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Joy, recensioni e le stellette dei quotidiani in questa splendida IMAGE


30 Jan

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The Hateful Eight – Mereghetti e il suo Corriere stroncano Tarantino, delusione!


29 Jan

Ma che passa per la testa a Il Corriere?

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Un western interminabile, lungo tre ore, in cui il regista americano concentra tutti i suoi vezzi: un catalogo delle sue ossessioni e manie, alla fine senza una vera ragione

di Paolo Mereghetti

No, The Hateful Eight non è un «grande» Tarantino, nonostante l’Ultra Panavision 70 (millimetri) e una durata che supera le tre ore. È un film molto «tarantiniano», dove ci sono tutti i suoi vezzi e le sue specificità, ma diversamente da altri suoi titoli quelle caratteristiche qui sono sprovviste di una qualche necessità e smascherano un vuoto (d’ispirazione?) che il gigantismo della produzione e dello schermo finisce per rendere letale.

Grazie a una simpatica e contagiosa invadenza, e a una conoscenza mirabolante del cinema di serie B, il regista ha saputo conquistare un posto di primo piano dentro un cinema che sembrava aver perso ogni bussola e che preferiva sottolineare i propri limiti invece che cercare di superarli. La citazione, il «plagio» sistematico non era più il debito che il cinema di oggi aveva con quello di ieri ma solo la confessione di una serie di guilty pleasure, l’elenco potenzialmente interminabile dei propri giochini preferiti. Con tre inevitabili conseguenze: a livello di «contenuto», la perdita di un qualche sguardo unificante (non si dice morale) capace di mettere in fila i diversi gradi di interpretazione e di senso; a livello di «forma», una centralità sempre maggiore data (o meglio: lasciata) ai dialoghi, gli unici capaci con qualche salto mortale di dare un ordine alle scene, che non rispondono più a una vera logica narrativa ma solo al proprio gusto della citazione o della sorpresa. E a livello di regia, il dover ogni volta accentuare la forza delle singole immagini per accecare lo spettatore e stordire la sua voglia di razionalità e di gusto.

Se questo modo di procedere era abbastanza evidente in Kill Bill e in Grindhousee meno in Bastardi senza gloria e Django Unchained, è perché la struttura di genere — il film di guerra e quello storico — aveva imposto a Tarantino dei «limiti» che in quest’ultimo western non ha voluto più rispettare. Troppo preoccupato (forse) di voler rimescolare le carte di un genere di cui ha sempre preferito gli epigoni «revisionisti», italiani in particolare, e troppo compiaciuto (sicuramente) della propria scrittura e del proprio gusto per le immagini iperrealiste, The Hateful Height è diventato un catalogo delle proprie manie e ossessioni, ma ha perso la forza che l’autentica messa in scena è capace di trasmettere alla macchina-cinema.

Una «perdita di senso» in cui non è estranea la scelta di girare (in pellicola) nel formato Ultra Panavision, quello che impone all’immagine una base di 2.76 volte più lunga dell’altezza. Il formato di Ben-Hur, di Gli ammutinati del Bounty e La battaglia dei giganti, film che hanno fatto delle riprese in esterno la loro carta vincente. In The Hateful Height invece Tarantino sfrutta molto poco l’immensità degli spazi del Wyoming per imprigionare i suoi protagonisti prima in una diligenza e poi in un emporio. La pellicola 70 mm (in Italia visibile solo in due locali, a Melzo e Bologna) restituisce una straordinaria profondità all’inquadratura ma quando serve solo per mostrare un occhio tumefatto, un paio di baffi molto folti o una chiostra di denti ultra bianchi, ti chiedi se non sei davanti a una montagna che ha partorito solo un topolino.

E così la storia di un cacciatore di taglie (Russell) che viaggia con la donna che deve consegnare alla giustizia (Jennifer Jason Leigh) e che durante una tempesta di neve accetta di dare un passaggio sulla propria diligenza a un altro bounty killer (Samuel L. Jackson) e a un sedicente sceriffo (Walton Goggins) ma poi è costretto a cercare riparo per la tormenta in un emporio dove lo attendono quattro persone — un ex generale sudista (Bruce Dern), un messicano (Demian Bichir), un boia (Tim Roth) e un misterioso cowboy (Michael Madsen) — diventa una versione verbosa e splatter dei Dieci piccoli indiani di Agatha Christie: chi non è quello che dichiara di essere e vuole solo impedire che la donna finisca sulla forca?

Per saperlo dovremo sorbirci tre ore di interminabili dialoghi, compiaciuti e francamente poco divertenti, dove l’unica cosa che interessa a Tarantino sembra la distruzione di ogni possibile mitologia, western o nordamericana fa poca differenza (ne fa le spese anche Abramo Lincoln). Ma senza un vero perché. E soprattutto senza un vero interesse.

Lo stagista inaspettato è un bel film, critica alla “critica” di FilmTv.it: giunto allo sfinimento della mia vita fine, in quanto oltre-uomo, sputtanai il puttanesimo ruffiano de Il diavolo veste Prada


16 Oct

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Una tizia, forse tozza, ha su codesto, non so se oramai desto, sito, stroncato Lo stagista inaspettato. C’era d’aspettarselo che la furbizia della Meyers fosse scambiata per sdolcinata “c(ornuc)opia” del film con la Streep, sempre con la Hathaway.

Non mi penerei, pensante assai, troppo su questa che vistosamente, dopo non avergli dato il visto, eppur visionandolo, l’ha così mal giudicato.

Fa oramai parte di una “critica” che incensa, a torto (fosse per me, meglio in faccia la torta a gente esaltata ch’è meglio vada a “sfogliar” i tortellini), un cinema “autoriale” alla Fukunaga, altro abbaglio colossale, e stronca, a ragion (non) veduta, i “filmini”, come se ora declassare il puro entertainment fosse lo spo(r)t nazionale per far carriera in redazione. Altro che Meryl Streep e De Niro che non è l’Hathaway. Questa batte non solo le redattrici più finto-eleganti ma anche le battone, e non è una battuta!

Secondo me, è solo brutta, e Lo stagista inaspettato non è brutto come Maurizio Porro, un porco che la butta sempre sulla stroncatura “carina”, altro che le carinerie intelligenti della Meyers, de “Il Corriere delle seghe”…, “sfinisce”, in definizione che mi paiono sitcom umoristiche.

C’è tempo per giudicare, c’è un tempo per la pensione e io non ho voglia che qualcuno rida di De Niro.

Datemi un fazzoletto e, dinanzi alla mia grandezza, voi, che vi spacc(i)ate per critici, conoscere il pianto della mut(u)a.

 

di Stefano Falotico, appunto, il Genius

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