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C’era una volta a Torino…


30 Dec

 

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Ieri, era il 29 Dicembre e Rai 3, come di consueto in questo periodo, in concomitanza con la fine dell’anno e l’approssimarsi vicinissimo dell’Epifania, ha trasmesso C’era una volta in America.

Stefano Falotico, il qui presente-assente, Bickle e Joker Marino, uomo rispuntato dalle tenebre per fortunati accadimenti miracolosi della sua mente che, dopo essere andata a letto presto, invero tardissimo da After Hours scorsesiano per molti anni, dopo essersi persa nei vicoli meandrici di amnesie storiche, dopo tanti eventi rovinosi, impazzimenti vari, ha riacquistato la luce, una luce tenue come il crepuscolo adamantino del suo Nosferatu passeggero in questo mondo bislacco ch’è il nostro.

Così, ho deciso di far visita a un mio amico di Torino, per una giornata e mezza di allegre rimpatriate.

Sono passati tanti anni dalla prima volta che lo incontrai e più volte ci siam rivisti, anche se di rado, negli ultimi tempi.

Così, quando la malinconia si fa così forte nel mio animo che ho bisogno d’incendiare i miei ombrosi umori in serate piacevolmente amicali, non perdo mai il treno.

Che, semmai, sosta anche alla splendida stazione di Milano. E il mio animo, in quel frangente in cui le ruote del treno stridono sui suoi binari e sospendono il loro cammino nella metropoli lombarda per eccellenza, si placa, vien colto da spasmi romantici e ripenso a quando, nel 2006, amoreggiavo con una ragazza che forse non amavo neppure. Un periodo seppellito nelle mie memorie. Con lei non andai d’accordo tantissimo ma mi piaceva baciarla.

Poi, finito che ho di rimembrare quell’amore bizzarro, ecco che chiudo gli occhi ma non dormo. E odo, a palpebre abbassate, il casino dei passeggeri. Il treno è pieno di gente e, sapete, io mi sento sempre a disagio in mezzo alla folla ciarliera e rumorosa. Fra bambini che piangono, cullati dalle loro madri appunto amorevoli, trogloditi che urlano al cellulare e nuove persone che salgono nel baccano generale.

E, come per magia, eccomi a Torino. Scendo piano, m’incammino verso l’atrio e incontro il mio amico che mi aspetta. Prendiamo il taxi, alloggio nel mio albergo, sento una donna strillare, inizialmente pensavo che ridesse sguaiatamente. Apro la porta della mia camera e colgo un’ombra fuggevole che, disperatamente odorante di lacrime, chissà perché scende le scale, l’uomo della reception cerca di chiederle che succede ma lei esce dall’hotel e, dalla terrazza, la scorgo furtivamente inoltrarsi nella sera già buia.

Chi è questa donna? Chi era? Mistero.

Stordito, indosso il mio giubbotto, chiudo delicatamente la porta, consegno le chiavi. E il mio amico è lì che mi aspetta. Mi porta in un locale molto accogliente, molto d’elite, raffinatissimo. Doveva essere solo un aperitivo ma alla fine ci vien servita una lauta cena. E il mio stomaco è ben sazio.

Girovaghiamo per questa periferia torinese, fra parchi illuminati fiocamente e gente che come noi passeggia o beve nei bar, dunque sostiamo a un pub.

Vien la notte, dormo. Mi sveglio prestissimo, è alba ma a Torino sembra ancora notte. Notte, notte, notte. Esco a prendermi un caffè. Pochissimi passanti e l’odore genuino di un inverno freddo ma al contempo mite.

Aspetto mezzogiorno, incontro nuovamente il mio amico. Pranziamo a un ottimo ristorante, ricordiamo assieme i film che Dario Argento ha girato a Torino. Profondo rossoNon ho sonnoLa terza madre.

Il mio amico li ricorda assai meglio di me. Inferno? No, è stato girato a Roma.

Suspiria all’estero. Altri giri, altre bellissime chiacchierate, un altro taxi. Il viaggio finisce.

Intanto mi arriva la recensione di un egregio direttore di una rivista letteraria importante.

Ve la faccio leggere in anteprima. Sono commosso, davvero, non so se merito queste parole.

Ho fatto tantissimi sbagli, tanto ho sbadigliato, tanto ho peccato, tanto sbaglierò ancora. Ma mi sento della vita ancora innamorato.

 

UN SAGGIO CRITICO SU STEFANO FALOTICO

 

L’inserto tutto-cultura PROMETEIA sarà un allegato costante del Faro Italiano, che nel 2019 sarà sottoposto a un’importante evoluzione. Nelle prossime edizioni di PROMETEIA appariranno i saggi critici sui libri di Stefano Falotico con riferimenti a tutte le pubblicazioni precedenti. In questo saggio, invece, mi soffermerò sull’Autore. La crisi che vive la lettura italiana (ma anche mondiale) è dovuta essenzialmente all’inconciliabilità fra lo scrittore e il lettore. Il lettore del XXI Secolo non è più quello del XX e, meno ancora, quello del XIX. La tradizione scolastica, che ha le sue radici in una specie di ripetitivo classicismo, si scontra, volenti o nolenti, con una trasformazione, che, posta in essere nel XX Secolo, ha trovato nel XXI il suo compimento. Ovviamente, molti scrittori, pervasi da un agone egotistico, non si rendono conto della nuova capacità di lettura e insistono in un canovaccio inestirpabile forse a causa di una cultura eccessivamente libresca. I grandi scrittori hanno trovato invece elementi “istruttivi” e “insegnanti” nella vita di tutti i giorni, nel quotidiano vivere, nell’analisi della società e delle sue evoluzioni culturali, economiche e di costume. Restare “classici” in questo contesto non avrebbe avuto come sfogo il lettore, ma una ristretta cerchia di amici “complimentosi” per “adeguarsi all’occasione”. Stefano Falotico si è posto il problema di come restare classici, senza “urtare” la suscettibilità del lettore. Ha dato vita così a una prosa complessa, attiva, interattiva, non dormiente, non assuefatta, non cantilenante, non ripetitiva, ma sempre fornitrice di soluzioni letterarie che, scatenando l’intimo sentimento, come forse era accaduto soltanto a Victor Hugo e Lev Tolstoj, ha “tradotto” in realtà pensante anche i lettori più indifferenti e sopiti. Lo ha fatto non solo attraverso la curiosità “linguistica” avveniristica, ma soprattutto a mezzo di una sequenza di contenuti che si susseguono in una “asfissiante devozione” al mondo. Se, in qualità di critico letterario (ma sono soprattutto autore di non indifferente livello), mi soffermo sul fenomeno Stefano Falotico, è perché il nostro soggetto letterario offre al divenire culturale soluzioni che dapprima non abbiamo rinvenuto neppure nei maggiori scrittori contemporanei. Stefano Falotico si è certamente posto il problema: Come “raggiungere” il cuore del lettore? Come “svegliare” la sua mente? Come evitare di essere scontatamente evolutivi? Come essere evolutivi e “classici”? I suoi libri narrano di “dame” e “cavalieri”, ma in questo costante divenire-trasformativo-interattivo non troveremo Torquato Tasso, Ludovico Ariosto e, ancor meno, Dante, Virgilio e Milton. Non troveremo il narratore romanzato. Non troveremo “scontati-inutili” castelli. Troveremo invece l’uomo pluridimensionale, l’amore per l’enigma-vita (Il Cavaliere di Londra – in una mia prossima recensione), lo snodarsi lungo le difficoltà della vita (Il Cavaliere di San Pietroburgo). Le avvisaglie della nuova filosofia linguistica si hanno già nel Cadavere di Dracula (che si pone come confine fra il vecchio dire e il nuovo dire). “La libertà e anche il libero arbitrio passano attraverso perigliosi cammini e ardui ostacoli. Anche la libidine e la lussuria per l’Autore passano attraverso la catarsi “profetica” di un’intima soffusa sofferenza (La mia lussuria si scaglierà terribile di veemenza arsa a vostra finta sapienza. – Il Cadavere di Dracula – Stefano Falotico), attraverso la paradossale lente di un epidiascopio, che, con le sue immagini alterate e “assurdamente iperboliche” ci offre una visione “esagerata e folle” della vita, perché, in fondo, la vita umana non è che “un mezzo” per perfezionarsi per pervenire a vite “diverse”, a mete da conquistare nell’evoluzione biologica, sociale e filosofica, che si dipana nell’incessante comporsi e scomporsi degli “elementi” – così nella mia recensione (già ampiamente pubblicata e inerente libro di riferimento). Stefano Falotico si è quindi posto il problema di come innovare, trasformare, essere “contenutistico”, concreto ed “emblematico”, non travolgendo totalmente i canoni classici della scrittura, ma adeguandoli e rielaborandoli con l’immissione di una straordinaria linfa vitale. Come riesce a ottenere questo? “Caratterizzando” i personaggi, facendoli “lievitare”, crescere, come un padre e una madre pazienti che intendono impartire la migliore educazione alla prole. La prole, nella fattispecie, si chiama libro, scrittura, passione per la crescita letteraria. Non allievo mai, Stefano Falotico è in realtà un appassionato “Maestro”. Ha l’ascia di chi colpisce e il cuore del bambino che rimane tale per tutta la vita. A lui piace “bere” nei suoi stessi libri, non per quel sentimento “draculiano” che, oberato dal peso del nome, si trasferisce nella realtà, ma perché fra incantesimi, “diavoli”, “estemporanee divinità” e uomini-dei, si dipana in lui la “tragedia” dell’umanità nel divenire e nell’essere sempre uguale o simile a se stessa. In questo modo Egli infligge una lezione morale e sottilmente satirica, se non palesemente ironica, agli “umani”. Costoro amano, odiano, non amano, non odiano, finiscono nella spirale dell’indifferenza, si “mediocrizzano”, risorgono dalle ceneri del proprio pensiero, si interrogano, si esaminano, sono contemporaneamente “allievi” e “maestri”: allievi teneri e “maestri d’ascia”. I personaggi di Stefano Falotico sono composti Cavalieri, ma anche uomini bizzarri, fedeli a se stessi e senza una reale fede universale (nel senso classico della parola). Sono esseri ribelli, che fuggono dalla realtà quotidiana, dalla “ripetitività”, dalla tristezza “comune”, dal lirismo della piaggeria e del finto altruismo, dalla pace senza costruzione, dal “senso del dovere”, ovvero da quell’inferno intimo che costringe l’uomo a fare sempre le stesse cose, non chiedendosi nemmeno perché e non domandandosi il perché del “mancato cambiamento”. Nei personaggi di Stefano Falotico la vita chiama a soccorso se stessa, esce dall’infantilismo letterario-creativo per “erompere” come petali in fiore. La sua prosa è fiore e taglione, magistrale rievocazione classica e distruzione del passato “inutile”, in una specie di “anti-religiosità”, che si perpetua in un moto uniformemente accelerato e in un bizzarro divenire. Se i suoi personaggi dovessero delinquere, lo farebbero conservando la loro compostezza, la coscienza di stare a fare sempre bene come nel “Kick-Boxing”. Essi sono incassatori e “canne al vento”. Sono deboli e forti. Sono cani che mordono e arpie feroci. Sono “angeli custodi” della tradizione e innovatori “implacabili”. Leggono in se stessi e fuggono da se stessi. Si ribellano a se stessi quando scoprono di essere “quotidiani”, “sensibili” alle solite cose e vicini allo scorrere delle ore, lo scorrere monotono come le parole che si susseguono con un nesso logico che non si identifica mai con l’evoluzione. Spesso gli scritti dell’Autore “cercano” la “soluzione” e non sembri strano che tale soluzione si identifichi con la tragedia. Sono Romeo da Villanova e dittatori solenni. Sono schiavi e “contumaci ribelli”. Sono condannati alla vita e condannati a morte. Tornano vincitori e si comportano da vittime “solenni”. Sono il futuro, il presente e il passato, con tutte le patologie che proprio il passato può trasmettere e che, pur tuttavia, trovano un organismo ribelle e una “pelle” così mutevole da essere “portatrice” di novità e trasformazioni perenni, tali da “vanificare” il passato medesimo. I personaggi di Stefano Falotico corrono, vanno, cercano, si dimensionano diversamente, in base ai casi e alle circostanze, ma mai in qualità di vittime reali, bensì di protagonisti, anche impavidi e caparbi. Essi sono la volontà che incide nella loro vita. Quando i casi della vita vogliono che essi tornino al loro quotidiano essere, scoprono in se stessi una sorta di ambiguità, di plurivalenza, di crudeltà, di crudezza e nel loro cuore rinvengono un “cruciforme” destino. Essi non si deprimono mai: lottano, escono allo scoperto, vincono e perdono, ma non sono mai realmente sconfitti. In loro si legge: desiderio, brama, moto variamente accelerato, ricerca della vastità del creato, in una specie di sublimazione che consente loro di uscire dal greto del fiume della vita per cercare un’onnipotenza personale, in un “irreligioso” silenzio. Essi troveranno siepi e alberi, aspre montagne e fiumi agitati, alte maree e ripidi camminamenti, tunnel e altipiani lussureggianti. Essi troveranno estati, primavere, autunni e inverni. Ma non si arrenderanno al destino o al fato. In loro la lotta è un “classico essere” e un “azzardato divenire”. Incontro, scontro, conversazione, avversità, devozione, “dialogismo”, biasimo, amore, “disamore”, dolore, costanza, “endemica malattia”, catastrofe, polimorfismo e fallimento si aggrovigliano in un “enclitico” divenire, che fa sì che un’azione priva di tono ne assuma uno, avvalendosi di un “precedente soggetto”. Tutto l’insieme diviene in Stefano Falotico “filosofia vitale” e “naturale disfacimento” in vista di successive “grandezze”. Grandezze che egli non identifica, ma che lascia intuire o supporre, perché è cosciente che sia un cattivo scrittore colui che fornisca soluzioni o che faccia di ogni argomento una “tematica” per riduttive conversazioni.

 

Eliano Bellanova Direttore della Rivista Il Faro Italiano. Presidente dell’Araba Fenice Edizioni Magna Grecia

 

 

Dopo tutto ciò, potrei anche suicidarmi. Come Mishima.

Ho perso tanti amici, alcuni sono morti addirittura e non ho avuto il tempo di chiedere loro scusa.

La mia Deborah, il grande amore della mia vita, si chiama, lo sapete, Tiziana. E si è sposata. Ha anche dei figli.

Sono stato dappertutto nella mia vita. Con la fantasia e anche realmente.

Ma il viaggio non finisce qui.

No, non è ancora giunta la mia ora.

Ancora soffrirò, riderò, piangerò, mi emozionerò.

E dunque buon anno a tutti. A chi è ancora di questo mondo e a chi, dall’alto, non c’è più ma forse è orgoglioso di me.

 

 

di Stefano Falotico

Siamo… Messi male se invidiamo il prossimo


22 Jun

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Eh sì, l’invidia è il sentimento più brutto dell’animo umano. Un sentimento, ahinoi, inestirpabile. Facile però a trovarsi, di questa “patologia” n’è affetta la maggioranza.

Appena uno è geniale, la gente non vede l’ora che possa cascare, per “normalizzarlo” nella sua mediocrità. Come dire… visto? Anche lui non è infallibile, ha dei punti deboli.

Per Superman era la kryptonite per Messi è l’Argentina che comunque, senza i suoi goal, non si sarebbe qualificata ai Mondiali. Per me è la vita di tutti i giorni, che io detesto, aborro, ripugno dal più profondo del cuore. Perché la quotidianità è a mio avviso ripetitiva, tediosa, puttanesca e dunque odiosa. Nel mondo di tutti i giorni, per essere apprezzato, devi continuamente venderti, offrire un’immagine di te da “intoccabile”, essere sempre sorridente e coi denti smaltati e non dare mai segnali di cedimento, ché possono allertare il prossimo, limitato e dunque pieno di pregiudizi, perché il mondo è malato di moralismo, desidera le macchine perfette e di lingua svelta spettegola appena ti mostri vulnerabile. Le persone non vedono l’ora di metterti in croce e poi, attorno al tuo cadavere impalato, sollazzevolmente deriderti e ballarti in circolo, in segno d’umiliazione. Ah, che bellezza, eh?

Questo è l’animo umano, ingordo a sua volta delle anime altrui, che adora vivisezionare per il ludibrio abominevole degli sfottò, delle burle malsanamente goliardiche, per l’orrore di massa che decreta i “vincenti” e, in questo carrozzone immutabilmente spaventoso, gode nel buttar giù dalla torre i “perdenti”. Cosa ci sia di divertente in questa competizione animalesca lo dovremmo chiedere a qualche antropologo. Ma non lo sa neanche lui perché sta con una scimmia miliardaria.
In Oriente non va così, in Occidente sì. In Occidente, vita significa sopraffazione, egoismo, arricchirsi sulle spalle di chi non regge certi ritmi, significa ammazzare psicologicamente chi non sta al passo con questa terrificante modernità.

Sì, Messi ieri è stato un perdente. Mentre lo strafottente Ronaldo, che vale dieci volte meno di lui, baciato da un momento inaudito di fortuna sfacciata, portosi (participio passato di porgersi) davanti alla videocamera, ha ammiccato con una smorfia inequivocabile, facendogli il gesto del pizzetto da “capra”. Come a voler sacramentare che lui è più forte di Lionel e lo sta dimostrando. Cristiano è un’altra merda sciolta quanto i suoi capelli ingellati. Un comportamento indegno del fuoriclasse, che comunque è indiscutibilmente, che però si abbassa a gesti di tale eclatante, riprovevole volgarità. Che triste inveire con le “emoticon” delle faccine, roba che neanche all’asilo infantile. Infatti, Ronaldo è tanto “grande” come campione quanto piccolo come uomo.

Ah, come si dice, scusate? Emoji. In questa vita, come nella pubblicità che passa per radio, ho sentito uomini guardare una donna sexy e gridarle che è da URL. Sì, dei matti da USL.

Ecco, sulla mia persona ne ho sentite tante. Tante derivate dalla miserabile cattiveria degli invidiosi. Perfino qualcuno avanzò l’ipotesi che sono il “mostro” di Eraserhead.

Sì, l’unica creatura… con più libri all’attivo di qualsiasi altro scrittore italiano, che scrive articoli di Cinema che neanche le persone laureate al DAMS, con specializzazione in filosofia applicata all’Arte convergente delle materie umanistiche rifrangenti e forse stronzeggianti di bacate menti, scriverebbero mai perché sono troppo occupate a corteggiare la fighetta in bikini su Instagram, “salvandola” in video “poliedricamente” noiosissimi a fini “finissimi”, detti anche seghe, che affinano il membro nello scorrimento calloso. Sono arrivati, quindi possono andare a puttane, anche a livello masturbatorio.

Sì, metto in vendita questo Blu-ray mai scartato perché è uscita già l’edizione migliore. Che non ho comprato perché aspetto la prossima. Ah ah. Io aspetto in continuazione.

Chi lo vuole, abbia la cortesia di non farmi la fine di quello stronzo di Max. Sì, Once Upon a Time in America è la storia di due uomini innamorati della stessa donna. Noodles, il romantico da Cantico dei Cantici, non riesce ad averla e la stupra da poveretto, Deborah disdegna anche Max ma alla fine lo sposa e gli dà un figlio perché lui le dà un impero e una rispettabilità del cazzo. Che vita da zoccola… anzi, da zoccolona, perché fa rima baciata. Ah ah.

Insomma, tutto un casino pazzesco per una che, invecchiando, è molto più brutta di quando era una ragazzina. Eh sì, Jennifer Connelly da giovane aveva un seno da mongolfiera, Elizabeth McGovern invece a me è parsa sempre un cesso. Scusate, forse non ho gusto. Ma la vedo così.

E, nonostante tutto, ho il mio fascino. Eh sì. Il fascino di colui che volteggia.

Sì, sono molto cambiato, crescendo. Prima avevo letto un solo libro di Stephen King, adesso ne ho letto qualcuno in più. Ah ah.

 

– Lei vuole salire in alto?

– No, solo al quarto piano. Buona giornata.

– Io invece oggi ho ricevuto la promozione e sono al settimo cielo.

– Ah sì? E l’ottavo qual è?

– L’ottavo?

– Sì, dopo il settimo c’è l’ottavo.

– Ma che dice?

– Scusi, se non sbaglio lei è laureata in Matematica. E non sa che dopo il settimo c’è l’ottavo. C’è anche la Nona, ma quella è di Beethoven. Ah, so io come ha fatto a ricevere la promozione…

– Cosa vuole dire? Che ho leccato il culo a qualcuno?

– No, macché. Mica il culo. Basta leccare qualcos’altro…

 

 

 

 

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Credo solo nell’amicizia come Noodles


12 Jun

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Arrivato nel bel mezzo del cammino della mia vita appena iniziata, ah ah, ho scoperto ancora una volta che l’unico sentimento vero è l’amicizia, l’unica cosa per cui valga la pena di vivere.

Lo dico con enorme rammarico, dispiacere e sentito cordoglio della mia anima abbattuta. Sì, stasera va così, e non posso fingere che non sia così.

Sempre delusioni. Io che mi apro anima e core, come si suol dire, e puntualmente arriva la pugnalata alle spalle, anzi, alle palle. Come dico io. Appena uno si rasserena e gioisce della letizia, che ne so, di un’infatuazione che, per quanto futile, ti aveva illuso in una momentanea serenità, ti stava irradiando le vene di nuove energie, ecco che arriva la batosta spietata e pungente, che ti graffia dentro e ti lascia come una merda.

Ve n’avevo già accennato, no? Come no? A me sembrava di sì. Io accenno sempre a me.

Era da tempo che un’attrice di Roma, una che ha girato una scena in Go Go Tales, mi corteggiava. In maniera decisamente anomala. Non pensate che sia Asia Argento perché non lo è. Era una comparsa, secondo me una comparsa ottima, insomma, molto bella.

Non so cosa l’abbia attratta del sottoscritto, e non so come abbia fatto a scoprirmi. Fatto sta che io le scrivevo in chat e lei non mi cagava, ma continuava a condividere i miei link.

Sì, un atteggiamento sospetto. Tanto da indurmi a pensare. Anche a penare. Ma questa che cazzo vuole? Il mio? Mah, non capisco. Che cosa sono tutti questi sotterfugi, queste mezze mosse, questi “like” patologici?

Vi vedevo della sottile morbosità nel suo comportamento. Tanto che alla fine le chiesi, sempre privatamente:

– Vedo che visualizzi i miei messaggi ma non rispondi. Dopo trenta secondi condividi la mia “roba”. A te pare normale tutto ciò?

– Sì, lo è. E dovresti capire…

– No, io non amo le mezze frasi. Insomma, c’è un interesse reale e sincero da parte tua o è una plateale presa per il culo?

– Macché. Tu sei paranoico. Ci mancherebbe altro che prendessi per il culo te. Tutt’altro. Condividiti…

 

Sul condividiti ebbi un attimo di spaesamento.

Al che, il giorno dopo questa qua condivide la mia recensione di Fuga da New York, con tanto di didascalia Sei un capolavoro!

– Il capolavoro era riferito al film, alla recensione o alla mia persona?

– Perché farsi di questi problemi? Capolavoro è capolavoro. Non può essere altro.

 

Altro attimo di frastornamento.

Dunque, in serata mi manda una foto poco equivocabile. Lei, sdraiata sul divano, mezza ignuda, con una banana a coprirle la zona “franca”.

E la scritta: va sbucciata.

A quel punto, mi costrinse a espormi. Sai, non vorrei tu mi avessi scambiato per un nullista come Jena Plissken. Sono più Mente, come Harry Dean Stanton. Abbastanza riservato, ma conosco questa giungla come le mie tasche. E sto nella mia biblioteca, lontano dai farabutti e dal casino del diavolo.

– Io pensavo fossi Il Duca.

– No, non sono nero.

– No, Il Duca Bianco.

– David Bowie?

– Sì, penso tu sia morto da un po’. Eppur la tua voce, quando la ascolto nei tuoi video, mi rende viva. E vorrei “vivacizzarti”. Renderti musicale… io ti darò il ritmo giusto…

 

Altro attimo di “trance”.

Quindi, finalmente mi scrive in chat:

– Sai, ripensandoci, Lenny Kravitz mi piace di più. Addio.

 

Tralasciano il fatto che Kravitz ha altre gatte da pelare, sì, credo che la vita vera sia quella dei bambini. Ed è per questo che in C’era una volta in America la combriccola è allegra finché non arrivano le donne.

Sono loro che rompono il cazzo.

Sì, la penso così.

 

 

di Stefano Falotico

Non perdonerò mai Mereghetti per C’era una volta in America… e altre discussioni di Cinema


25 Apr

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Ora, per i pochi che ancora non lo sapessero, il signor Paolo Mereghetti, facendo imbufalire chiunque e soprattutto Ferzan Ozpetek, ha scritto questo su C’era una volta in America.

Leone, che da tredici anni pensava a questo film, l’ultimo che poté dirigere, intendeva celebrare da europeo l’immaginario del cinema classico americano, approdando a un finale cupio dissolvi carico di malinconia per i sogni perduti. Ma lo sforzo di sei sceneggiatori non ha prodotto un solo personaggio coerente, e la durata spropositata non basta a evitare buchi nel racconto. Come sempre, a Leone riesce bene la trasfigurazione lirica del triviale: rende epica una mano che mescola lo zucchero in una tazzina, e struggente il ricordo di uno stupro tanto gratuito quanto repellente. Ma lo stile non basta: c’è troppo autocompiacimento oltre a un’aridità di sentimento che lascia perplessi in un film che vorrebbe essere anche una grande elegia romantica…

Inizialmente, aveva assegnato due misere stellette al film, poi per far contenti quelli che si erano arrabbiati ecco che li ha appunto “accontentati”, aggiungendo una mezza stelletta. Ma su questo film di Leone, come in generale su tutto Leone, non essendogli mai garbato molto, Mereghetti è intransigente, come si suol dire. E “raccatterete” un video sul Tubo nel quale, in compagnia del trombone compianto Umberto Eco, autore di un solo capolavoro, Il nome della rosa, e invece ammorbatore latinista di semiologie discutibili, alla domanda perché proprio non gli vada giù Once Upon a Time in America, Mereghetti, senza battere ciglio, con gamba accavallata da lord inglese, continua indefesso a “lordare” il film, definendolo irritante, raccapricciante, disgustoso e volgarissimo. A prescindere dal fatto che tratti malissimo le donne. Poi, stizzito, annoiato, chiosa con un… no, non è un grande film… e bellamente se ne frega altamente.

Sarebbe da prendere a sberle ma oramai lo conosciamo. Ha devastato The Hateful Eight del Tarantino, essendo leoniano e, a parte per i primi tre suoi film, che considera geniali e sinceri, non lo digerisce moltissimo. E gli affibbia, ben che gli vada, due stellette e mezzo “di stima” per non far infuriare nessuno.

Il Mad Max con Tom Hardy lo considera un giochetto da Playstation, e via dicendo. E stupisce che metta sullo stesso piano uno come Virzì, apprezzabile certo, ma suvvia non esageriamo, assegnando “capolavoro assoluto” a Ovosodo, in una disamina campata per aria che grida vendetta, e invece ritenga “invalidi” e imbecilli quasi tutti i film di von Trier. Quasi tutti, perché talvolta si ricrede e dà pure dei lodabili voti.

Ma spazientisce la sua mania burocratica di classificare chicchessia con una prosopopea agghiacciante che lascia esterrefatti. Nell’ultima edizione però, forse dopo aver attentamente visto il film di Noah Baumbach sul grande Brian, ha compreso che De Palma è un genio e non un patetico imitatore di Hitchcock, come lui sempre l’aveva ritenuto, allora ingigantisce le stellette e sostiene che Vestito per uccidereBlowUp e Scarface siano opere magnifiche, titaniche.

Ora, avrete capito bene che Mereghetti è uno della vecchia scuola, molto classico e a tutto ciò che gli “puzza” di post-moderno oppone una certa resistenza difficile da curare. Mereghetti non rinsavirà mai, su certi registi è ottuso come una capra, e non vuol sentir ragioni, sbuffando con aplomb da stronzo insostenibile.

Al che, oggi pomeriggio ho avuto una discussione piacevolissima con un amico su Facebook, anche lui fanatico sfegatato di De Niro.

Ora, abbiamo concordato che De Niro abbia sbagliato tantissimi film, fra i tantissimi che invece ha immensamente azzeccato. Fra i bruttissimi abbiamo messo Non siamo angeliremake scialbo di una pellicola con Bogart a cui poco è valsa la regia di Neil Jordan, praticamente invisibile, e neppure il banale script di un David Mamet al minimo storico. Ritengo che sia la più brutta interpretazione di De Niro in assoluto, molto peggio delle sue prove “alimentari” degli ultimi quindici anni. È un’insopportabile smorfia continua tanto che ti viene il dubbio che in quell’anno De Niro forse soffrisse di ebefrenia. Non è simpatico, non fa ridere neanche le vecchiette, e drammaticamente è osceno. Una performance vergognosa!

Poi, tralasciando alcune pellicole dell’inizio che giustamente sono introvabili, come SwopI maledetti figli dei fiori e La gang che non sapeva sparare (complimenti comunque per la traduzione, assurda e quindi meritevole di menzione), e forse basta, perché invece Il clan dei Barker di Roger Corman, i primi De Palma, appunto, e Batte il tamburo lentamente sono pellicole molto più che decorose, abbiamo annoverato i De Niro sottovalutati. Primo fra tutti il bellissimo Jacknife. Poi i nostri film “simpatia”, film obiettivamente bruttarelli, per usare un eufemismo, ma che personalmente hanno il nostro perché. Primo fra tutti Capodanno a New York, cinepanettone mielosissimo e zuccherosissimo con Bon Jovi che, anziché scoparsi Sofia Vergara, sceglie Katherine Heigl, ipocrisia raggelante per la quale non basterebbe che Bongiovanni ci cantasse a palla Livin’ on a Prayer per farci credere che fra una gnoccona alla Esperanza Gomez e una figa di legno alla Heigl, scelga appunto la Heigl. Ma per piacere, Bon! Dai dai. La Heigl è “buona”, non voglio dire il contrario, ma Bon, lo sai, sei uno che vuole una più bona. Sì sì. Me lo dice la tua faccia da culo.

A me piace anche il lynchiano Motel, detto anche Bag Man, soprattutto perché c’è un’attrice che attrice non è che mai più si è vista se non nella tv via cavo del Texas o a giocar di “sombrero” con qualche cowboy messicano nelle pampas delle sue cosce solari… tale Rebecca Da Costa, una che pur di farle un massaggino… saresti disposto a spaccarti una costola.

In questo film c’è un John Cusack bollito che vale il prezzo della stronzata.

Ora, torniamo a Mereghetti. Non ha capito un cazzo del capolavoro del Leone. Cosa pretendeva da un film su gangster bavosi e stronzi? È logico che siano volgari, sporchi e cattivi, è un inno malinconico su maschi rimasti sempre bambini, ed è per questo che la filosofia che lo sottende è misogina. E poi… anche Quei bravi ragazzi e Il padrino hanno scene repellenti e “volgari” ma, così com’è giusto che sia, li considera capolavori.

Ma Leone che gli ha fatto? Eh sì, cari lupi, ieri Paolo ha tifato per il Liverpool, da vero dandy del cazzo.

Paolo odia le caciare ma va matto per Ferie d’agosto, disgusta i western all’amatriciana ma se la signora Ferilli Sabrina gli mostrasse la topona non credo sarebbe così “duro”. O forse sarebbe durissimo?

Ah ah. Sì, vivaddio la “trivialità” sana, altrimenti si è già in fin di vita e si rimembra solo dolcemente il passato, specchiandosi come Noodles su Yesterday dei Beatles. Almeno, questa scena, Paolo l’ha capita?

 

di Stefano Falotico

 

 

Bon Jovi

 

Falotico Ste(fano), forse Verdone Carlo, Depp Johnny, De Niro Bob e/o Cage Nic


06 Sep

“C’era una volta in America” rivive sul grande schermo – Io vivo solo per il mio “C’è”


18 Oct

L’America abita in Leone, come me, il “vecchio

Rancori, solitudini, destini che si perdono, intreccio “affabulato”, “oppiaceo” d’un Leone che si piace anche del celeberrimo gesto triviale del cucchiaino “esasperante” di Noodles quando “ritorna” e provoca il suo amico, che poi sarà un “ex”, un brutto ricordo o uno smarrimento del Passato da reimmaginare, poi l’infanzia e l’adolescenza cresciuta e “incresciosa” assieme, le rabbie di chi visse ai margini, di chi non si rimarginerà mai perché, se Max s’imborghesirà scippando il sogno del suo compagno di donne, sbronze e baldorie, di eccessi, goliardie e “bordelli” vari, di riflessioni e problemi trascorsi assieme, Noodles rimarrà se stesso, “derubato”, “detronizzato” dagli “ordini” di un’epoca scomparsa, della sua generazione non adattata, del suo “matto” duello contro tutto e tutti, perfino “imbestialito” nello stupro dell’amore puro di Deborah.

Il capolavoro di Leone è oggi d’ammirare “reintegrato”, dunque integralissimo. Tarantino lo considera l’apice di Sergio, perché contiene, nel “manifesto”, la sua anima, il testamento di tutta una vita e delle sue emozioni.

Le emozioni di ognuno di noi sono la storia personale, il viaggio, il travaglio, il “trafelato”, gli errori e chi (non) li ha commessi, chi ha sbagliato tutto ma non intende tornare indietro, anzi, ostinato continuerà sempre per la sua strada, “violenta” ma almeno onesta e mai traditrice.

Noodles è la sua faccia da “culo”, il De Niro che (non) ti aspetteresti che ti ride come al solito, qui nel “finalissimo” che manda a monte la retorica, le cazzate, lo schifo anche suo, l’indigestione pesante, il fottuto che se ne frega e ti dice “Di te, non me ne sbatte un cazzo, vai a denunciarmi? Ma che vuoi denunciare. L'”Annunciazione d’uccello sano sono io. Guarda che la tua maionese impazzisce, Renato Pozzetto ha solo “tremore” che il cagnone lo inculi, mica ha paura”.

Max lo raggiunge, si allontana, probabile suicidio?

– Ma tu ti fai i film? Vivi della loro aria che respiri?
– Sai, beota. Scoprii molto presto che il Mondo “reale” è letame. Te ne stai a sorseggiare un birrotto e una puttana ti “scoccia” col suo “Scotch“, passeggi al parco e un drogato ti pianta una siringa nel sederino, sodomizzandoti dei suoi fallimenti. Che disgraziato! Me e lui. La Donna, che ami, ne ama “tanti”. E il lavoro per me equivale al compromesso di chi crede alle messe.
Io credo che, al di fuori dell’emerito sottoscritto, esista solo una sega, mentale e non.
Il resto è una stronzata.
Fidati.

– Non mi fido.
– Sai perché?
– Perché sei un gobbo.
– Ma come ti permetti?!
– Mi permetto questo e altro. E ora mi accendo il “sigar(ett)one” sul tuo “far spallucce”.
– Ehi, stronzo. Ti taglio le palle.
– Sì, sì, come no. Stai attento che non ti ammazzi io.
– Ah, provochi? Io sono il migliore sulla piazza, sai?
– Anche di puzze.
– Ora, stai esagerando. Ti aspetto fuori fra 5 min. Poi, sarai un Uomo morto.
– Bang! (colpo, non letale, alle s-palle di “tradimento”).
– Figlio di puttana! Che vigliacco! Sparare a uno disarmato.
– Guarda che la gobba t’ha salvato.
– Fermatemi! Adesso lo strangolo!
– Non inciampare!
– Perché dovrei inciampare?
– Oltre alla gobba, sei anche cieco?
– Perché?
– Io sono frutto della tua immaginazione.
– Cioè?
– Vedi qualcuno davanti a te? Sei davvero sicuro che non sia un fantasma partorito dalla tua testolina già bella che andata?
– No, tu sei vivo e vegeto, pezzo di merdaccia. E ora creperai!
Beccati queste pallottole!

Trenta secondi dopo, il gobbo capì che stava parlando da solo.
E che questo dialogo gli rinfacciò che, anche senza bernoccolo, aveva preso coscienza della sua esistenza ingobbita da una demenza “cavalcante”.

Sì, Klaus Kinski scopò Caprioglio Deborah, “violentandola”.
A questo punto, gli è preferibile il “barbone” Lino Banfi che, assieme alla figlia, cantava: grandi magazzini, per grandi e per piccini!

Firmato il Genius
(Stefano Falotico)

  1. Per qualche dollaro in più (1965)
  2. C’era una volta il West (1969)
  3. C’era una volta in America (1984)
  4. Grandi magazzini (1986)

I Sentieri Selvaggi di “C’era una volta in America”


18 Oct

Rivedere oggi C’era una volta in America su grande schermo, nella sua versione più lunga, con scene reintegrate che hanno sofferto un po’ gli anni di isolamento – gli encomiabili sforzi di restauro non possono espungere quella “bellissima” opacità della vecchia pellicola ritrovata – fa uno strano effetto. Come tornare alle origini di un amore. Sergio Leone in questa storia di gangster ebrei newyorkesi nei primi anni del Novecento filma la “sua” vita, la magnifica ossessione eternamente fanciulla dell’essere spettatore…

 

c'era una volta in america

 

Rivedere C’era una volta in America oggi, su grande schermo, in versione integrale e restaurata, fa uno strano effetto. Per chi ha incominciato ad amare e “mangiare” cinema tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90 l’ultimo film di Sergio Leone ha sempre assunto un ruolo particolare: gli inizi di un amore, il film fiume, lo Spettacolo del Mito, l’esperienza filmica per eccellenza insieme a Novecento di Bertolucci o I cancelli del cielo di Cimino. Dieci anni di attesa per realizzarlo, una produzione lunghissima e un montaggio travagliato che ha partorito varie versioni, sono il frutto di un film/esperienza che lo stesso Leone sintetizza magnificamente citando una frase di Joseph Conrad: “Credevo fosse un’avventura, invece era la vita”.
Ecco, è esattamente questo che ancora oggi stupisce e travolge del film: Sergio Leone in una storia di gangster ebrei newyorkesi nei primi anni del Novecento filma la “sua” vita, filma la magnifica ossessione eternamente fanciulla dell’essere spettatore e filma la folle idea di un cinema orgogliosamente indipendente da ogni (neo)realismo. Lo sguardo dell’europeo Leone è fatalmente al di qua rispetto all’America e ai suoi miti, ma la sua passione viscerale produce sublimi cattedrali erette solo su mura di celluloide: il trionfo del profilmico, degli enormi set/mondo, della musica/tempo di Morricone e dei generi cinematografici che partoriscono la vita solo nei primi piani insistiti degli attori.

 

Il Noodles di Bob De Niro è in fondo l’eterno fanciullo spettatore che diventa improvvisamente regista. Continuerà a guardare innamorato Deborah da lontano: da ragazzo, attraverso la famosa fessura nel bagno mentre lei balla tra la farina; o da vecchio mentre lei recita Cleopatra in un teatro di pesanti maschere (in quella che forse è la più bella e commovente scena reintegrata in questa versione lunga di 4 ore e 20 minuti). Perché Deborah è il cinema di Noodles: “in galera dovevi non pensarci che fuori c’era il mondo, dovevi dimenticauna scena reintegratarlo per non impazzire, ma due cose non riuscivo a togliermi dalla mente: la prima era Dominick quando prima di morire mi disse sono scivolato. E l’altra eri tu. Tu che mi leggevi il cantico dei cantici, ricordi? Nessuno t’amerà mai come t’ho amato io”.
L’inerme Noodles che guarda e sogna si trova improvvisamente in un teatro d’ombre cinesi (le ombre, la materia prima dei film) e produce finalmente una sua storia, una sua versione dei fatti probabilmente irreale, ma pura e autentica sentimentalmente. Ha ragione Quentin Tarantino quando dice che questo film è il vero testamento artistico e umano di Sergio Leone, perché nascosto nei meandri del genere, dei ganster, delle amicizie virili, del Mito americano e delle pallottole che ammazzano, c’è un regista/ragazzino che “sogna tra le ombre” e che si permette di sorridere guardando dritto in macchina alla fine del suo film/giocattolo. Rivedere oggi C’era una volta in America, con le sue scene reintegrate che hanno sofferto un po’ gli anni di isolamento – gli encomiabili sforzi di restauro non possono espungere quella “bellissima” opacità della vecchia pellicola ritrovata – fa pensare che forse l’unica risposta possibile alla tanto sbandierata morte del cinema odierna, risiede proprio nel conservare la primigenia passione in ogni tipo di nuova e sacrosanta “contaminazione”. Conservare lo scintillio (come qualcuno non si stanca mai di ripetere). Continuare a guardare Deborah ballare…

 

De Niro’s Malavita, Brooklyn photos


16 Oct

Mentre sui nostri grandissimi schermi riapproda il capolavoro di Sergio Leone, C’era una volta in America, il nostro Noodles ritorna gangster per Luc Besson. Dopo aver ultimato le riprese in quel della Francia ed essersi “precipitato” in Bulgaria per gli ultimi “dettagli” di Killing Season, eccolo tornare sul luogo del “delitto” della Malavita, appunto.
Come da “affissione”, speriamo che il film sia da bacheca antologica, ammiriamolo in questo slideshow per le strade di Brooklyn.

Il Professore sancisce ancora Sergio Leone


10 Oct

C’era un volta un Uomo, oggi è ingigantito nei suoi mille volti. Egli, l’arcano e supremo, voltò dagli avvoltoi, li avvolse di nastro (isolante) e poi non sparò loro che pensarono fosse scomparso, dopo averlo “cosparso”, ma ricomparve tutto appariscente fra chi vive solo d’apparenza fra quattro pareti del suo piccolo cervello

Una brezza “scoscesa”, arcuata si terge in me e, nel frattempo, l’umanità è “indaffarata” nelle solite corse all’oro, da bidoni che si celan dietro maschere dorate ma son solo bidelli d’una vita non spesa, solo a far le spese e “pesarsi”, stressarsi e (s)tirarsi. Bighelloni coi “righelli” ad alterare le loro stesse prospettive, malsane ottiche da miopi o da “preti” presbiti.
Sentenziano di plebiscito con la “proboscide”, scudisciano e se “lo” dormono fra i cuscini.
Il loro mo(t)to di vita, di “gravità” alle caste, è “Il fico”, ma io mi copro solo di nudo passeggiar fra la gente, traviata da troppa “carne al fuoco”, “stufata” che sbuffa e annoiata che s'”annoda”.

Falotico, in mezzo a quest’orticaria, lancia le rose e si slancia lanceolato, “allacciato” solo alle cinture di sicurezza del suo (manu)brio che scorazza a Tempo libero, fottendo chi sfotte e picchiando chi pensa solo alla “botta(na)”.
Botte piena e moglie ubriaca?
E allora “ingroppiamola”, di glup alla “scaloppina” con del buon vino nello “scantinato”, ove “scarpineremo” di “mascarpone” nella cena del nostro Piacere.
Da gustare issando i calici e sollevandole la gonna, per levarci dalle palle gli ignobili e, di nobiltà, “appallottolarla” nelle “nevi” che si sciolgono di forti, sto(r)iche, mitiche ed erotiche imprese leggendarie da prodi delle leve.
Da mastini nel martirio, nel Martini che brinda con Lisa e, appunto, dallo “Snow” la “riscalda” da Don. Era un po’ “down” e ora sta (tirami)su…

Così, il Falotico, narra della sua “risalita” appunto.
Da rain man a Jerry Maguire il passo (non) è stato breve. Ma ora è lunghissimo… Non è coperto di soldi, ma scopre tutte sotto le coperte.
Voi, (scopa)tori, soverchiaste le regole del genio “vergine”.
E il genio vi punì, soprattutto lì.

Perché Falotico è come Noodles, un “bambino” cresciuto che tratta malissimo il vecchissimo Max, ex amico corrotto, a cui porge un “Vaffanculo!” di enorme gentilezza, inducendolo al suicidio, poi si avvia lungo la sua strada, nella sua enorme immensità, come Sergio Leone su musica di Morricone.

Applauso!

Per chi (non) l’ha o avesse visto, eccolo qua, ancora.

Firmato il Genius
(Stefano Falotico)

  1. Per qualche dollaro in più (1965)
  2. Gran Torino (2008)
  3. C’era una volta in America (1984)


Genius-Pop

Just another WordPress site (il mio sito cinematograficamente geniale)