Posts Tagged ‘Max Pezzali’

Siamo tutti Western Stars in questa luce del sole springsteeniana


30 Apr

springsteen

Sì, io son sempre stato un fanatico del Boss. Perché lui è il Boss.

So che voi di questa generazione poco cazzuta ma di cazzoni, ah sì, lo so, andate matti per l’Acqua su Marte di J-Ax.

Mah, più che da Tormento, voi non siete manco tormentati. Siete semplicemente da voi stessi trombati.

Basta, canzonetta simpatica, ma siamo stanchi di questa musichetta italiana fighetta, figlia della cultura alla De Filippi.

Di giovinastri che rivendicano con banali filippiche le loro giovinezze perdute. Almeno, Max Pezzali degli 883 aveva ed ha una bella voce.

L’Italia, ah, Paese di moine, di mona come dicono a Padova. Di catene di Sant’Antonio, di cantilene, di vite mediocrissime che ciclicamente, dopo qualche sparuto battito di Sole, ritornano appunto a tormentarsi da sole… ah ah.

Siete solo delle sòle! Diciamocela! Delle sogliole. Degl’imbroglioni. E volete pure mangiare la mozzarella di bufala.

Ah, m’imbufalisco! Ah ah.

L’unico che salvo è Ermal Meta. Degno di note e di nota, anzi dignitoso. Sì, va denotato che è bravo.

Dite invece a quella Mariangela Fantozzi di Elisa che sconcentrare non esiste in italiano. Si dice deconcentrare. Ma questa, con le sue fragilità da riccona viziatissima, perché non l’hanno ancora assunta come lavapiatti della lavanderia Lava, stira e ammira ma sinceramente poco tira, sta giù, a novanta, e spera sempre di tirarsi su?

Ma questa non può aiutarla neanche Daniele Silvestri con la sua epocale Salirò.

Peraltro, come detto, Elisa è solo acida, salata, non gliela può fare neanche Andrea Roncato/Loris Batacchi.

No, con questa non sale. E non è neppure dolce. È una stronza.

Sì, Anche Fragile? Anche racchia da competizione, appunto, no?

Comunque fra lei, Laura Pausini e Alessandra Amoroso è una bella gara di frustrate.

Questa Elisa, più che sconcentrare, con le sue canzoni lagnose mi ha ricordato il verbo, assai desueto, sconcertare. Andate pure a vedere i suoi concerti? Eh sì, siete proprio sconcertanti.

Di mio, sono un uomo ombroso. Rinasco e poi ricasco. L’altro giorno ero a Castel San Pietro Terme. A fotografare fontane e chiese. Mentre voi zampillate e siete potabili come l’acqua pura e non indigesta? No, come la gramigna più funesta. Forza, un salto giù dalla finestra, basta con le vostre riscaldate minestre.

Ah, occorre una bella abluzione. Tuffatevi nel Giordano e stantuffate Giordana. Giordana è donna che, dopo tanti esistenziali tormenti, dopo tanto buio cosmico e anche tragicomico, desidera un uomo profondo che in lei sprofondi e le infonda solarità al crepuscolo. Con cui screpolarsi di amore e vivere di calore maggiore d’una scottatura a mezzogiorno a 45 gradi all’ombra.

Sì, Bruce Springsteen rimane il più grande, bambagioni.

di Stefano Falotico

Orson Welles era come me, un genio della stronzaggine, stronzo puro, formato Moby Dick


13 May

R600x__fa8fd659bc05c470478445f421835b87f165cb39

Introduzione copia-incollata, se vi annoia, saltatela, salatagliela, e non mi rompete i coglioni.
Donna, svestiti, ho fretta, fattelo/a alla sveltina, e poi sudatela, la giornata si fa dura e il mio, a forza di aspettare, si sta facendo moscio.

Da Il Foglio

Orson Welles lasciava la sedia a rotelle accanto alla porta sul retro del Ma Maison, il suo posto preferito a Los Angeles, e faceva il suo ingresso maestoso, zoppicante, dalla cucina del ristorante. Un uomo gigantesco, con gli occhi fiammeggianti e un barboncino in braccio, Kiki, grande quanto una scatola di Kleenex. Si sedeva sempre allo stesso tavolo, su una sedia enorme, il suo trono all’ora di colazione. Secondo Gore Vidal, che spesso pranzava con lui, Welles si vestiva “con delle tende riadattate, a cui attaccava il bavero, le tasche e i bottoni per dare l’illusione di un abito normale”. Negli ultimi anni della sua vita era a dieta strettissima, mangiava solo insalate di granchio, ma invitava i commensali a ordinare di tutto. “Assaggia e dimmi com’è, mi chiedeva – ricorda il suo amico Henry Jaglom – Non immaginavo che al ritorno in albergo avrebbe svegliato lo chef nel cuore della notte per farsi portare quattro bistecche, sette contorni di patate arrosto e un sacco di altra roba”. Dal 1983 al 1985 (quando Orson Welles morì, di notte, abbracciato alla macchina da scrivere su cui stava scrivendo una sceneggiatura) questi pranzi, in cui Zsa Zsa Gabor, Richard Burton e tutta Hollywood andava, reverente e intimidita, a rendere omaggio al genio di Quarto Potere, all’uomo con il carattere peggiore del mondo, a vedere quanto era ingrassato, vennero registrati con il vanitoso consenso di Welles. Tre anni di insalate di granchio, capesante, grugniti, risate mefistofeliche, un barboncino che abbaia agli avventori, la voce di Welles che risponde: “No. Come vedi sto mangiando” a Richard Burton che vuole presentargli Elizabeth Taylor. Il registratore restava nascosto nella borsa di Henry Jaglom, regista, critico cinematografico e cultore assoluto di Orson Welles, venticinque anni più giovane di lui, e quei quaranta nastri sono poi rimasti chiusi in una scatola da scarpe per decenni. Ora Adelphi ha pubblicato “A pranzo con Orson”, a cura di Peter Biskind, tutte quelle conversazioni in fila, un pranzo dopo l’altro, e leggerle è quasi origliarle, tanto sono intime, pazze, torrenziali, sembra di sentire le mascelle di Orson Welles muoversi, le posate sbattere, e Welles raccontare l’aneddoto di quel critico teatrale famoso che non lasciava mai mance e a cui il cameriere, in cucina, pisciava dentro la tazza di tè. “Oddio! L’arrosto di maiale con questo caldo? Non posso mangiare maiale, sono a dieta. Però lo ordino lo stesso, solo per sentire il profumo”. A quasi settant’anni Welles non aveva più il tempo, né la necessità, di diventare adulto: girare, produrre e interpretare Quarto Potere a venticinque anni l’aveva immortalato come enfant prodige, pazzo geniale impossibile e scorretto, e così visse per tutto il resto della vita. Maldicente in un modo irresistibile, generosissimo anche nelle bugie, e nella costruzione della leggenda di sé. Se un uomo ce l’aveva con lui, se Jean Paul Sartre stroncava il suo film ad esempio, era di certo perché Simone de Beauvoir era pazza di lui, e Sartre era geloso. “Come Peter Sellers. Per quello non ho mai potuto dividere il set con come-si-chiama…la pin up che aveva sposato… Britt Ekkland, in Casino Royale. Pare che lei avesse detto: ‘Però quell’Orson. L’uomo più sexy che io abbia mai visto’”. L’uomo più sexy, così super intelligente da finire le scuole superiori in due anni e vincere una borsa di studio per Harvard, alto e biondo, colto e pazzo, felice di litigare, autodistruttivo, per niente attratto dalle buone maniere e dalla patina di fondotinta che le star di Hollywood si spalmano addosso per non dire mai la una cosa vera. E per non dire cose indicibili. “Se per me Bette Davis è inguardabile, non voglio nemmeno vederla recitare, Woody Allen mi ripugna fisicamente; detesto gli uomini fatti in quel modo”. Sapeva benissimo che c’era un registratore nella borsa, e che il suo amico si sarebbe scandalizzato e gli avrebbe chiesto spiegazioni. “Non sopporto nemmeno di parlarci. Ha la sindrome di Chaplin. Quella combinazione unica di arroganza e insicurezza che mi dà l’orticaria”. Orson Welles aveva delle fissazioni sull’aspetto fisico: “Se penso che una persona sia brutta, non mi sta nemmeno simpatica. Sai, io non credo nell’eguaglianza tra le razze e tra i popoli. Sono profondamente convinto che sia una menzogna bella e buona. Secondo me le differenze ci sono eccome. I sardi, ad esempio, hanno le dita corte e tozze. I bosniaci sono senza collo”. A questo punto qualunque conversatore di buon gusto era tenuto a rispondere: Orson, ma è ridicolo. E così Orson poteva andare avanti ore con esempi, e spiegare che Marlon Brando era intollerabile perché “senza collo. Sembra un salsiccione. Una scarpa fatta di carne”. Non voleva conoscere Elizabeth Taylor per lo stesso motivo, per via del collo (“le orecchie le toccano le spalle”), e perché riteneva avesse trasformato Richard Burton in una barzelletta, “l’appendice di sua moglie diva”. L’aspetto fisico lo ossessionava a tal punto che non avrebbe mai ingaggiato per un film Dustin Hoffman, Robert De Niro o Al Pacino: “Niente nani etnici. Non voglio gente scura con la faccia strana”.

 

Continua, etcetera, ecc, ecciù, orologi a cucù, se volete, perseverate sul giornale, di mio mi sfog(li)o, vado a (s)tirare a campare, poi berrò un Campari e me la (s)tirerò, son nato con la camicia.

Tu, uomo da quattro soldi, vai ad ascoltare gli 883, di mio son ottomano alla Totò, cioè non ascolto le canzonette né le mezze calzette, eppur la donna mi dà la calza, io non do a lei un cazzo, avendone cinque.

11224283_10203820739741797_9066893497228117896_n 11071579_10203820743541892_9125838905178662082_n

Genius-Pop

Just another WordPress site (il mio sito cinematograficamente geniale)