“C’era una volta in America” – La recensione

09 Oct

 

Once Upon a Time in America

 

 

Il Tempo nell’once upon un’altra (s)volta

Rinomate torsioni della memoria, “drogata”, sbiancata di ceruleo, denso liquore fra le “palpebre” dell’anima, d’occhiolini (mai) smaltiti, “ammattiti” da una tempesta emotiva che, d’effluvi sonanti nel ricordo, carezza torbida, tortuosa, “torreggiante” i propri giardini labirintici, “sbuffando” la “noia” delle lancette, lo scandir “mesto” d’imbrunite emozioni, svagate, cogitabonde, “ammanettate” al malinconico urlo e indocilite da acchetata brezza dei dolori e degli amori.
Come un treno “a vapore” che s’“inerpica” lungo la via solitaria di se stessi, “eremiti” in una città mitica in cui ricompari come diamanti “grezzi” d’una fantasmatica (ri)emersione dalle foglie autunnali, “invecchiate” o ringiovanite del tuo “vampiro”, assetato di nostalgico fumo nelle iridi dell’erta “pavidità” che (non) fu e delle altre coscienze “svanite”, imborghesite, morte dentro o forse ancora a morsicare le vanità degli attimi cancellati d’indelebile ma(i) erosa reminiscenza.
A riscoccare della magia che, intrepidi, stupidi, “inetti”, “perdenti”, reinventati o “rivinti”, intraprendemmo nel lontano, lontanissimo, remoto ammiccarci da “anziani” amici. Come ieri, come oggi, come l’eterno inamovibile.
Criminalotti “bambini” o già troppo uomini in questo Mondo di duri, che già scalfì al primo vagito “extrauterino”, incarnato in respiri ribelli “troppo” vivaci da “tacere” nei “silenziatori” delle pistole, a chiuder la bocca a un balordo sistema già epi(dermi)camente, all’epoca, grigio e “solare” di nerezza. Del “gironzolare” da oziosi e “scioperandi” disoccupati dall’obbligo “morale” a un’esistenza irresistibilissima per non viverla al massimo, dunque “fallita” per gli impiegati del “catasto”, sempre lì a tastarli, ad “arrestarli”, a perseguitarli, a (s)cacciarli… questi incalliti nelle loro candide, incandescentissime “innocenze” da angeli sporchi, macchiati nel sangue e negli zampilli “variopinti” della “marea”. A ballare sotto il ponte di Brooklyn, nel leitmotiv di Ennio Morricone, fischiettato di “ritornello” che non tornerà più, anzi, i tornanti delle alterazioni, del cambiamento, del growing up, della fiabesca “depravazione”, delle perdizioni appunto del “loser” Noodles.
Noodles, che “violenta” il piacere d’un invaghimento dell’infanzia. Che sbaglia le mosse o le azzeccherà tutte, nella “zecca” della banca dei sogni, ove la cassaforte è senza più un soldo.
Svuotato, infatuato di un ideale di Bellezza smarrita. Chissà dove. Chissà quando.
Chissà in quali anfratti, in quali angoli delle forti fragilità, delle “limpide” brume, di quali tramonti, di quale scor(d)ata, illusoriamente indimenticata “era”.

 

Un capolavoro assoluto che è nel genio Sergio Leone. La misoginia, il tradimento, i “valori”, le controversie, le “variegate versioni”, le cuciture, le aggiunte, i “restauri”, l’“appannato” rispolverarlo, le rivalità, le competizioni di nessun Oscar “agguantato”, i torti, gli errori, i rimpianti, tutto ciò non m’interessa. E non ce ne frega niente.

Un’opera maestosa lo è, di nascita. Non si può analizzarla di “riassuntini”, di “stilografiche” e di stilemi.

Piomba dal nulla e ti sorride col neo beffardo di De Niro.

Yesterday…

(Stefano Falotico)

 

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