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JOKER, Il Principe della notte: non ho età, non sono né vecchio né giovane, non sono infantile, non sono adolescente, sono solo registrato all’anagrafe, non sono mai nato e dunque non morirò


25 Aug

Ra Stargate

Come no?

Sì, dopo appurate analisi, dopo indagini approfondite, dopo psicanalisi da me stesso inflittemi, dopo immani scavi, oserei dire, archeologici per rinvenire il reperto storico perfino di me che finii in un reparto da Spider di David Cronenberg, asserisco con totale onestà di non avere età.

Non ho talloni d’Achille, non mi sbriciolo di fronte alla criptonite, se estrarrete il carbonio 14 dalla mia scatola cranica, non riuscirete a misurare la mia età. Se invece estrapolerete, donne, dalla patta dei pantaloni il mio velociraptor, potrete misurare invece le dimensioni di qualcosa di bestiale che forse possedettero soltanto gli uomini di Neanderthal.

Ah ah.

Io non ho età, sono oltre ogni tempo e, se un giorno schiatterò, non dovete elevare in mia memoria nessun tempio.

Poiché celebrereste soltanto il sarcofago vivente d’una mummia comunque più viva di voi che amaste l’omonimo film con Tom Cruise. Una pellicola mortifera che non divertirebbe neppure Tutankhamon reincarnato in quel cazzone del re Ra di Stargate, ovvero Jaye Davidson. Un uomo o pseudo-tale che è un ibrido fra il compianto cantante Prince, la deceduta Whitney Hosuton e Michael Jackson prima della sua morte, ovviamente, ma soprattutto prima che volesse diventare Kevin Costner di Guardia del corpo.

Ah ah.

Sì, che attore della minchia questo Davidson.

Al suo attivo ha solo due lungometraggi, ovvero il già succitato Stargate e La moglie del soldato, più un mezzo tv movie e un corto che avrà visto solo lui.

Comunque, a proposito de La moglie del soldato, vi racconto questa…

Qualche mese fa, fui contattato su Facebook da uno, forse una, che mi ripescò:

– Stefano, mi riconosci? Ci siamo visti al meeting di FilmTv.it del 2006. Ti ricordi di me?

– Mah, di mio non mi ricordo neanche cos’ho mangiato a pranzo. No, non mi vieni in mente. Chi sei?

– Ecco, ci vedemmo (usa anche il passato remoto, stavolta) solo di sfuggita. A differenza tua, io mi ricordo eccome di te. Sebbene avessimo scambiato solo due parole. Tu sei indimenticabile. Ora, comunque posso capirti. Ho cambiato sesso. Adesso non mi chiamo più Federico ma Federica. Si nota dalle foto?

– Mah, se lo dici tu… Fammi ben vedere. Dammi due minuti ché devo sfogliare un paio di tuoi album. Aspettami.

– Fai pure, tanto ti ho aspettato, anzi, t’aspettai lungamente per 13 anni, 5 min. in più non sono importanti.

– Che vuoi dire?

– Niente. Tu intanto sfoglia. Poi, dimmi.

– Ecco, a esserti sincero, sì, noto che sei mezza svestita in quasi tutte le tue foto. Ma entro i limiti del consentito dalla censura di Facebook. Però, ci sono un paio di tue foto in cui ho ravvisato una certa protuberanza…

Dunque, non sei donna a tutti gli effetti, diciamo.

– Effettivamente, no, hai ragione. Sono un trans. Vuoi il mio numero WhatsApp?

– Va bene. Passamelo…

– Ti mando un messaggio così mi aggiungi subito ai contatti. Ti è arrivato?

– Sì.

– Ottimo, instauriamo immediatamente un certo contatto. Si è capito che mi piaci?

– Sì, me l’hai già detto mille volte. Dunque, che vuoi?

– Mi manderesti una tua foto proibita? Dai, scattatela ora.

– Va bene.

 

Gli mandai la foto, quindi gli scrissi:

– Soddisfatto, ora?

– Ancora no. Dammi tempo. Mi sto toccando. Ci vuole un po’…

– Va bene, intanto vado a mangiarmi un gelato.

– Fai, fai…

 

Finito che ebbi di leccare tutto il Cucciolone, riprese la nostra conversazione del cazzo:

– Sei venuto? Sei a posto, adesso?

– Felicissimo. Comunque, tu hai leccato, sì, leccasti tutto il gelato. Ho avvertito una certa freddezza da parte tua, nevvero?

Cosa c’è che non va in me? Mi hai appena inviato una tua foto “sputtanabile”. Sai che ti dico? Non mi piaci più. Ora, sai che faccio? Piglio la tua foto del cazzo e la spargo in rete, così ti rovino.

– Ah sì. E che cazzo hai in mano se non l’immagine di un cazzo? C’è la mia faccia, forse?

– No. No, non c’è. Ma perché non ti piaccio? Cazzo!

– Se mi piacessi, avendomi tu dato il tuo numero WhatsApp, ti avrei già chiamato, non credi?

– Chiariamoci, stronzo. Io ti ho appena rifiutato! Vattene a fanculo!

 

Sì, che dire? Un uomo che sa davvero che cazzo voglia dalla vita. Ah ah.

Di mio, ho un viso da sfinge, un volto talmente espressivo che non ho bisogno di cambiare, appunto, espressione poiché soltanto con l’aggrottare impercettibile della mia fronte comunico molte più emozioni di Buster Keaton.

No, non sono Batman come lo fu Michael Keaton e non sono Arthur Fleck. Non sono nessuno, detta onestamente.

Però, nel 2003 scoprii di aver perso tutta la mia vita, facendo il clown.

I pagliacci fanno ridere la gente, infatti la gente mi chiamava solo per scarrozzarla avanti e indietro per tutta Bologna. Insomma, le persone ti sfruttano per opportunismo.

Quando le accompagni a un discopub e, mentre loro tracannano birra e gozzovigliano di lingue nei bagni caldi, raccattando qualche Catwoman, insomma, quando fanno i loro porci comodi, tu resti acquattato e soprattutto acquietato, già immensamente lontano dai giochi triviali e tribali di un’adolescenza tua mai avuta, mai venuta…

Forse solo svenuta o di sapida, saggia melanconia imbevuta. Sì, tutti si fanno delle grandi bevute e, alle tue (s)palle, delle matte risate, invero scontate e risapute.

Credendoti pazzo oppure, appunto, pensando che non capisci un cazzo.

Ciò che di me è inquietante, io stesso l’ammetto in maniera disarmante, è che io pensai e penso a tutt’oggi la stessa cosa di costoro. Mentitori, impostori, vili e malfattori. Puttanieri e sfruttatori.

Sì, penso che furono, sono e saranno irrimediabilmente, eternamente persone malate di mente. Incurabili e irrecuperabili. Come dico io, nemmeno inculabili. Poiché, come detto, a me non piacciono manco per il cazzo. Questi qui si fottono da soli, fidatevi.

Ah ah.

Poiché, a mio avviso, non capiscono la realtà. Non la capirono, giammai la comprenderanno. Debbo solo, più che compatirli, biasimarli e disprezzarli per la loro abietta miseria morale, accettarli e comprenderli.

Poveretti.

Perlomeno, la maggioranza. Vivono di automatismi, cioè in modo meccanico, ragionando d’istinto o, al massimo, ripeto… per mero opportunismo, per volubilità ed estemporanee emozioni che, come un raptus momentaneo indomabile, fanno le cos(c)e senza pen(s)are. Senza meditare sulle conseguenze dei loro impulsivi gesti partoriti unicamente dai circostanziati istanti, appunto, figli di quel fugace, pericoloso, instabile istinto lor abrasivo, lurido e belluino.

In quell’attimo circoscritto, non so se conciso o circonciso, i loro gesti s’iscrivono e adempiono all’animalità delle loro viscerali, esecrabili passioni oscene non propriamente finissime, però finalizzate ad allettare la primitiva fame d’orgasmi, sessuali ma anche no… più miserrimi.

Agiscono per avarizia, per indolenza, per noia o addirittura per pigrizia. Sì, può apparire contradditorio il termine pigrizia se associato all’azione. Alle loro masturbazioni.

Non lo è. Le azioni di molta gente sono animalesche, dettate inconsciamente, soprattutto incoscientemente, da un innato spirito di conservazione, da un barbarico, sebbene imborghesito e apparentemente civilizzato, meccanismo di sopravvivenza atavico di natura scimmiesca, proteso ad aderenza di una volontà primaria, dunque da primati, fatta di repentini palpiti, di capricciose voglie assai fuggevoli di palpate e amplessi che svaniscono nel labile, impercettibile battito di ciglia che a sua volta, in un baleno, dopo il tintinnarsi ruggente, s’eclissa nella monotonia di un’esistenza già fuggente, già di mano sfuggita.

Appunto, giammai ca(r)pita nella sua vera essenza profonda come una pepita nel deserto delle loro aridità da uomini e donne scipite.

Sì, è per questo che molti miei coetanei sono tutti depressi cronici. E si scolano soltanto insipide bibite.

Esperirono già troppa vita porcellesca e ora precocemente si son condannati al supplizio delle nostalgie passatiste, ubicandosi nella calma omeostatica di emozioni placatesi, di umori collocati nel posto fisso della routine lavorativa delle loro giornate illimitatamente, ripetitivamente uguali a sé stesse. Trascinandosi nell’apatia mascherata da ruffianeria ove fingono di prodigarsi socialmente, prostrandosi ai buonismi più moralistici, semplicemente per non guardare allo specchio le anime dei loro spettri ambulanti già patiti, già nell’anima partiti.

Io chiamerei per loro un’ambulanza. Sono tutti matti ma non sanno di esserlo.

Aspettano il sabato sera per fare baldoria, poi si svegliano per immusonirsi nelle domeniche pomeriggio tediose, rattristandosi, prima di prendere sonno poiché consapevoli che da lunedì mattina, cioè il giorno dopo, la solita loro vita lavorativa, assai ipocrita e meschina, inevitabilmente si avvicina.

Sono la prole di questi padri rincoglioniti che educarono appunto tali lor figli debosciati e (de)generati all’etica della dignità maschilista, se parliamo di figli del cazzo col cazzo, di femminismi scassa-minchia se ci riferiamo a queste figlie che fanno tanto le fighe ma rompono solo le palle.

Ah ah.

Di mio, vado a ficcarmi in bocca un altro gelato.

 

di Stefano Falotico

Lo stagista inaspettato è un bel film, critica alla “critica” di FilmTv.it: giunto allo sfinimento della mia vita fine, in quanto oltre-uomo, sputtanai il puttanesimo ruffiano de Il diavolo veste Prada


16 Oct

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Una tizia, forse tozza, ha su codesto, non so se oramai desto, sito, stroncato Lo stagista inaspettato. C’era d’aspettarselo che la furbizia della Meyers fosse scambiata per sdolcinata “c(ornuc)opia” del film con la Streep, sempre con la Hathaway.

Non mi penerei, pensante assai, troppo su questa che vistosamente, dopo non avergli dato il visto, eppur visionandolo, l’ha così mal giudicato.

Fa oramai parte di una “critica” che incensa, a torto (fosse per me, meglio in faccia la torta a gente esaltata ch’è meglio vada a “sfogliar” i tortellini), un cinema “autoriale” alla Fukunaga, altro abbaglio colossale, e stronca, a ragion (non) veduta, i “filmini”, come se ora declassare il puro entertainment fosse lo spo(r)t nazionale per far carriera in redazione. Altro che Meryl Streep e De Niro che non è l’Hathaway. Questa batte non solo le redattrici più finto-eleganti ma anche le battone, e non è una battuta!

Secondo me, è solo brutta, e Lo stagista inaspettato non è brutto come Maurizio Porro, un porco che la butta sempre sulla stroncatura “carina”, altro che le carinerie intelligenti della Meyers, de “Il Corriere delle seghe”…, “sfinisce”, in definizione che mi paiono sitcom umoristiche.

C’è tempo per giudicare, c’è un tempo per la pensione e io non ho voglia che qualcuno rida di De Niro.

Datemi un fazzoletto e, dinanzi alla mia grandezza, voi, che vi spacc(i)ate per critici, conoscere il pianto della mut(u)a.

 

di Stefano Falotico, appunto, il Genius

Dizionario dei film 2012 – I migliori film dell’anno (“L’alba del pianeta delle scimmie”), parte prima


01 Aug

Prefazione di Stefano Falotico, il Genius, Travis Bickle 1979, nato per essere Lui.

Un altro magico journey nelle favole incantatorie del Cinema, nostro diletto supremo e convergenza delle più alte emozioni nel tenue sospirarle e vagabondo adorarle.

 

Un’immersione dentro la celluloide ad abisso dei suoi punti focali, nevralgici, fra tramonti di color alabastro “arrossito” nell’intingerci sui nostri pudori svelati romanticamente, sfocato spalmarcene come febbre divorante per attraccare focosi ai suoi polmonari respiri infatuati dell’immenso, fluttuante arcobaleno, “inghiottirli”, “incenerire” le angosce che ci turbano, veleggiar armonici nel sobrio “assopire” la realtà e mutarla a specchio dell’infinità mastodontica. Come artisti, “sofferenti” gioiosamente nei cunicoli del meandro esplorato, come ricercatori d’oro in questo tripudio di triste, spesso, cinica società che non crede più nei sogni, nella traspirazione onirica a “proiezioni” del grande schermo ottico, o forse finge di non vedere all’interno di tal stupenda, fotografica, dunque immortal profondità con quell’illusorio ma riprovevole senso pragmatico che a noi mai si accor(d)a.

 

Siamo noi i guerrieri dell’amore per l’Arte, e il Cinema rappresenta la montagna più sacra di coloro che protendon alla vetta della Passione.

Dei cieli a limpidezza estrema, a scarnire le nostre combattive anime nel “blob” esplosivo e stordente delle pellicole più suadenti.

N’afferriamo la “disomogenea” miscel(lane)a e inanelliamo prose a venerazione del suo ipnotizzante lirismo.

Come creature di un’altra epoca, “assoldati” al Dio Cuore, piacevolissimevolmente attanagliati dalle sue “morse”, e morsi, appunto divinatori d’eccelso.

D’estrema “unzione” che ci bacia, con delicatezza, d’angelico rinascerci a ogni nuova prodigiosa immagine, a innovarci col nobile fine d’arcuare i nostri lineamenti visi-vi nel “supplicare” altro goderne delle visioni, e innamorati, per sempre, del flusso madido d’intrecci sfavillanti.

 

Mercoledì 1 agosto 2012, 10:54

Ebbene, scoccan le ore a noi più intraprendenti, di palpitazioni emotive affilate come sempre di sogni “errabondi”, corroborati e dunque coloratissimi, talvolta, d’intrepida furia a noi più incarnata, scatenata e dalle “catene” slegata. Come scorribande nel “nitrato” di cavalli pazzi, irti in magnificenze nostre, dorate e ancestrali d’“ammaestrarci” solo a briglie sciolte, pittando le nuvole, anche gli umori “ombrosi” d’annuvolate tempeste caratteriali, mai di “cattedra” pomposa o “s(c)ibilante” (pres)untuosamente, ma forbitamente “crateriche”, in tenue “acquerello” che, pennellando “guasconissimo” d’una irriverenza solo nelle reverenze a noi più congeniali d’innata indagine delle nostre variopinte, pindaricissime, fiammeggianti anime, s’“arzigogola” come un dondolarci mesti e poi “mareggianti” nelle lagune veneziane da gondolieri contemplativi nell’ascetico nostro effonder la purezza acquosa d’una foschia via via più rallegrata ed erta, a cangiar i mutamenti oscillanti dei nostri cuori “arsi” dalle piogge o dai gocciolii d’appassionate immersioni stupende ove i raggi della solarità ancorata all’“accorarci”, appunto, di cavalleresco veleggiarci, ci svela in vortici mnemonici d’immagini già (sovra)impresse nei nostri cutanei bagliori di folgori fulminee, dunque profondi sotto l’appariscenza meno visibile ma di visibilio visivo, nel fulminarci di Bellezza.

Atrocemente vivi e fieri.

 

Passeggiai, di motivetto “serenetto”, stamane lungo questa città, tetra d’Inverno e desertica d’Estate, oggi ch’è vigilia d’Agosto, anzi no, è proprio l’1 del mese più rovente dell’anno, mese di spiagge “bikinizzate” per esibizioni “costumistiche” ove una bionda impiegata impiegherà mezz’ora solo per infilarsi nel “bagno”, “estatico” appunto degli occhi allupati di bagnanti già essiccati dal brivido di desideri furibondi, castrati da docili mani “ammogliate” per vol(t)ar la vista verso l’orizzonte tramontato dell’o(r)mone, al fin “taumaturgico” dell’ipocrisia “conciliante” con le nuziali “fedi” d’un anello al dito che ha promesso giuramento e ne ha irreggimentato la lussuria, nel caldo rifiorita, ma da sfiorir ché non riaffiori il maschio che eri, prima che t’evirò.

Sì, immagino la giornalista Elvira, stanca di discorsi “balistici” d’un Calcio che odia ma le mantiene il privilegio d’essere amata dalle videocamere “spioncine” delle sue maestose gambe di minigonna attizzantissima fra un goal e un’esultanza del “volpon” che ferma la cardiaca “serenità” d’un “tifo” molto “afoso”, (s)lanciato, slacciatissimo, “investigativo” a spogliar le sue calze, lì lì, indecisa se mostrar impudica il seno, pezzo forte, o “spezzettartelo” in due, tranciata in “monodose” di pareo “detergente”.

 

Al che, “violentato” dal desiderio riscaturito di gola bruciata dalla temperatura bollente, impazzisco, e decido, come il mio amico di (s)ventura Ismaele, il “mozzo” delle balene bianche, di sguazzar nell’Oceano spirituale d’elevazioni filmiche, forse per “tramarmi” d’intrecci “aggrovigliati” a un casto “cinturar” l’onor valoroso da coltissimo cinefilo, per dimenticare (per un po’, solo “istantanee”) le rive troppo “asciutte”, e navigar di perpetui, “abissali” tuffi, quasi quanto le nostre olimpioniche, “greche”, statuarissime campionesse dei “trampolini carpiati” e da me carpiti in stardust golosità più metafisiche.

Sì, Elvira ha un fisico che ti fa “tribolare” peggio del fisco, è una che se la vedi poi “fischietti”.

E, se ti deluderà d’un “No(do) reciso”, la fiaschetta sarà di consolazione per non esserti “assolato” con Lei. Non confidatelo, amo quella Donna, i suoi tacchi “depredaron” la mia virilità da “macho man” alla Kevin Kline, e mortificarono, “pietrificandomi”, il mio In & Out(ing) in zona “Onoff”, incerta e titubante se corteggiarla o esser avaria, “torpediniera”, del mio “modellino” da nautico in miniatura.

Sì, non merito la sua statura, e Lei non merita il mio cervello e il mio amor visceralissimo per il Cinema.

Perché il chiodo tu batterai, ma non ti schiodi dalla prima, più vera e vivifica infatuazione fastosissima, la Settima Arte, la più grande di tutte, poiché in essa convergono tutte le altre d’amplessi (s)fumatissimi.

Virtualità o realtà più nuda delle maschere carnevalesche di Elvira? Bugiarda della sua sensualità?

Sì, il Cinema mi salverà dalle sue grinfie, e “smalterò” le unghie del mio erotismo in un onirismo catartico.

L’importante, comunque, “ricordatelo” sempre, è unire appunto al “piccante” i neuroni plananti.

Mai platinati, semmai ci pattiniamo sopra, di gusto zuccheroso, poi malinconico, un po’ sal(t)ato. E molto saettante.

Tutto questo preambolo, un po’ “embolo”, per presentarvi il nostro nuovo “Dizionario dei film”, stavolta della stagione appena trascorsa.

 

Come ben sapete, l’anno scorso, io e Valerio Vannini, cioè Travis Bickle 1979 e Spopola, che io scrivo sempre con la “S” di Superman maiuscola, abbiamo allestito un vademecum di recensioni e “bizzarrie” che, oggi, ha trovato sovran diritto di cittadinanza alla Feltrinelli ed è acquistabile sul sito “Ilmiolibro.it”.

 

Tutto partì per affinità elettive, una raccolta entusiastica che “copia-incollò” le nostre opinioni su “FilmTv.it” proprio qui, su “Cinerepublic”.

 

Le potete trovare tutte in tal luogo, già, “guarnite” di clip, curiosità, filmati, locandine, poster trailer.

 

Perché dunque non ripetere la straordinaria, unicissima esperienza e imbastirne un altro, semmai ancor più grande, più completo, più articolato e anche più “ermetico?”.

 

Come sempre, c’avvarremo di “guest star”, le firme più autorevoli del nostro sito per dar voce un po’ a tutti, indiscriminatamente, come già avvenuto per il primo…

 

Ma esagereremo, eccome se remeremo.

 

L’imprescindibile, illuminato nostro M Valdemar  ha dato il suo assenso e la sua magia di “assenzio” per un “Non c’è due senza tre”. A cui, come detto, se ne aggiungeranno altri.

 

Anche il magnifico, titanico ROTOTOM fa parte dei nostri, i quattro moschettieri, quindi. Arditi e “arsissimi” nella celluloide, di spade incalzanti.

 

Sì, dunque vol(t)eremo su incantatori sprazzi e spaziali orbite filmiche, “mirati” nel vento e nelle memorie.

Capitani coraggiosi, cavalieri romantici e romanzeschi, Excalibur nostra per un Sacro Graal perduto, forse dalle inique “modernità” d’un progresso che sta schiacciando progressivamente, appunto, il magma favolistico delle eruzioni più intimamente “evolutive”.

 

Cristo, coi suoi fedeli, apostoli d’un terzetto via via ad allargarsi e prender forma e sembianze.

 

Recensioni quindi personalissime, perle come Atlantide sommersa da “dissotterrare” dall’Oceano, forse (ig)noto, e rifulgerle in tutta eroticissima, erculea, forzuta, energica, adrenalica robustezza.

 

Stoici combattenti.

 

E allora, come Gerard Depardieu/Cristoforo Colombo del capolavoro di Ridley Scott, 1492… La conquista del paradiso, eccoci qua, Io, e le irrefrenabili tre caravelle a imbarcarci per lidi di scoperte magnifiche e immaginifiche, col timon d’un Peter Weir che ci sprona soffiandoci nelle iridi d’ incontaminato idillio visivo e in noi fulgido.

 

Chi è M Valdemar? “Misterico” personaggio d’ascendenza lynchiana, il cui nome, forse, riveleremo più avanti, forse in una Notte tempestosa e solitaria, “nudissima” a confidarci chi (non) siamo, nell’autentico guardarci dentro e negli occhi.

 

Chi è ROTO? Questo genio cinefilo che, dal vivo, è più bello e sexy di Javier Bardem?

Avrete modo d’ appurarlo, forza, salite sulle nostre navi.

 

Miei prodi, noi lodiamo il Cinema!

 

E mi sembra, quantomeno doveroso, iniziare il viaggio con Valerio, mio mentore e raffinatissimo chef che ci fa gustare i film come pietanze prelibate quando apriamo la bocca, anzi no, il boccaporto e pranziamo assieme.

 

 

In una data indeterminata…

 

L’alba del pianeta delle scimmie di Rupert Wyatt

 

Will (James Franco), giovane scienziato, sta cercando di sviluppare una cura per l’Alzheimer attraverso la creazione di un virus benigno capace di riparare i danni provocati dal morbo. Quando la ricerca viene chiusa, Will decide di tenere con sé il figlio di una delle sue migliori cavie, lo scimpanzé Caesar. Ben presto, Caesar comincia a mutare a causa degli effetti del virus fino a divenire il capostipite di una nuova stirpe che dichiarerà guerra agli umani.

 

 

Il pianeta delle scimmievero e proprio cult non solo fantascientifico della seconda metà del secolo scorso girato da Franklin J. Schaffner nel 1968 e sceneggiato da Michael Wilson e Rod Serling a partire dal romanzo di Pierre Boulle, con il suo rovesciamento radicale della gerarchia uomo/animale e il bellissimo e inquietante finale pieno di apocalittiche premonizioni sulla stupidità del genere umano e le disastrose conseguenze che ne potrebbero derivare per troppa presunzione e sete di potere, è entrato a buon diritto nell’immaginario collettivo di intere generazioni di spettatori diventando un classico del genere per quel suo essere un thriller sociologico futuribile, ma allo stesso tempo anche una favola filosofica e politica che, ambientata in un domani ancora lontanissimo, parla però di un presente non tanto immaginario pieno di incertezze e di azzardi come quello in cui viviamo.

Il successo del film fu davvero planetario, ed era inevitabile che invogliasse gli studi hollywoodiani a sfruttare le ardite tematiche implicitamente suggerite fino a spolparne l’osso, inventandosi altri episodi intorno e creando di conseguenza una saga organizzata in ulteriori quattro capitoli fra sequel (L’altra faccia del pianeta delle scimmie, 1970) e prequel (nell’ordine, Fuga dal pianeta delle scimmie del 1971, vero e proprio anello di congiunzione fra presente e passato, 1999: Conquista della terra del 1972 e Anno 2670 ultimo atto del 1973) sempre più stanchi e ingarbugliati (nessuno dei quali davvero all’altezza dell’originale), finalizzati soprattutto a raccontare in quale modo si era potuti giungere a quel punto di “non ritorno” messo in scena con appassionato vigore anche visionario (magnifica la fotografia di Leon Shamroy) dalla pellicola di Schaffner.

Quando in America si è a corto di idee, si cerca poi sempre di ripercorrere sentieri conosciuti sperando di rinverdire gli allori correndo pochi rischi, e anche in questo caso ci si è provati a farlo (un po’ maldestramente per la verità) già nel 2001, Planet of the Apes – Il pianeta delle scimmie (diretto da Tim Burton), che si conferma un remake tutt’altro che memorabile e poco necessario, se non per un finale ugualmente inquietante e particolarmente indovinato, comunque insufficiente per riscattarlo interamente e dare un senso compiuto all’operazione di rivisitazione.

La crisi sempre più profonda degli studios, e il progredire delle possibilità offerte dall’evoluzione della tecnica computerizzata degli effetti speciali, ha poi determinato una nuova attenzione “commerciale” sul soggetto che ha generato nel 2011 questo L’alba del pianeta delle scimmie diretto da Rupert Wyatt, con il quale si è cercato di ritornare di nuovo sull’argomento in modo più personale e “realistico”, proprio mettendo in scena il prologo di quella tragedia con una sceneggiatura molto liberamente ispirata al libro di Pierre Boulle (o meglio a quello che tale romanzo poteva suggerire fra le pieghe), ma ben strutturata e credibile, scritta a quattro mani e con intelligenza narrativa da Rick Jaffa e Amanda Silver.

Pur rimanendo nel segmento minato dei blockbuster, il risultato possiamo definirlo un gradevolissimo ibrido fra divertimento e impegno che è riuscito a centrare pienamente entrambi gli obiettivi, fornendo per altro davvero nuova linfa a una impresa che io personalmente avevo immaginato (evidentemente sbagliando) persa in partenza.

Intendiamoci: niente di eclatante, ma l’intelligenza che il regista ha messo nel narrare per immagini questo “rifacimento inventivo” della Genesi della Storia, lo rende particolarmente interessante proprio perché, nonostante la contiguità tematica e di riferimento, Wyatt è riuscito a lasciarsi definitivamente alle spalle la sudditanza psicologica verso la serie originale, realizzando così un kolossal stimolante per più di un motivo (e soprattutto meno ovvio) che, proprio partendo dalle vestigia un poco arrugginite delle ultime precedenti puntate, ripropone spettacolarmente e narrativamente temi ormai in larga parte sfruttati e forse anche un poco usurati, ma rigenerandoli “a suo modo” e senza troppi timori reverenziali, non perdendo però mai di vista il “timone” che consente comunque di restare inequivocabilmente “dentro” la storia, anche se letta da un’altra prospettiva (anche temporale), un procedimento questo che finisce per rendere il film un prodotto certamente “commerciale”, ma di gran lunga più valido e interessante di quasi tutte le altre pellicole in circolazione e ormai tanto di moda a Hollywood, che hanno organizzato il proprio percorso narrativo come prequel, o reboot proprio per andare sul sicuro.

L’azione è infatti ambientata ai giorni nostri o giù di lì, e parla di uno scienziato, Will Rodman, che ha appena scoperto un farmaco che cura l’Alzheimer attraverso la rigenerazione delle cellule cerebrali. Ma quando uno degli scimpanzé da lui utilizzati come cavia riesce a fuggire, seminando il panico, il progetto va a monte e l’animale viene abbattuto. Il figlio dello scimpanzé, che ha ereditato un’innaturale attività cerebrale, viene adottato quasi come atto riparatorio da Will, ma l’intelligenza dell’animale aumenterà esponenzialmente con la crescita, fino a eguagliare (ed anche superare) quella umana, creando qualche grosso problema di contenimento.

Grande spazio è infatti lasciato proprio al mondo animale, il che potrebbe far pensare persino a un blando tentativo di provare a rinunciare – grazie alle nuove frontiere della teconologia – al ruolo una volta preponderante degli attori in carne e ossa, a favore delle sorprendenti “creazioni” digitalizzate delle scimmie (creature ibride, quasi “realizzate in serie” a opera di Andy Serkis e della Weta, che per la verità sono così perfettamente e realisticamente “(in)naturali” da far ampiamente rimpiangere – per lo meno a me – i più artigianali trucchi scimmieschi su attori in carne e ossa inventati da John Chambers per il film di Schaffner).

Il meccanismo del ribaltamento che punta alla collocazione dell’uomo in un contesto animalesco (e viceversa), vero elemento scioccante (e anche disturbante) di tutti i vari tasselli della serie, rimane evidentemente invariato anche in questo caso, ma rimodellato e vivificato da una ingegnosa riscrittura interna che prova (e ci riesce) a capovolgere ogni “certezza” precedentemente acquisita dagli spettatori (intendo riferirmi soprattutto a coloro che già sanno come nel prosieguo andranno a finire le cose), una condizione di sospensione incredula che crea una costante tensione che si propaga per tutto l’arco di un racconto che altrimenti potrebbe essere considerato persino risaputo, scontato e poco coinvolgente.

Come ci fa giustamente osservare Mauro Antonini su “Segnocinema” n. 172, nel vero e proprio gioco di ribaltamento interno del racconto fatto dagli sceneggiatori e dal regista, i ruoli dei due scimpanzé della saga originale (Cornelius e Zira) vengono questa volta volutamente assegnati a due “umani” (Will e Caroline) che sono però chiamati a svolgere le stesse funzioni narratologiche delle due scimmie (il riferimento è soprattutto al terzo titolo delle pellicole realizzate negli anni ’70) e nel fare esercitare loro persino gli stessi mestieri (scienziato e dottoressa). Nell’incipit per altro viene citato in maniera abbastanza esplicita proprio 1999: Conquista della terraanche se poi l’ombra sinistra della bomba si trasforma qui in una mutazione dei geni (lo sfruttamento di cavie animali per fare esperimenti in laboratorio alla ricerca di nuovi orizzonti per la medicina, un mondo di prigionieri vessati e “torturati” che, trovato in Cesare il loro capo, si ribellano in massa con il furore distruttivo dell’intelligenza acquisita, per sovvertire l’ordine delle cose e “capovolgere” le regole del gioco).

L’alba del pianeta delle scimmie si conferma quindi anche come un’opera che, grazie alla densità tematica e alla forza affabulatrice del racconto, è in grado di compattare e di fonderli insieme i tanti registri e i numerosi riferimenti evidenti, mai banali o superflui, usando come reagenti e catalizzatori, ingredienti tipici dei blockbuster come la suspense, l’azione e la spettacolarità ma con una capacità invero inconsueta, che è poi quella di utilizzarli nel pieno rispetto delle regole del settore, ma dominandoli e addomesticandoli in maniera creativa, senza però renderli una antitesi sostitutiva del cuore pulsante del progetto che forse fra le righe vuole essere anche politico.

E proprio grazie a questo insolito modo di organizzarsi e di sostenersi, il regista riesce a evitare gli errori dei suoi protagonisti umani, non perde il controllo della sua stessa creatura, non ne dimentica la specificità e la differenza ma, anzi, le coltiva (Federico Gironi, “Filmcritica” n. 508). Tematiche che spesso si muovono in sottotraccia comunque (è un po’ il destino delle opere realizzate per fare grandi incassi) e supportate da una espressività ridotta delle scimmie che, a parte gli occhi (severi, colmi di odio e di furore), non presenta poi molte altre differenze di “riconoscibilità” differenziata, ma che riesce a diventare una miscela esplosiva quando Cesare, il primate “emancipato”, evade dalla struttura che li imprigionava, portandosi dietro tutti i suoi compagni, e il gruppo, il branco diventa una inarrestabile marea che invade le strade di San Francisco, prima alla ricerca di altre scimmie da liberare, e poi di un luogo in cui esiliarsi momentaneamente per “crescere”, mutarsi definitivamente e passare finalmente al contrattacco. Una vera e propria tattica da guerriglia urbana insomma quella portata avanti con indignata consapevolezza e frustrazione dagli scimpanzé in cerca di riscatto e di “potere” dove, invece e per contro, i tentativi di repressione della rivolta incontrollata della specie da parte delle autorità cittadine, sembrano avvicinarsi con inquietanti analogie comportamentali a quelli messi in atto con analoga virulenza per contrastare e “domare” gli scontri di manifestazioni “libertarie” di ogni tipo in giro per il mondo, quasi che Wyatt intendesse lasciare spazio, fra le regole codificate dei blockbuster dedicati ai supereroi di turno, a qualcosa di più nobile e importante che tende a trasformare Cesare nella metafora evidente di uno Spartaco o un Che Guevara delle scimmie (ognuno con tutta la retorica che si porta dietro, ma con una novità importante e non secondaria: il “potere” che si trasforma da fatto politico in una questione di evoluzione mentale, oltre che di genetica modificata).

Ottima la tecnica complessiva del regista ed eccellenti gli avvolgenti piani sequenza che , soprattutto nelle parti più concitate, si alternano ad acrobatiche carrellate aeree che rendono dinamiche le scene: buona soprattutto la prova di James Franco che, nonostante le premesse fatte sopra (la probabile marginalizzazione degli attori prevista dal progetto), riesce a imporsi con la bravura del consumato interprete portando in primo piano la figura del personaggio a lui affidato, per altro ben coadiuvato nell’impresa da tutte le altre caratterizzazioni “umane” di contorno.

Come conclude proprio Gironi la sua recensione, a questo punto allora resta solo da sperare che l’apocalisse politica e sociale che la pellicola preannuncia inequivocabilmente, possa essere contraddetta in extremis da una nuova consapevolezza: quella che il personaggio interpretato dai James Franco riesce a intravedere, ma solo nelle ultime scene, e che non si tratti invece di uno zuccherino messo a bella posta per mandare a casa lo spettatore con meno nuvolosi presagi sul futuro.

 

 

(Valerio Vannini)

 

 

Un post di Stefano Falotico

 

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