intero, a certi altri un’ex prostiututa e un viaggio in Arizona. Tu sei tra i primi, ma, mio Dio, non ti invidio il sangue che hai sulla coscienza.

Da qui, quando lo reputerò “imputabile” alla mia anima, inizia la nostra storia noir…

E, a Long Beach, camminiamo dentro i nostri incubi.

 

 

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