Mereghetti Paolo

18 Jan

“Mereghello”, di righelli”, Paolo, da sputar poiché poco pulito ma imputtanito

Racconti di uomini “duri” da “Ti sp(i)ezzo in due”, sì, degli spezzatini, me li cucino nelle grigliate, affumicandoli al fulmicotone, eh già, ho il capello cotonato, e non sono idrofilo. I miei cappelli si scappellano, mia signorinella, prego, ora voglio un inchino ché, chinandoti, a me va innalzato nel cavallo

Chi è Tom Hardy? Un tizio grande e grosso? Posso dirvi che pare un orso ma non è il cattivo George Foreman, anche se viene alle mani Ali da “Beccatelo qua” nel Mohammad! Sono Maometto e tutti li ometterò!

Di mio, la vita va. Ove non so, e chi lo sa? Tu lo sai? Allora sei un incosciente. Oggi, dieci donne t’allettano, domani ti potrebbero crescere le “tettine”. Come? Ah, non ne sei a conoscenza.
Fai male. Apri il “bugiardino” della lozione al tuo bulbo erogeno, se abuserai d’erezione, potrebbe il metabolismo giocarti lo scherzo cattivello di poco “trivellare” ma, di mammelle, sessualmente voltar nell’alt-r-o da te, “odiernemente” amato, domani da appiattire, speriamo non di cervello.

Ah, la plastica. La mia vicina di casa, Lucchi, mise il lucchetto al marito ma si cuccò un Cancro al seno, appunto. Al fin d’evitare, dopo l’evirazione violenta al marito “violetto” di dolore non più “levitante”, che qualcuno potesse v-i-olarla, volle che le amputassero un capezzolo per impedire l’asportazione, nonostante la chemio…

Mah. L’operazione riuscì, al marito “entrò” del tutto, insaccato nel sacco a pelo a non dormirle sopra, ma la Lucchi desiderò poi che prendessero il “coso” del consorte per appiccicarlo nella zona mancante.

Che casino…, roba dal nuovo film di David Cronenberg, The dead zone della zotica nello zoo dei mutamenti d’una storia violence con la mosca dell’amante, anche lui non tanto piccante ma impiccato, con tanto di Spider sul soffitto delle ragnatele alla covata malefica.

Titolo wertmulleriano, altro che Travolti da un insolito destino…

Eh sì, John Travolta ballò atletico, ora ha la pancia e due coppe al posto dei pettorali.
Una pulp fiction. Ce “lo” vogliamo dire? Diciamocela!

Pochi attori contemporanei mi “soddisfano”. Uno di questi è Tom Hardy.

Interpreta, quasi sempre, il personaggio d’uno che ne ha prese tante, non solo metaforicamente, vuole sfondare ma vien “perforato”.

Accade in Warrior, rivisto ieri sera. Un cazzo di film, miei cazzetti.
Non è roba da calzette e calzoncini. Né da canzoncine.

Abbiamo un Nick Nolte distrutto dagli errori. Mollò la prole e poi ecco che vuole salvarla di “capra e cavoli… a merenda” per bere una birretta da ossesso sciagurato nel complesso di colpa da “Facciamoci una bevuta, vedrete che, ubriacandovi, non vi suiciderete”. Sua moglie morì in ospedale mentre lui era lì a brindare con qualche vacca, spedì Tom in guerra e l’altro a lezioni di Fisica, fregandosene del suo fis(i)co.

Ma è un grande Uomo. Impazzisce di vergogna e non vuol starci a lasciare un’altra volta i suoi cari nel fango e nelle poltiglie. Che si diano alle “polpette” di fegati spaccati… di pugni.

Al che, rimpatriata, nonostante le cicatrici di tutta l’allegrissima…

Allena Tom, alienato irrecuperabile, sprona Joel, Leone con una Donna commovente, soprattutto all’inizio del film, smutandata per infarti quasi migliori delle emozioni provocate nel finalone.

Russi alla Ivan Drago, mohicani, mosse carpiato su smottamento della testa sbullonata, prese, “Acchiappa l’occasione al volo”, presidi scolastici che tifano per la “lott(eri)a”, e un simpaticissimo trainer semi meridionale nell’America più industriale.

A parte gli scherzi e, tralasciando qualche ingenuità, un gran bel già classico.

Un film d’amalgama.

Una domanda, però. Io tifavo per l’altro, Tom, appunto.

Chi cazzo ha deciso che doveva perdere? Non aveva già perso abbastanza?
Che ci frega di Edgerton? Ah, gli avrebbero tolto la casa. Capisco. Sì, ma Hardy non ha adesso neanche più la capanna dello zio…, manca la caparra, sotto la panca degli addominali la capra crepa, e rimane pure con le costole fracassate e la spalla slogata.

Ah, capisco. Però ha avuto le “palle” di resistere.

La perplessità resta.

Racconto numero 1, numero tre, se lo rapportiamo a quello d’ieri. Ieri, o dopo il dì che fu, quel che importa è se sarà redditizio. Che poi attizzi, son “falli” che riguarderannono le donne che guardan solo a “quello”. Cos’è quello? “Lo” incontrai prima di castrarmelo, poi si disincagliò da solo, dicesi autoerotismo, dunque fu dappertutto, un po’ in una e poi nell’altra. Metà mai, m’interessa la meta, non la “mela”

Sottotitolo: un guercio che si credeva Tony Montana e finì a letto con una montagna di debiti da drogato, “smitragliando” offese al suo cane. Ma anche il cane si ribellò, abbaiò, lo disarmò e, da quadrupede, si tramutò “impuntato in piedi” e non in punte, come le sue puttane, accusandolo di pedofilia dietro un notaio che scoprì i loschi affari del suo padrone.

Questa è la storia di un “tozzo” chiamato Fabrizio, dal soprannome “Er fringuello Aristogatto”, non aristocratico ma per tutte le gatte più “alla romana”. Sì, ogni Notte le serviva della sua “ostrica”, dopo averle concupite all’osteria “Hostel, qui i conti son tosti, ma ogni pollastrella, pagandoci, ve la rosolerete arrosto, basta non farsela addosso se vi chiederemo di più”.

Fabrizio, detto anche, fra i suoi mille nick, “Il fabbro delle labbra”, “Il farmacista della cubista”, “L’ostetrico che le spolpa fin a ischeletrirle”, e appunto “Il puerpiero delle pere”, è, adesso non ne sarei sicurissimo dopo che di “sicure” s’ammalò di veneree da “assicurato” all’assistenza anche dei suoi genitali, sì, “gelato”, un “uomo” che sapeva il fatto suo.

Dopo studi davvero diligenti e raccomandazioni al dottore (di)dietro le civette sul comò per una vita più comoda, si garantì un lavoro come portaborse del garante della privacy.
E, così, poté (un “grande” poeta, eh già) “potare” tutte le “selve” da “impomatare”.
La donna va matta per uno che rispetta il suo “corpetto”, e “la” protegge da eventuali “mani” lì intenzionate di “tizzone”.

Fabrizio, grazie a questo “lascia… passere”, tutte se le passò, fra una ripassatina e un Passato da oscurare nelle “scure” da imbiancare.

Se ne montò tante, come la sua testa, e, oltre alle patonze-patatone, tanti soldi a palate fece.
Che merda. Che “culi”.

Chi, oggi, ne fa le “feci?”. Tu facesti? No, non fosti sfacciato come Fabrizio, che ce l’ha sempre rizzo fra ricce e lisce e a pelo da pettin(g)-are. Almeno questo… ac-cadeva sin all’altro Giorno.

“Sorgeva” dal tramonto all’alba, ma non “pene” gliene sortì con la psichiatra delle sue “geriatrie”, Donna più dura di ogni Lee Ermey.

Lei lo fregò in codesti, “er-t-i” termini. Lo sedusse, recapitandogli a casa una foto di Lei nuda, con tale “augurio”: “Caro, spero che mi garantirai asilo nella mia aiuola. Fai presto, ma vieni… con calma, e pazienta, sono una che adora i preliminari”.

Ma glielo tagliò.

Fabrizio, eccitatissimo, arrivò infatti a casa sua, in via “Amami d’anima e soffiami con dolcezza, vesto Armani mio a-r-matore”.

Ma, appena aprì la porta, proprio mentre stava pregustando di “aprirgliela”, tutti i mariti di coloro che s’era trombato, in vari sen-s-i, imbracciarono i fucili.

Al che, Fabrizio assunse davvero il coraggio delle proprie azioni”, si slacciò la cerniera e gridò: “Sono Tony Montana! Il mio è già fuori, non intendo ritirarmi. Mi tirerà anche da morto. Ammazzatelo e ne stramazzerò altre, ribaltandole sotto e sopra nei sottosuoli”.

Lo uccisero, ma pare che la sua “legge(nda)” non detti più regole neppure all’Inferno, ove Lucifero “lo” usa come detersivo quando fa il bucato alle fedifraghe cadute nelle sue “fiamme”.

Ora, vi chiederete che c’entra il cane e la storia della pedofilia?
Pare che tutte le “donne” ebeti, che ebbe ove di “crema” crebbe senza mai credere a nulla, fossero delle cagne.

Ho detto tutto.

Anzi no…

Racconto contro Mereghetti, il critico delle “paperelle”. Infatti, mentre guarda i film, gioca nella vasca “idromassaggio” delle Escort del “Corri-ere” ché scoreggio ed evacuo cazz(at)one.

Leggiamo le stronzatine che, infatti, seguono di susseguirsi senza punteggiatura. Ecco Paolo, anziché (ap)puntare di stellette, io userei meglio le virgole. Qui sei diventato uno schiavista dell’analfabetismo più incatenato senza regole grammaticali.

Lei, più che uno sceriffo con la stella di latta, mi sembra un lattaio della “critica”. Dai, Paolo, un consiglio da “conigli”: “Prendi la Bignardi e arrostiscila al Jamie Foxx, detto la volpe per l’uva delle vulve”.

Forse dalle «catene» che lo imprigionano bisognerebbe liberare anche il film di Tarantino, non solo il suo protagonista nero. Perché prima ancora che sbarchi sui nostri schermi, Django Unchained è già stato bell’e imprigionato dentro una gabbia di interpretazioni e decostruzioni che ne hanno fatto l’ultimo erede del western italiano e l’ennesimo centone di citazioni, allusioni e strizzatine (o strizzatone) d’occhio. Con un’operazione, bisogna aggiungere, quasi esclusivamente italiana, dove il regista di Pulp Fiction sembra condannato a essere l’ultimo alfiere di un post-modernismo cinematografico che non sembra aver più corso da alcuna parte.
Non stupisce l’erudizione e il piacere della caccia alla citazione, perché è lo stesso regista che si diverte a mettere nel film omaggi e «prestiti», dalle musiche che aprono e chiudono il film (quelle originali di Luis Bacalov per il Django di Corbucci, sui titoli di testa, e di Franco Micalizzi per Lo chiamavano Trinità…, su quelli di coda) al dialogo con Franco Nero sull’esatta pronuncia di «Django» (che quel personaggio aveva interpretato nel 1966) e a tanti altri ancora. Ma che questa debba essere l’unico metro di giudizio di un film e non per esempio la «superficialità» per cui nelle prime scene il freddo a volte fa condensare il respiro degli schiavi e a volte no… beh, la cosa mi sembra per lo meno discutibile.
Certo, i film di Tarantino ci hanno abituato a una libertà di trovate e invenzioni che non ha paragone nel cinema contemporaneo, dove la logica non sempre è di casa. In Bastardi senza gloria metteva addirittura a segno un finale che ribaltava ogni verità storica sulla Seconda Guerra Mondiale e anche qui le libertà che si prende non sono poche. E più che sul filologicamente corretto «negro» che tanto ha scandalizzato Spike Lee (anche nel «corretto» Lincoln di Spielberg si usa ovviamente «negro») ci sarebbe molto da dire sulla verosimiglianza dei «combattimenti tra Mandinghi». Spesso il divertimento per lo spettatore nasce proprio da qui, dalle libertà che il regista si prende rispetto alla struttura codificata del genere.
In un processo creativo, però, che trova la propria ragione e il proprio metro di valore (almeno per me) nella coerenza dell’invenzione e nella forza della creazione. E non solo nella quantità delle citazioni.
Per questo Django Unchained mi sembra meno divertente (e interessante) di Bastardi senza gloria, perché dopo un inizio folgorante finisce per restare schiavo della sua logica «revisionista» e si avvita in una seconda parte a volte piuttosto ripetitiva e deludente. Certo, l’inizio, con quello strano dentista tedesco che ferma nel mezzo della notte due mercanti con i loro schiavi in catene si stampa subito nella memoria: il dottor King Schultz di Christoph Waltz, aulico nei modi ma sbrigativo con le armi, è uno di quei personaggi talmente irreali da diventare subito mitico. Così come lo schiavo nero Django (Jamie Foxx), a cui Tarantino regala una coscienza di sé e del suo «ruolo sociale» che sarebbe piuttosto arduo spiegare antropologicamente e storicamente (il film è ambientato nel 1858, «due anni primi della Guerra d’Indipendenza»).
Insieme però diventano una di quelle coppie sorprendenti e mirabolanti che si adattano perfettamente alla rilettura del western che può interessare Tarantino (e di cui abbiamo un’ulteriore prova nella presa in giro dei membri del Ku Klux Klan. Una scena degna di Chaplin). Così, trasformati in una temibile coppia di cacciatori di taglie («carne per contanti», come spiega con crudo realismo Schultz a chi quella logica l’aveva vissuta sulla propria pelle di schiavo comprato e venduto), i due nuovi amici attraversano un West dove le apparenze hanno perso ogni valore (uno sceriffo può essere un bandito ricercato) e bisogna imparare a rimettere in discussione i propri sentimenti (come nell’episodio del padre ucciso davanti agli occhi del figlio).
Fin qui è il «vecchio» mondo tarantinesco dove si sono persi i parametri di riferimento e bisogna adattarsi per cercare di sopravvivere al caos. Ma nella seconda parte, quando Schultz e Django si mettono alla ricerca della moglie dell’ex schiavo, Broomhilda (Kerry Washington), comprata dal più razzista di tutti i coltivatori razzisti, Monsieur Candy (Leonardo DiCaprio), l’inventiva del regista-sceneggiatore mi sembra perdere più di un colpo. Si fa aiutare da una più accentuata esibizione di violenza (fatta intuire più che realmente mostrata, come nel combattimento tra i due Mandinghi o nella punizione dello schiavo fuggiasco D’Artagnan) ma il risultato resta ben lontano dalle cose migliori della sua carriera. Il debito che paga visivamente al cinema di Hong Kong (come ha dimostrato lucidamente Alberto Pezzotta su «la Lettura» di domenica 13 gennaio) è molto alto ma meno funzionale alla logica del racconto. E il colpo di scena di Schultz che innesca il massacro finale rischia di sembrare – rispetto alla logica precedente del personaggio – fin troppo gratuito. Lasciando l’impressione di un film dove Tarantino si è divertito a giocare con i generi e i miti più di quanto potranno fare i suoi spettatori.


Firmato Paolo Beghelli, la lampada salva la sua vitina.

Tale e quale a quella di Aladino. Aladino almeno fu alano nelle luccioline, Paoletto invece ha un pisellin…

Domani, dopo aver visto questo Tarantino, potrei anche stringerle la mano.

Al momento, mi sento di staccarle le palle.

Perché al mio mulo non piace la gente che ride di cos(c)e che non sa.

Ora, vi domanderete voi: “E il racconto dove sta?”.

In Mereghetti che non sveste, neppure di sveltina, le “negre”, beve il Negroni e siam noi tutti incazzati neri…
Ora, mi domanderete ancora: “Ma non c’è una trama?”.

Risposta: “La trama ficcatela su per il culo. David Lynch ha deciso di girare un altro capolavoro con Laura Dern. La trama si farà da sé”.
Perché mai sa(li)rà?

Ora, oggi un mio amico di Facebook ha inserito un’immagine che non avevo mai visto né “toccato con manubrio”: Laura Dern che, sul set di Cuore selvaggio, tasta i testicoli del Cage Nicolas.

Laura pare che si fidanzò con Nic, tralasciando Bobby/Willem Dafoe e pure Piero Pelù.

Però, però, perché?

Lynch girò la s-cenetta, per il film che vedremo, immaginandolo d’oniriche astrazione nel bulbo oculare strabuzzato.

Lynch è occhio “lupino”, cupido e arrossò la nostra “Laurina”.

E non mi pare che sia “laureato”.

Della serie, i geni come me non han bisogno di pararselo.

Ma sapere come metterlo, anche in modo “surreale”.

Come? Dite che ha la Laurea? Davvero?

Allora a Laura, parafrasando Totò, ci pen(s)o io.

Tre film che valgono la tarantinata, a prescindere se Lei ti cingerà, se ti stringerà, se sarà ristretto espresso o diretto da dritto.

Di mio, so che son retto quando ergo di verga.

Firmato il Genius
(Stefano Falotico)

  1. Per un pugno di dollari (1964)
    In un paese ove ci si fa la guerra di pugnette, arrivai io col poncho.
  2. Dead Man (1995)
    Sono William Blake, quindi morirà quella zoccola di tua sorella.Morto sarò dopo aver succhiato una mortadellona del genere…
  3. Terra di confine – Open Range (2003)
    Ecco.

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