Vittorino Andreoli ce l’ha coi social, ma io lo smentisco, perché sono Hercule Poirot, il più grande investigatore della psiche umana

03 Apr

Vittorino Andreoli

Sull’Huffington Post, “rivista” su cui avrei parecchio da obiettare in quanto a scelte stilistiche, è comparso un articolo sullo psichiatra Andreoli, benemerito luminare della psichiatria che deve aver confuso sensibil-mente (scritto apposta così) la sua materia con la sociologia più spicciola e si è lanciato in affermazioni che certamente renderanno fieri i sessantenni pasciuti, che demonizzano la rete, e non vedono l’ora che qualche capoccione conclamato dica loro ciò che vogliono sentirsi banalmente dire. Al che, ecco che fioccano i più pericolosi e moralistici luoghi comuni che, uscendo dalla bocca di un uomo da me così altamente stimato, mi spiace dirlo, raggrumano il mio cuore nel più inconsolabile sconforto, e sentirgli sciorinare queste sciocchezze alla buona mi fa ricredere sull’attendibilità del suo operato, e credo proprio che il suo libro non lo comprerò, anzi, dovessi incontrarlo e volesse regalarmelo, desisterei da tale gentile offerta con schietta strafottenza. Perché ciò che ha detto è inaccettabile, vista la sua cultura, e per cultura intendo proprio la sua capacità psicanalitica d’interpretare la realtà nelle sue sfaccettature e nella sua abilità, adesso però opinabile, di guardare al mondo attraverso prospettive diversificate che non si devono limitare all’apparenza più scontata e retrograda.

Reduce dall’uscita del suo ultimo romanzo Il silenzio delle pietre (Rizzoli), Andreoli racconta la scelta della trama distopica, della solitudine di cui l’uomo avrebbe bisogno.

Siamo intossicati da rumori, parole, messaggi e tutto ciò che occupa la nostra mente nella fase percettiva. Il bisogno di solitudine è una condizione in cui poter pensare ancora. Oggi sono morte le ideologie, è morta la fantasia. Siamo solamente dei recettori. Ho proiettato il libro nel 2028, un giochetto per poter esagerare certe condizioni. Io immagino che ci sia un acuirsi della condizione di oggi per cui noi siamo solo in balia di un empirismo pauroso, dove facciamo le cose subito, senza pensarci.

Facebook andrebbe chiuso. Lì abbiamo perso l’individualità, crediamo di avere un potere che è inesistente. L’individuo non sta nelle cose che mostra ma in ciò che non dice. Invece i social ci spingono a dire tutto, ci banalizzano. I social sono un bisogno di esistere perché siamo morti. Creano una condizione di compenso per le persone frustrate […] Quando non si sa più distinguere tra virtuale e reale è pericoloso. Si estende l’apprendimento virtuale nella propria casa, nella propria vita.

E altre insipide bazzecole.

Ora, ripeto, queste sue affermazioni faranno felici le ragazzine depresse che, mortificate da una vita persino virtualmente inappagante, plaudono commosse dinanzi a tanta inezia “colta”.

E andranno in brodo di giuggiole quei “commendatori” appagati dai loro conti in banca danarosi che non abbisognano dei social per fare nuove amicizie e instaurare nuovi rapporti affettivi perché tanto vanno con le Escort e quindi hanno già i loro “veritieri” sfoghi piacevoli.

Resteranno delusi e invece molto infastiditi i giovani, spesso oberati da una vita meschina e falsa, a cui erano state promesse grandi speranze, giovani portentosi e brillanti che illusoriamente si auspicavano un futuro più roseo e radioso e invece si son accorti del grande inganno perpetrato alle loro coscienze, prima rabbonite dietro precetti formalmente indiscutibili ma poi spaventosamente smaterializzatesi nella concretezza di una vita schiacciante e oppressiva che ha spesso reciso la gola delle loro anime creative e gagliarde, sopprimendole coi soliti ricatti pedanti e la facile retorica che bisogna crescere… sì, e adattarsi alla vita come viene, piatta, grigissima, ma che è l’unica possibile e tanto vale che non protestino, che non si dannino, che non s’infoino, altrimenti rimarranno solo infognati. Sì, una spettacolare, tragica illusione… solo fumo negli occhi. Sconcertante, giusta la loro amarezza che allora fa di questo “disagio” materia di Instagram, a volte eccessiva, spernacchiante, troppo festante di guascona balordaggine e insulsa sguaiataggine, ma che comunque estemporaneamente li allieta, li rende vivi o l’illude che lo siano, non meno micidiale e dannosa, non meno falsamente abbagliante dell’immonda ipocrisia che sta alla base del nostro sistema occidentale di vita iper-competitivo, improntato alle mode e al mito del successo, basato sul sesso.

Scusate, non siete voi, “grandi maestri”, che ci avete insegnato che la vita compiuta è vanità, perfino esibizionistico sfoggio dei propri “talenti”, non siete voi che avete fatto sì che nei giovani attecchisse e cementasse questa visione distorta della vita?

Dunque, di che vi lamentate? È il mondo che avete voluto e ora, dall’alto di chissà quale cattedratica presunzione giudicante, vi elevate a punitori delle smodate, “triviali” coscienze non solo giovanili ma di massa?

Ma fatemi il piacere. E ben vi sta un Van Damme che gigioneggia di vera “spaccata” tambureggiante. Ah ah.

Sì, come Poirot io non mi limito alle apparenze, che sono spesso ingannevoli, ma arrivo alla verità attraverso mille errori e mille capocciate, eppur ho ragione io a non giudicare con troppa fretta ma lasciar che la ma(ta)ssa si sbrogli.

 

Grazie, applauso. E ora mettete su una canzone di Elvis.

E mirate di occhi focali… possibilmente state sul focoso…

E ricordate, Poirot mangia il purè, e ama anche Il monello di Pierrot.

Ma Van Damme è belga come Hercule, no? Sì, per questo è Hercules. Ah ah.

 

 

di Stefano Falotico

 

 

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