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Capodanno… forse a New York, “capolavoro” di Garry Marshall, e nella prossima vita vorrei “quagliare” di più come Fabio Quagliarella, vero centravanti di “sfondamento”


31 Dec

capodannonewyork

Eh sì, ho un ricordo assai piacevole di Capodanno a New York, film che alla sua uscita la “critica” a spada tratta massacrò, depistando quegli spettatori che oggi, rivendendolo, ne rimangono favolisticamente, direi, sorpresi e giustamente lo rivalutano. Aveva ragione Sentieri Selvaggi a definirlo una splendida commedia, l’apoteosi, ad alcuni dunque risultante disgustosa, dello “zuccherificio” del compianto Garry Marshall, l’unico, prima appunto della sua morte, rimastoci a fare un Cinema classicamente “superato”, tanto romantico da non poter essere accusato di melassa, perché apertamente, dichiaratamente sperticato nell’elogiare i buoni sentimenti da sorpassare, per paradosso, la semplice definizione di “cinepanettone”. Garry Marshall riprova a intrecciare i destini in un grande racconto corale, che sappia unire il lusso stellare alla scintillante e magnifica superficialità di un cinema capace di entrare nei cuori, solo guardandone i riflessi e gli imprevisti movimenti. Tutto, qui, ruota intorno alla festa dell’ultimo dell’anno a Times Square, promessa di nuove possibilità e speranze. Così recitava la recensione di Aldo Spiniello, uno che assieme a Simone Emiliani aveva visto giusto. Perché, nella sua immonda “sconcezza” sentimentale, è commovente quel Bon Jovi, il discorso iper-retorico di Hilary Swank non è affatto patetico, è quasi toccante, così come lo è la dipartita di De Niro che ammira la palla delle meraviglie togliendosi la papalina da malato terminale. Un film talmente, “oscenamente” comico nella sua sbandierata, ingenua tenerezza da far sì che possa essersi conquistato l’ambito status di cult. Sì, perché a fine anno oramai sempre lo programmano, è un appuntamento televisivo immancabile. E onestamente mi sarebbe piaciuto essere Ashton Kutcher in quella “situazione” imbarazzante, perché è così bello quando l’ascensore si blocca, non scende e non sale eppur dolcemente, nella pausa, ti appare Lea Michele in minigonna… al che diventi un ritrattista-disegnatore di forme geometricamente piccanti, e intercali di moine e alzate sopraccigliari da vero volpone ammaliato dalla sua elegante femminilità “intelaiata” in gambe in collant che incorniciano alla perfezione il “coglione” che sei.

Eh sì, il prossimo anno vorrei essere come il calciatore Fabio Quagliarella, uno che quando arriva l’Estate, soprattutto a Ibiza, sa come sfondar… le calze a rete… “insabbiandolo” di “apnee” marine davvero galleggianti nel tenerlo a mollo, gonfiando il “canotto” in donne muscolose alla Tania Cagnotto, l’unica in cui comunque non si è “tuffato” e che non “stantuffò”.

Invece, il nostro calciatore, o meglio cacciatore, pare che se “lo” sia spassato con la Salvalaggio, una con cui non puoi improvvisare, andando all’arrembaggio. Perché questa qui abbisogna di soldi e oro a mille carati, è una donna tanto “cara”… non sa che farsene di uomo poveraccio anche se è più bravo di Roberto Baggio. Abbisogna di un Fabio in “piena attività”, uomo che infila “balisticamente”, sgranchendosi le gambe con “tiri” micidiali, mandandola in visibilio su posizioni dubbie in “fuorigioco” di ogni Kamasutra possibile. Un uomo alla Muccino, “dolce” e “sensibile”, che si è fatto anche la Buccino. Salvalaggio e Buccino sono amiche di Angela Formenti, una che la dà a Formentera, mentre noi uomini veniam “fermentati” dal nostro esser (in)fermi in ciò che, nelle palline, si fomenta eppur sciogliendosi in due non si fa osé. Rimaniamo sempre a secco, essendo uomini rinsecchiti, uomini ubriachi d’amore, più che altro da prosecchi. Un po’ rosé e nella vie en rose. L’abbiamo sempre rosso eppur, troppo timidi, arrossiamo e restiamo solo con le nostre carne e ossa. Spolpando il cotechino, mentre i maialini amano il “lento” e non le lenticchie, care racchie.

Quagliarella anche ieri ha fatto la “doppietta”.

Sex Bomb(er)!

Lui sì che sa stappar lo “spumante!”.

CkhsGhLXEAEjkdV cotechino vitali

Nostalgia della Hollywood classica: Lo stagista inaspettato, di Nancy Meyers


16 Oct

Sentieri-andoggi Selvaggi:anne-hathaway-e-robert-de-niro-in-lo-stagista-inaspettato

di

Il rapporto tra Nancy Meyers e il cinema classico è sempre stato così stretto che The Intern non ha nessun bisogno di svelarlo ulteriormente. La regista sta cercando di saldare il suo debito verso il romance e sta provando a farsi testimone di una serie di formule che ormai sono considerate sorpassate. La questione non è solo un fatto di forma narrativa ma è principalmente un problema di ribaltamento delle gerarchie tra uomo e donna. Le tipologie dei rapporti sono evidentemente cambiate ma Nancy Meyers insiste nel sottolineare un sentimento di nostalgia verso la commedia rosa del passato. Il suo cinema tenta continuamente quell’opera di persuasione che riusciva ad Eli Wallach in The Holiday del 2006. Il vecchio sceneggiatore hollywoodiano in pensione convinceva Kate Winslet della necessità intrinseca di quelle storie d’amore che aveva scritto per tutta la vita. La regista si impegna in questa operazione in modo paradigmatico e la chiave per capire la natura del suo lavoro non è soltanto nel bellissimo omaggio a Singin’ In the Rain. La scena in cui un vedovo orgoglioso come Robert De Niro si commuove davanti a Gene Kelly che canta You Were Meant For MeDebbie Reynolds è semmai il punto di riferimento a cui umilmente sa di non poter arrivare. L’uomo ha appena sentito l’ennesimo resoconto diAnne Hathaway sul suo matrimonio complicato e l’ha consigliata sull’opportunità o meno di perdonare il marito dopo un tradimento. Il suo ruolo di secondo padre non gli impedisce di rimpiangere il suo tempo e le sue convenzioni sentimentali. L’epoca lineare in cui si era innamorato di una ragazzina di Brooklyn e avevano deciso di invecchiare insieme: lui aveva trovato lavoro e avevano tirato su famiglia.


Il fatto che Nancy Meyers ci creda o meno è relativo perché per lei la cosa fondamentale è che il cinema porti avanti questa situazione come archetipo.
In questo senso il momento veramente didascalico è quello in cui la protagonista rinfaccia ai suoi amici la loro scarsa virilità. Il suo personaggio gestisce un’azienda di successo e si lamenta che adesso le donne sono donne troppo presto mentre gli uomini restano ragazzi troppo a lungo. Non è un caso che davanti a sé abbia un campionario di trentenni che sembra un meltin pot tra la factory di Judd Apatow e una puntata di The Big Bang Theory. La presenza di Robert De Niro non rinuncia ai soliti e fastidiosi tocchi di autoironia che ogni volta gli impongono una rivisitazione del monologo allo specchio di Taxi Driver. L’attore si trova a suo agio con una collega che non ha problemi a declinare nel ventunesimo secolo la personalità di Katharine Hepburn. Il suo bagaglio professionale basta e avanza ad imitare quella di Spencer Tracy e a dare credibilità ad uomo che non dimentica mai di portare un fazzoletto nella giacca. Le donne prima o poi piangono sempre e la cavalleria non dovrebbe mai estinguersi: la domanda è quante siano disposte a dare ancora retta a Nancy Meyers. La risposta potrebbe dire se i suoi film sono anche efficaci oltre che ad essere piacevolmente retro.

 

 

 

“Cose Nostre – Malavita”, recensione dei nostri sentieri selvaggi


17 Oct

La candidatura agli Oscar per l’interpretazione ne Il lato positivo ha fruttato quantomeno a Robert De Niro dei copioni più affascinanti di quanto gli sia capitato troppo spesso ultimamente. Nell’attesa del si preannuncia fenomenale Grudge Match al fianco di Sylvester Stallone per la regia di Peter Segal, ecco il grande Bob commuoversi davanti alla proiezione di Goodfellas all’interno di uno sgangherato cineclub in un paesino della Normandia, dove la pizza del film di Scorsese (produttore esecutivo del film di Besson) è arrivata per sbaglio al posto di un Minnelli. E De Niro, boss sanguinario che sotto protezione si è reinventato autore di saggi storici, invitato a commentare proprio Quei bravi ragazzi si lancia in uno struggente amarcord in prima persona delle riprese del cult scorsesiano. Vertigine bessoniana, “relegare” definitivamente Scorsese ad una Storia del Cinema da cineclub, che fa il paio con l’ultimo, misconosciuto capolavoro di Luc, il già ultracitazionista Adèle e l’enigma del faraone: come se Besson volesse insistere sul racconto di una Hollywood-Titanic di cui l’apocalisse è imminente ma ritornante, già stata narrata più e più volte.
Ancora: in quello che qualcuno ha già definito “il miglior film di Martin Scorsese degli ultimi dieci anni” assistiamo una volta per tutte all’assimilazione appunto dell’iconografia e della mitologia scorsesiana a materiale di quella stessa Storia del Cinema di cui il regista italoamericano va costruendo il monumento film dopo film nella sua produzione recente. È di per sé uno slittamento esaltante, probabilmente in misura anche maggiore in confronto alla faccia buffa e grottesca della vicenda, con questa spietata e violenta famiglia di malavitosi italoamericani (la moglie è Michelle Pfeiffer ormai recuperata del tutto dal cinema dopo Garry Marshall e Tim Burton, e magnificamente in forma) che sovverte le assopite regole del villaggio francese addormentato sulle proprie abitudini, attraverso una serie di metodi poco ortodossi e scorrettezze risolutive proprie della tradizione mafiosa. Bella idea rubata al romanzo del prolifico Tonino Benacquista, ma che in sostanza permette a Besson soprattutto di orchestrare dei clamorosi duetti tra De Niro e il sempre impagabile Tommy Lee Jones, che in pratica potrebbero recitare l’intero film dialogando unicamente attraverso declinazioni della parola fuck.

E però sotto la patina di commedia nera Besson sembra scorgere anche stavolta il suo prototipo preferito, quello dell’adolescenziale, candido angelo della vendetta tra Nikita e la Matilde di Léon, stavolta incarnato dalla meravigliosa Dianna Agron, primogenita teenager del boss De Niro che diventa la protagonista assoluta della sezione finale del film, in cui Besson mette da parte del tutto i toni scanzonati per fare sul serio, e orchestrare un thriller d’azione notturno che porta chiarissimi i segni del suo stile e di tutto il suo cinema, nel momento in cui saranno proprio la timida Belle e il fratellino gli ultimi baluardi armati pronti ad affrontare le decine di sgherri spietati e letali arrivati in paese per regolare i conti con la famiglia di traditori. Puro Besson giunto dopo la fine del cinema, sui titoli di coda del celebre titolo scorsesiano. Lucidissimo.

di Sergio Sozzo

“Il lato positivo”, recensione da “Sentieri Selvaggi”


07 Mar

Non è Lucarelli Selvaggia  

 

Il lato positivo è una sorta di film/matrice per il cinema di David O. Russell: prepotentemente bipolare come il suo protagonista e capace di alternare sequenze straordinarie a cadute improvvise. Ma stavolta riuscendo in più occasioni a emozionare sinceramente. E allora la “silver lining” (“buon proposito”) potrebbe essere il percorso verso la sincerità/semplicità che lo stesso O. Russell sta evidentemente compiendo

Ok, bevo troppo, ho lavorato in molti bar, e ho perso molte opportunità, ma sto cercando di migliorare…”   Amy Adams in The Figther

 

 

È la costante ricerca di una redenzione, di una seconda opportunità, che accomuna i vari tasselli della breve filmografia di David O. Russell. Personaggi spesso schiacciati dal loro ambiente, che percorrono il “tempo di un film” per evadere, ritrovare se stessi, superare le paranoie. Da questo punto di vista Silver Linings Playbook potrebbe veramente rappresentare la matrice di tutto il suo cinema: il protagonista Pat Solitano (un ottimo Bradley Cooper) è affetto da gravi disturbi di bipolarità, alterna violenti scatti d’ira a improvvise folgorazioni estatiche; proprio come da sempre fa la regia di O. Russell: prepotentemente bipolare, capace di alternare sequenze straordinarie a cadute improvvise nello stesso film. Ma questo potrebbe anche essere il “lato positivo”, ossia il costante ragionamento sul (suo) cinema: dalla chiusura del discorso sul postmoderno (Three Kings), a quello sull’autorialità dei padri (il controverso I Heart Huckabees) e sull’ibridazione cine-televisiva dei figli (The Fighter).
Pat, però, deve anche lottare contro un ossessivo ricordo: sua moglie che lo tradisce nella doccia di casa, la violenta reazione contro il malcapitato amante, il successivo internamento in un ospedale psichiatrico. Il nostro film invece si apre con l’inizio del percorso di redenzione, nella sofferta speranza che ogni evento, libro, vita possa avere un Happy End. Possa trovare il suo lato positivo e fermarsi là, perché sarebbe giusto così. E allora l’incontro con la tormentata e bellissima vedova Tiffany (notevole l’interpretazione del premio Oscar Jennifer Lawrence, sempre sul punto di far detonare la sua rabbia repressa) segna uno scarto fondamentale nella vita di Pat: si possono sconfiggere i proprio fantasmi con la potenza taumaturgica della condivisione? In un liberatorio e fatale ballo sregolato?
O. Russell mette al servizio della bella storia tratta dal libro di Matthew Quick tutto il suo (un po’ ruffiano) impianto registico fatto di strategiche scelte musicali e qualche dotta citazione qua e là, ma stavolta riesce a raggiungere in più occasioni una sincerità sentimentale che scuote lo spettatore nel profondo. E lo fa intelligentemente affidandosi per lo più agli attori: oltre ai due protagonisti da segnalare la più convincente interpretazione di Robert De Niro almeno da dieci anni a questa parte, un padre divorato dalle sue simpatiche superstizioni sportive che si apre emotivamente al figlio chiedendo indirettamente perdono per il passato. Ecco: la “silver lining”, il “buon proposito”, è un percorso verso la sincerità/semplicità che anche il cinema di O. Russell sta evidentemente compiendo. Idealmente in linea con l’ultimo Van Sant di Promised Land qui si avverte un sottile ritorno alla magia del contatto umano che possa creare cambiamento (echi del cinema settantesco di Hal Ashby), in un film dominato dalla strada come mondo/set prediletto in cui tornare a correre, litigare, abbracciarsi, amarsi, “incontrarsi”…
Titolo originale: Silver Linings Playbook

Regia: David O. Russell

Interpreti: Bradley Cooper, Jennifer Lawrence, Robert De Niro, Julia Stiles, Jacki Weaver, Chris Tucker
Origine: USA, 2012
Distribuzione: Eagle Pictures
Durata: 122′

 

 

 

 

“Killer Elite”, secondo i “sentieri selvaggi…”


04 Jun

 

Siamo tutti critici alla John Ford…

 

Il film di McKendry sembra Knockout di Soderbergh senza i giochetti metalinguistici, e si affida a una manciata di sequenze con Robert De Niro a metà tra Ronin Jackie Brown, e a un paio di mirabolanti numeri di Jason Statham. La sensazione è però quella che il cascatore scoperto da Besson si conceda a queste scene d’azione sempre più controvoglia; come già in Professione Assassino di Simon West, Statham sembra avere ormai l’intenzione di farsi riconoscere come ombroso interprete di eroi corrucciati, tormentati e un po’ meno guasconi di quanto il cinema gli abbia offerto finora.

 

Il look di Dominic Purcell è l’elemento chiave di questo film d’esordio sul grande schermo di Gary McKendry, pubblicitario nordirlandese già candidato all’Oscar 2005 per il miglior cortometraggio. Purcell, superba spalla di Jason Statham in Killer Elite, è star della serialità televisiva, già protagonista di John Doe e Prison Break, tra le altre cose. Qui sfoggia una incollaticcia chioma impomatata e un paio di baffi imponenti, e, siccome il film è ambientato nei primi anni ’80, il risultato è quello di un personaggio che non ha ancora capito che gli anni ’70 siano ormai finiti.
In qualche modo questa si rivela essere sul serio una indicazione di regia per McKendry, che fa uno spy movie spedito e virile davvero d’altri tempi, che però evita completamente di compiacersi del proprio aspetto di modernariato funky vintage, ma condensa la confezione in un ritmo secco e in una sceneggiatura senza fronzoli, basata sul romanzo-inchiesta di Ranulph Fiennes Gli uomini puma, che nel 1991 aveva smascherato le presunte malefatte dei servizi segreti inglesi nel corso della guerra per il petrolio del sultanato di Oman.

Il film di McKendry sembra Knockout di Soderbergh senza i giochetti metalinguistici, e si affida a una manciata di sequenze con Robert De Niro a metà tra Ronin e Jackie Brown, e a un paio di mirabolanti numeri di Jason Statham, tra cui una lotta con mani legate dietro una sedia non proprio inedita ma atleticamente impressionante, e un corpo a corpo di una certa potenza con Clive Owen, o più probabilmente il suo stunt double. La sensazione è però quella che il cascatore scoperto da Besson (e che non a caso qui ricomincia da Parigi – “Lo sapevo che saresti tornato!”, esclama Purcell) si conceda a queste scene d’azione sempre più controvoglia; come già in Professione Assassino di Simon West, Statham sembra avere ormai l’intenzione di farsi riconoscere come ombroso interprete di eroi corrucciati, tormentati e un po’ meno guasconi di quanto il cinema gli abbia offerto finora.
La sfida con un Clive Owen più dalle parti di The International che di Shoot ’em up, ne stimola a dovere le acerbe capacità attoriali: ma è Owen in realtà il vero protagonista nascosto del film, fantastico perdente tradito e ossessionato dal passato, di cui lo script schizza la figura con un paio di elementi e nulla più, ma di cui sentiamo tutta la sanguigna umanità.
Matt Sherring, lo sceneggiatore anch’egli al battesimo cinematografico, mostra infatti questa ottima abilità nel caratterizzare i suoi personaggi con un paio di riferimenti, qualche immagine (vedi la lettera che arriva a Statham all’inizio del film, che contiene solo una foto di De Niro in ostaggio e un biglietto d’aereo, ed è subito tutto spiegato), poche parole di contorno, e soprattutto i tempi giusti.

 

Articolo del 04/06/2012 di Sergio Sozzo

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