“Un amore splendido” di Leo McCarey – Recensione perlacea come un capolavoro

09 Jul

 

Una travolgente, eterea passione infranta prima di sognarsi nei baci eterni, dunque (ri)amarsi per sempre

La mia fama di freelancer si sta “acuminando” nel Tempo, che riavvolgo a immagine e somiglianza delle emozioni ondivaghe, meditando se tuffarmi in un'”alta marea”, farneticar appisolato ad altro sospender il Fato dei miei fasti pensierosi, se giocherellare coi bambini nel cortile, ammaliandoli del mio carisma di lupo di mare dai sopravvissuti naufragi ed eremitaggi alcolici, o se inabissar un altro po’ la mente e far sì che penzoli strangolata dal mio Cuore dai sussulti melodiosi.
Oppure, chissà, approdare in una Torino estiva, “birreggiare” di passeggiate meditabonde nel frisbee delle mie roteanti giocosità, o surgelarmi ancora nelle noie invadenti e persistenti, talvolta pressanti d’atmosferico umor, non sempre britannico, “irascibilieggiante” e troppo canterino di stonate vocalità d’animal troppo (t)essermene gaudio, o correre a perdifiato perdendo il bandolo dei miei dardi.

Così, ieri sera, la vita mi guidò verso la Mole Antonelliana, ove stanno proiettando, come consuetudine della Cineteca di Torino, varie retrospettive d’allure proprio alla Cary Grant. Di riga pettinata senza “ingellar” il sorrisetto, una cravatta di portamento senza doppi menti, e un’asciuttezza fisica che adora il cavallo dei pantaloni con egregia classe birbante ma “mascolina” anche quando è civettuolmente femmineo ma attraente per colpi di fulmine istantanei.

Questo è Cary, qui con McCarey in regia, per un fiammeggiante melò d’altissima scuola.

Tutto nasce per caso. Questo film andrebbe proiettato agli istituti del cattivo “sapere” nostrano e odierno.
Già, qui il destino “delfineggia” proprio in crociera. La vita non s’impara calcolandola. E un Uomo, disilluso dalla propria irresistibilità (già, non è ma(so)chismo, ma la consapevolezza del proprio fascino che sa però quanto l’autocoscienza di piacere inevitabilmente sia anche soffrire), s’innamora. Proprio Lui… Eh sì.
Ah, il nostro Ferrante, un bel tipino, sapete?
Brillante quasi quanto la sua brillantina, per una Deborah rossa come i tramonti di Via col vento.

Due “pazzi” cronici che giurano di sposarsi all’Empire State Building.
Lui aspetta, “udiamo”, percepiamo, intuiamo, captiamo, subodoriamo che qualcosa non è andato come da “copione”. Dunque, invece, secondo i canoni del drammone.

Lei rimane “paraplegica”, e riscopre l’Arte dell’insegnamento, per allevare i suoi piccoli allievi delle “materne” con materno affetto da Donna ferita ma non rassegnata.
Lui è stizzito, si sente ora davvero un fallito, perdere il grande amore perché Lei gli ha dato buca…

Ma non è così…, e alla fine, lagrimandosi, si baceranno nella fragile vita che noi siamo.

Un capolavoro nella perla, la lunga scena nell'”eremo” della madre di Ferrante, d’una delicatezza poetica che suona di candore immenso.

(Stefano Falotico)

 

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