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I finali dei film di Schrader sono imbarazzanti: First Reformed vs Taxi Driver


03 Dec

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Ieri, sull’onda emotiva delle mie sensazioni del momento, mi son lasciato assalire, estremamente fascinatone, dalla bellezza ieratica di First Reformed, assegnandogli quattro stellette piene.

E, in loop, mi son rivisto il finale una marea di volte.

Francesco Alò, critico comunque da prendere con le pinze, estremamente sensibile e attento, scrupolosamente indagatore in molti casi e invece spaventosamente superficiale, caciarone e popolano in altri, lo definì un finale semplicemente idiota. Imbarazzante, da far accapponare la pelle.

Paul Schrader è sempre stato questo. È un finissimo sceneggiatore e regista dalla poetica talmente limpida da divenire, spesso e volentieri, insopportabile. E, a mio avviso, a eccezione di Taxi Driver, ove aveva indovinato tutto alla perfezione, un amalgama esemplare e perlaceo di Cinema indiscutibilmente intoccabile, non sa scrivere i finali dei film né dirigerli. Diciamo che, negli ultimi venti-15 minuti dei suoi film, affretta sempre esageratamente gli ingredienti della sua mistura, si lascia fagocitare dall’ansia e sciattamente diviene un “cazzaro” insostenibile. E sovente distrugge tutto quello che di straordinariamente buono aveva, con delicatissima cura e mano chirurgica, orchestrato prima. E alla fine l’intero film frana sotto le iperboli eccessive di un finale, appunto, orrendo, agghiacciante.

Schrader, insomma, è il guastafeste di sé stesso. Che, con calma olimpica, spiritualità papale per un’ora e mezza mantiene una classe sesquipedale e poi si sputtana nel finale bestiale.

Molti anni fa, illuminato forse dalla grazia della virginea Madonna santissima, in un momento di celestiale ispirazione apodittica, oserei dire apocalittica, per come quest’ispirazione, totalmente spontanea, scaturì per miracolo dalla mia mente fenomenale, protesa a un nichilismo ancestrale, coniai istintivamente questa frase per sigillare il Cinema di Schrader: un Cinema poco turbolento ma che turba, soprattutto sé stesso.

 

L’intera filmografia di Schrader, tranne forse qualche titolo, soprattutto dei più recenti, è praticamente l’ennesima, riciclata, rianalizzata sotto altri punti di vista, variazione sul tema di Taxi Driver.

Storie di uomini afflitti dalla solitudine più mortificante, persi nei loro deliri solipsistici, ad attraversare, permettetemi quest’urbanistica metafora, la metropoli gigantesca e dedalica dei loro tormenti e demoni interiori, sconnessamente viaggiando nelle alterate, umorali traiettorie emozionali di decumane neuronali assai pericolose, a metà strada tra la follia, il genio profetico, l’essere messianici angeli sterminatori, pazzi alla Don Chisciotte, santi beatificati da un’acquiescenza ascetica talmente potente da costringerli a volte a gesti insensati, a catarsi di tutta un’immane sofferenza psichica così tanto soffocata da essere paradossalmente l’unica via di salvezza. Sì, una follia lucida e sana che degenera in comportamenti malati e nel pervertimento più allucinante.

I personaggi di Schrader sono, per alcuni aspetti, degli “idioti” dostoevskijani, barricati nelle anguste paranoie della loro personalissima, bella o brutta che sia, visione del mondo.

Anche il suo Gesù de L’ultima tentazione di Cristo è così. Gesù è in verità, io vi dico, l’idiota per eccellenza. Colui che, più di chiunque altro, ha sacrificato ogni piacere fisico e carnale, ogni divertimento frivolo a favore di un’irraggiungibile, impossibile, inattingibile missione di redenzione dell’umanità. Una missione utopistica, delirante, da onnipotente illuso che ha la presunzione e l’imbecillità di voler educare il prossimo al fine di ripristinare l’armonia nell’entropia, a pacificazione di ogni conflitto, bellico o psicologico, un redentore malato di superbia e smaniosa, incredibile ambizione da manicomio. Uno spocchioso mai visto.

Infatti, si suole dire, anzi è così, che se una persona si crede il messia, è schizofrenica. E la si sbatte in cura.

Nel film di Scorsese, scritto dal nostro Schrader, Gesù/Dafoe alla fine abdica alla figa. Ah ah. Sì, non voglio passare per uno squallido arrapato-arrapaho da Ciro Ippolito, ma The Last Tempation è questo.

Gesù, dopo una vita di auto-castrazione, crolla dinanzi al desiderio, al sogno proibito di fottersi Maddalena.

Scorsese però, da genio qual è, è stato elegantissimo e ha nobilitato tal caduta di tono, anche di tonaca, in una messa in scena mastodontica e sanguignamente pugnace.

Così come aveva fatto in Taxi Driver. Travis, dopo la sparata, è il caso di dirlo, e la strage-tragedia, rivede la bella bionda nel suo tassì. E lei è molto cordiale e premurosa, tant’è che gli domanda come stia. E lo guarda, ammirata e al contempo sconcertata. Ancora attratta da quell’uomo tanto sfuggente e indubbiamente strano… alla fine, lui la fa scendere e lei nuovamente aspetta che Travis le chieda semmai di uscire. Ma Travis, testardo poiché ama “orgasmizzarsi”, le risponde che non le deve niente e prosegue a immergersi nella notte più lugubre e inarrestabile. Abbandonato al suo destino irrecuperabile.

Schrader aveva già peccato, a proposito di Cinema peccaminoso in ogni senso, con Lo spacciatore, inserendo delle scenette dolciastre che deturpavano la profondità enigmatica della storia e la disperazione angosciosa, sofferta della vicenda.

E, in Al di là della vita, aveva ben fatto di peggio. Col finale pietistico ove Cage si posa sul grembo dell’Arquette, da bambino che vuole le coccole. Ed elemosina compassione, probabilmente mendicando anche una tenera scopata per alleviare le sue mai cicatrizzate ferite.

Fortunatamente, ancora una volta Scorsese fu molto pudico e lieve nel filmare questa scena. E il film non soccombette dinanzi a tal finale buttato lì. Svaccato, diciamo.

Come dire, anche Cristo ha bisogno talvolta di un seno burroso come quello di Patricia. Perché domani è un altro giorno e ci sarà da sudarsela…

Mah, è un finale che mi ha sempre lasciato perplesso e interdetto. Sì, credo che io sia interdetto da quando lo vidi.

Con First Reformed, però Schrader ci ha dato dentro senza vergogna in maniera imperdonabile e non gli basterà recitare il mea culpa, discolpandosi coi rosari. Davvero.

Ora, spoilerizzo.

Ethan Hawke forse vuole farsi esplodere perché ha compreso che il mondo fa schifo e tutto andrà in rovina. Prima di entrare nella cappella, ove salterà in aria, sbircia dalla finestra coloro che parteciperanno all’anniversario della chiesa riformata e scorge Amanda.

A quel punto, capisce che n’è innamorato alla follia e forse ha anche un’erezione. E dunque non può ammazzarla. Lei che ha fatto di male?

E grida scandalizzato, si “crocefigge” come Cristo. Poi, pensa di avvelenarsi. Ma, proprio mentre sta per bere il liquido tossico, Amanda gli appare e avviene l’imponderabile miracolistico.

Lui, come se avesse visto appunto la Vergine, le va incontro tutto eccitato. E la bacia con la lingua senza esitare un istante, avvolgendola col suo calore.

E il film finisce. Un finale che mi tormenterà per molto, molto tempo. Insomma, Schrader che voleva dire? Che la carne è debole e, prima o poi, tutti siamo pastori protestanti che finiamo di protestare, ci riconciliamo con le nostre dolcezze perdute, facciamo pace con noi stessi e, detta come va detta, pasturiamo?

A me pare una grossa banalità. Da lui non me l’aspettavo.

 

Per finire, invece, vi dico questa.

Ieri sera, ho parlato con una donna.

Le ho raccontato dei miei travagli e dei miei patimenti. Lei, molto accondiscendente, mi ha ascoltato come un prete. O meglio una suora.

Poi, dopo avermi compatito per mezz’ora, mi ha chiesto:

 

– Stefano, hai bisogno di affetto? Vieni a trovarmi stasera… sono sola e la notte è lunga.

 

 

Le ho risposto che è una zoccola.

Ecco, questo invece da me dovevate aspettarvelo.

Io non tradisco mai le aspettative. Nemmeno quando le donne vogliono tradire il marito.

E su questo finale vi lascio riflettere. Probabilmente, mi darete del coglione o mi farete santo.

Posso chiedervi, per cortesia, soltanto di non arrivare a conclusioni affrettate?

 

In fede, anche in malafede,

Stefano Falotico

 

P.S.: ma a questo Falotico ha dato di volta il cervello e si è fritto l’uccello?

No, la risposta è molto più evidente, sotto gli occhi di tutti. Quella donna, che mi chiese di andare a trovarla, si sa, è una racchia.

E le donne troppo belle non sanno che farsene dei cazzi miei. Hanno già i loro per la testa e anche in mezzo alle gambe.

Ho detto tutto…

Scambiatevi un segno di pace.

 

 

di Stefano Falotico

Attori rinati: Willem Dafoe, un vampiro cristologico


11 Sep

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Come volevasi dimostrare, Willem Dafoe ha trionfato come miglior attore alla 75.ima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia grazie alla sua stupenda interpretazione di Vincent van Gogh nel bellissimo, nuovo film del sempre fantasiosamente variopinto Julian Schnabel. Una Coppa Volpi meritata che, per l’ennesima volta, consacra uno degli attori più straordinari del panorama mondiale. Troppe volte sottovalutato, ingiustamente snobbato quando si parla di premi importanti. Un attore che, se andiamo a scandagliare la sua filmografia, ha lavorato con quasi tutti i più magnificenti registi viventi degli ultimi trent’anni, forse anche qualcosa in più.

Un attore però che, per via della sua faccia emblematicamente grandguignolesca, spigolosa, da nosferatu ghignante, è stato troppe volte imbracato nel ruolo stereotipato del villain, del cattivo senza remissione di colpa tagliato crudamente con l’accetta, oppure è stato soventemente declassato ad attore secondario o, addirittura, a comparsa di lusso, a caratterista utilizzato appunto soltanto per i suoi lineamenti luciferini, per la sua risata mefistofelica, a mo’ d’inquietante maschera perfino burlesca, caricaturale, orripilante da fantoccio mostruoso, da orrido e perfido diavoletto macabro e terribile.

Willem Dafoe è ed è sempre stato molto, molto di più che una macchietta. Un attore portentoso e versatilissimo, un istrione figlio del fregolismo più raffinato, anche un elegante gentleman dal birignao cauto e delicatissimo. Insomma, un pregiatissimo attore insostituibile.

 

William James “Willem” Dafoe è nato il 22 Luglio del 1966 in Wisconsin ma è stato naturalizzato italiano da qualche anno a questa parte per aver sposato la nostra Giada Colagrande.

Sappiamo poco, invero, della sua biografia, tranne che s’iscrisse all’università e frequentò con discreto successo alcuni importanti corsi di recitazione.

Esordisce subito, non accreditato, in una pellicola magnifica, il capolavoro maledetto di Michael Cimino, I cancelli del cielo, anche se la sua è un’apparizione davvero infinitesimale piccola.

Quindi, sopraggiungono The Loveless di Kathryn Bigelow e Miriam si sveglia a mezzanotte di Tony Scott.

Già grandi nomi, già film rilevanti. E fin dapprincipio Dafoe s’impone proprio per il suo volto particolarissimo.

Girando con Oliver Stone, Platoon (è lui che campeggia nel poster storico della pellicola, inginocchiato mentre nelle giungle vietnamite esplode l’inferno) e Nato il quattro luglio, con lo strepitoso Walter Hill per il suo rockettaro e coloratissimo Strade di fuoco, e con William Friedkin, incarnando il machiavellico Eric Masters in Vivere e morire a Los Angeles.

Ma è nel 1988 che trova uno dei primi ruoli, da protagonista assoluto, che da solo vale una filmografia. È infatti Gesù nel capolavoro-scandalo di Martin Scorsese, L’ultima tentazione di Cristo.  Con una manciata di titoli, Dafoe ha già stigmatizzato, oserei dire, e definito assolutamente la sua personalità attoriale. Un vampiro sofferente, un cristologico redentore soprattutto delle sue tormentate inquietudini interiori, racchiuse nella fisionomia di un’espressività facciale dalla spiccata, inconfondibile peculiarità, una faccia scheletrica e smunta, comunicatrice di emozioni contradditorie e vibranti, cesellate in un corpo asciutto e macilento, al contempo muscoloso e atletico. Da messia e diavolo, da caduto angelo viscerale.

E questo sarà paradossalmente il suo enorme pregio e il suo involontario limite. Da allora in poi, tantissimi registi lo sfrutteranno, al di là del suo ottimo talento, soltanto affidandogli personaggi adatti alla sua faccia. Schiacciandolo in una stereotipia performante in linea solo col suo viso satanicamente angelico.

Lavora con John Waters per Cry Baby, è Bobby Peru in Cuore selvaggio di Lynch, incrocia altri autori considerevolissimi come Wim Wenders (Così lontano così vicino) e diviene amicone di Paul Schrader (che aveva scritto, peraltro, The Last Temptation…), diventando quasi una presenza fissa e irrinunciabile di molti suoi film: Lo spacciatore, Affliction, Auto Focus, Adam Resurrected, Cane mangia cane…

Così come avviene anche per Lars von Trier (Manderlay, Antichrist, Nynphomaniac) e soprattutto con Abel Ferrara (New Rose Hotel, Go Go Tales, 4:44 L’ultimo giorno sulla Terra, Pasolini).

Be’, se stessimo a elencare tutti gl’immensi cineasti coi quali ha lavorato, anche come non protagonista, non finiremmo più. Ma fra i tantissimi va almeno doverosamente citato David Cronenberg col suo eXistenZ.

Quindi, più che attore rinato, Willem Dafoe, essendo stato sempre un interprete di pellicole d’alto livello, diciamo che forse, ed era ora, col suo van Gogh di At Eternity’s Gate, dopo tre nomination agli Oscar soltanto come best supporting actor (Platoon, L’ombra del vampiro, Un sogno chiamato Florida), potrebbe una volta per tutte essere come candidato come interprete principale ai prossimi Academy Award.

Se lo meriterebbe davvero.

Forza, Willem!

Stavolta sei vicinissimo a entrare nella cinquina dei nominati…

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di Stefano Falotico

 

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