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L’illusione di realtà, la solita politica e il fascino “buddista” di Richard Gere


24 Feb

Richard Gere

Uno dei ricatti maggiori che un giovane subisce da coloro che si reputano, senza ragion veduta, “adulti”, è il continuo rimprovero, estenuante, triste, manicheo, assillante, secondo il quale deve attenersi alla realtà e “crescere”. Il concetto di crescita è qualcosa che mi ha sempre ossessionato e al quale non riesco a darmi una risposta chiara ed esaustiva. Ho una visione “aliena” del mondo, e poco a questo mondo mi allineo. Credo che siamo creature evolute dotate d’intelligenza, di un cervello che ci ha permesso di vivere lontani dalla bestialità e, da scimmieschi Neanderthal, ambendo a definirci appunto umani, nel senso completo del termine, affettivo-cognitivo e sensibile, anzi, senziente agli stimoli esterni, ci siamo inventati un sistema di sopravvivenza che ci ha concesso l’illusione di realtà. La cosiddetta realtà non esiste, è un basamento, potrei dire, rapportato alla nostra età e a ciò che ci viene chiesto in base alla nostra anagrafe e a quel che si suppone debba essere il modello comportamentale attinente al nostro periodo vitale.

Non credo in Dio, sebbene da piccolo il lavaggio del cervello giudeo-cristiano a cui fui sottoposto, come quasi tutti della mia generazione, deve avermi indotto ad astenermi dal piacere, anche frivolo, per buona parte del mio “processo evolutivo”. In fin dei conti, ritengo qualsiasi tipo di religione, soprattutto quella cristiana, appunto, un limite sesquipedale alle nostre potenzialità emotive, un freno ricattatorio alle nostre innate, immense potenzialità. Perché, aderendo a questi falsi credo, ci si castra in tutta una serie di dinamiche, anche relazionali, improntate al senso di colpa, alle responsabilità più mendaci e ingannevoli, e il pensiero, libero e anche vivaddio autarchico, viene così castigato da precetti e “prescrizioni” assurde, figlie della paura, della superstizione, perfino dello scaramantico più medioevale oscurantismo ideologico.

Benché meno credo alla politica. I partiti sono soltanto la propaggine, fintamente incarnata a livello illusoriamente istituzionale, di quelle idee che un certo gruppo di persone ritengono essere quelle valide al fine che la società “progredisca” secondo i dettami che vogliono loro. Allorché s’istituiscono per “garantire”, almeno così sostengono loro, mentendo, quelle stabilità apparenti per le quali si prodigano.

In questa società odierna, confusa, esterofila, cultrice di un bello soltanto di facciata, superficiale e sbrigativa, impostata unicamente sul “valore” dei soldi, in cui le individualità vengono orrendamente soppresse solo perché si viene considerati come merce produttiva e non come uomini, appunto, le persone sostanzialmente votano chi possa garantire loro i privilegi e le comodità per le quali vivono, o meglio s’illudono che sia la vita.

Un povero vota i grillini perché è stato “rassicurato” che avrà un sussidio di disoccupazione, un insegnante vota PD perché, nonostante le tante bugie e le promesse mai mantenute del pinocchio Renzi, comunque si sente protetto in quella realtà con cui ha imparato a convivere e che, nel bene e nel male, gli sembra l’unica possibile e incontrovertibile. Perché almeno avrà il suo stipendio, perché almeno non perderà nulla e, pur sapendo che la sua esistenza sarà sempre alquanto mediocre, patetica e lamentosa, non ne vede un’altra realizzabile e probabilmente non vuole neppure vederla.

Poi ci sono i salviniani, persone di cultura retrograda, fascista e razzista, sessuofoba e quant’altro, spaventati perennemente da tutto ciò che ai loro occhi appare inconcepibile. E dunque temono il “diverso”, quello di un altro Paese, ché gli frega il lavoro o la fidanzata perché semmai è solo più bravo e più sexy, e allora si rifugiano nella retorica più bieca, ignorante e secessionista. Nel giustizialismo agghiacciante.

Ci sono gli artisti, persone che credevano nel potere della parola, nel potere della bellezza, nella comunione appunto fra i popoli attraverso la vera cultura, che non è il nozionismo becero di chi s’illude che la “perfetta” forma mentis possa nascere da licei e scuole istitutrici di un sapere puramente, stupidamente appreso, dunque “rappreso”, solo a livello teorico, mai davvero empaticamente comunicante con le istanze reali, ma astruso, astrattissimo, parto degenerato del classismo più abbellito da quel porco orpello del classicismo più dottamente, anzi indottamente, scolastico, sciocco e bambinesco, paraculo e irresponsabile, buono solo a quelli… di papà con la panza piena e il cocktailino in mano fra “grandi” discorsi oratori e chiacchiere da studentelli col ciuccio in bocca. Noiosi, prevedibili, in una parola insignificanti.

La realtà stessa è un’illusione. Oggi vieni considerato un nano perché nessuno ha investito sul tuo talento, sempre compresso, punito e ingiuriato, domani sei un gigante perché la tua “piccolissima” idea ha fatto felici molte persone.

Di mio, posso dire che non credo a quelli che dicono che fanno le “cose” per gli altri, perché vogliono dare.

Quando si dà qualcosa, ci si aspetta sempre un riconoscimento, un apprezzamento, ci s’illude allo stesso modo che, attraverso il valore datoci dagli altri, il nostro stesso valore umano possa uscirne gratificato, lo si fa per ottenere maggiori “garanzie” sulla propria autostima, per venirne appagati e semmai anche più “istituzionalmente” pagati.

Ma questa si chiama vanità, non grandezza, e nemmeno umiltà, neppure bontà.

Ma io parlo al vento…

 

Mah, prima mi piaceva Al Pacino, col passare degli anni sto prendendo maggiore confidenza con il mio fascino alla Richard Gere. Belloccio, moderato, di classe, sempre sulle sue, un uomo che ammicca, scherza con gusto, è autoironico anche quando potrebbe permettersi di fare lo stronzo, pacifico, contemplativo, calmo, pacato, in una parola falotico…

 

di Stefano Falotico

 

Franny

Gere The Dinner Hachiko Gere

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