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Indietro nel tempo, DOPO LA MORTE e oltre, prima della nostra (ri)nascita


07 Jul

dopolamortefalotico

Indietro nel tempo

Bagliori intermittenti ed emozioni fuggevoli di un me che parve svanito, e or riluccica estasiato, bramoso di baciar il mondo nel suo ventre e mordere gli ardori che volarono via, immolandomi alla bellezza e a un’alta felicità sovrana, scevra dal dolore e riscaturita laddove pensai che l’avessi persa. Oh, vita perduta, anche in me temuta, ribatti scalpitante e rivivi in ipnotico ballo della mia anima festante, leggiadramente ancor amante, lucida come il più pregiato diamante, dissanguata e spolpata, adesso a fonti battesimali di me restaurato rinnovata.

Per tutto questo tempo, oh sì, scomparve l’estasi, il brio della leggerezza del vivere tramutò in mugugnante apatia, in borbottii melanconici di torpori glaciali si bloccò il mio cuore rattristato, e vanamente inseguii la felicità, perdendo il senno nella brace di sogni arsi, che si stan ridestando nella lor potenza però ancor fugace. Rinascenza, ricoglimi splendente ove d’anima poco suadente perii disamorato in languore ardente. Abbagliami di nuovo, vita, e suda con me in passioni che brucino di verità e soffice manto prelibato d’un tempo adesso sorpassato, nei suoi strazi scuoiato e così spossato. Qui or righermito in abbacinante, gaudente abbraccio.

Non so se mi crederete, ma questa è la mia storia, una delle tante che colorano il mondo anche quando vieni posseduto dal più spettrale grigiore, e moristi illanguidito nella nera vacuità dello stesso tempo tuo rimuginato, combattuto, dalla tua anima osteggiato, vilipeso perché t’arenasti ai più vili spregi, e sfregiato viaggiasti avvolto da fantasie vivide ma sempre inumidite nel loro bagliore dalla pioggia del tuo umore ruvido.

Ricordo che ero giovane, quasi bambino, appena adolescente, o soltanto sfiorato da quei dubbi acerbissimi di quando la vita appena nasce in nuovi passi evolutivi. Che ne so… avrò avuto quattordici anni.

E di colpo, come tramortito da troppa bellezza, troppo preso dalla mia anima freneticamente vogliosa di vita, paradossalmente la vita stessa respinsi, e abbandonai tutto, cullando le mie noie e le mie gioie in entropico far sì che veleggiassero nel mare dei sogni, dell’immaginazione più linda e anche notturna. Nel tepore segreto del mio giardino mentale, della mia anima rapace.

Forse, fui un figlio della notte, un’anima inquieta che scivolò dove la Luna sposava il buio, immergendomi nella sua carezza seducente, come mano di donna leggera ad accudire il mio lungo sonno o sogni pulsanti di furore. Di vita apparentemente rinnegata eppur così in me allucinatamente, splendidamente sprofondata… in un finto, faceto o profetico letargo illuminante.

Come se quel chiudermi, o forse rifuggire una realtà che m’appariva opaca, attutisse un mal di vivere perenne, nell’estasiante contemplazione gioivo, sbiadendo vellutato in un boato luminescente di fiorite, perlacee emozioni.

E riverberarmi nella candidezza più melodica del cuore, lontano dal frastuono, dal cicaleccio ciarliero, dal sesso e dalla carnalità animalesca, m’illuminava sereno e quieto. Lontano e distante, eppur vivo e presente.

Una purezza, così la definiscono, incendiante, uno stato quasi amniotico di sofisticatezza, un pianto strozzato, un grido lucido inghiottito dalle notti, bramose del mio cuore, ardimentose nello sciogliersi apparentemente immote in tanto sobrio lindore.

Come una spaccatura, in questa fratturante trappola ch’è la vita che, nel suo farsi, dirompente ti spacca in tanti pezzi, che afferrai in un piacevole, sì, delirar vorace delle mie taciute ansie, soggiacendo di gaudio e di letizia scalpitante in quella tempesta emotiva ch’era l’inizio dell’adolescenza fugace. Remoto, in una zona crepuscolare, in cui il tempo s’era fermato, addolcito nelle mie tempie e, inabissandomi con tutta la forza delle mie straziate viscere, sprofondandovi come ibernato, specchiato nel buio vivace, in una dimensione raggelante eppur così bruciante, vissi dischiuso nella tenebra ermetica della cauta pacatezza, degli anni murati vivi dall’eternità senza spazio del mio girovagarvi felice, poi triste, rotto, abbagliato da sogni lucenti, da avventure lontane dalla carnascialesca realtà così ricattatoria, mendace e borghese. Figlio delle mie stelle, di astrusa scelta, incomprensibile agli occhi altrui, così sciacalli e malati dell’ingordigia del voler saper chi sei, avvoltolato nell’astro nascente dell’inquietudine mansueta, perché v’è spasmodica tenerezza friabile, fragilissima, nel recludersi in qualcosa d’incantato e mistico.

E così tutto iniziò e pian piano nel mio mondo mi rifugiai…

Insomma, di me si può dire tutto, mi si può apertamente disprezzarmi e deridermi ma è oggettivamente insindacabile che ci troviamo dirimpetto a un uomo che non è tanto normale.

 

di Stefano Falotico

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The Intern: la mia è una continua resilienza, eppur la vita si “allarga” e lo stomaco ingrassa, nonostante l’esistenza magra ci provi…


22 Sep

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Cos’è la resilienza? Sì, avete letto bene, parola assai desueta, usata in “gergo” psichiatrico per definire uno stato umorale di questo tipo, come riporta la nostra (ab)usata Wikipedia: in psicologia, la resilienza è la capacità di far fronte in maniera positiva a eventi traumatici, di riorganizzare positivamente la propria vita dinanzi alle difficoltà, di ricostruirsi restando sensibili alle opportunità positive che la vita offre, senza alienare la propria identità.

Sono persone resilienti quelle che, immerse in circostanze avverse, riescono, nonostante tutto e talvolta contro ogni previsione, a fronteggiare efficacemente le contrarietà, a dare nuovo slancio alla propria esistenza e perfino a raggiungere mete importanti.

Dunque, io sono un “residente” della mia tenacia resiliente, talvolta valgo “niente”, ieri valsi, domani varrò, nel futuro delle leggi a me stes(s)o varerò, il mio dentro continuamente varierò e, in questo tempo (varia)bile, avrò valore.

Dar valore a una persona. Molte persone, in questa società spersonalizzante, vengon appunto svalorizzate, perché superficialmente giudicate solo dall’apparenza, che sappiamo essere, lupi di mare, assai ingannevole, mentitrice dell’io nostro più profondo che, spesso, per “aritmia” del cuore, per ipocondrie, per timidezza o atimia, per un attimo, si apre, per altri attimi non si spande, e in quest’istantaneità cangiante il mare dell’anima fa del domani migliore spesso un giammai. Mannaggia.
Ma comunque mangio.

Cambi, non cambi, camminiamo, corriamo, dimagriamo, ci stressiamo, ambiziosi sogniamo, poi c’arrendiamo di fronte all’evidenza, ancora dunque all’esteriorità del sembiante giudicato non adatto alla circostanza momentanea, ci schieniamo, ma la vita va avanti, il girovita prende dei chili, non servono solo i farmaci antidepressivi, questo mio scritto ha ritmo, si scandisce lieve e poi avanza lemme, accelera di allegro e quindi incespica schietto-stronzetto di sgambetto.

Ecco cosa succede a non aver esperienza con le ragazze, care faccette buffe.

Notare come, “nel mentre” dello scambio di battute, De Niro adocchia furbesco Rene Russo, bramandola da “stagista” provetto. Eppur (in)semina…

Perché, ricordate: senza la scopata, il mondo non esisterebbe. Esiterebbe e basta.

Sappiatelo quando la vostra donna preferirà usare il contraccettivo.

Ora, che c’entra questa mia disamina con The Intern?

Infatti, non c’entra, ma in “fallo” basta che penetri.

Da cui il detto e il dato di fallo, no, di fatto, che da cos(ci)a nasce cosa e, poi, se funziona la casa prima della cassa…

Ah ah!

   di Stefano Falotico

 

 

 

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