“The Iceman” – Recensione

09 Sep

 

L'”asmatica” maschera del ghiaccio divampante

Richard Kuklinski, colosso impassibile, immutabilmente tetro come un film che danza acquatico in un’anima dallo spettro già morto, come un Babbo Natale irredento nelle funeree onde già stuprate d’una dolenza remota, walking mai ridente, polacco di “macigno” grezzo del Cuore, nascondiglio dai furtivi scatti, che giace dietro una morbida città dai peccati infausti, celati in una coltre “ovattata” di monocorde monotonia, nel sangue già terso di prigioni cimiteriali, di panchine “sdrucite” in uno slavato Sole arrugginito, ove a ruggire, proprio “scongelandosi, è forse la coscienza d’inter(n)e solitudini dimenticate da un Dio ceruleo nelle ceneri dei “vinti”.

Sprigionati rintocchi d’un dondolio vulcanico inacchetabile, inarrestata “litania” dal serpeggiarvi denso, allucinato, scomparso, “estraneo”, marmoree membra squagliate come lama autodistruttiva del suo dolore più “cutaneo” e piangente.

 

Kuklinski, martire, dalla pelle “a scaglie” dentro fluttuanti espressioni mortifere, ove anche il guizzo è un lampante istinto omicida, come il tunnel “cieco” che intravede gli spiragli di luci bianche a “innervar” iridi nerissime ma di cangianti umori pericolosi dal tortuoso incurvar i muscoli flebili di labbra “pittate” in un azzurro d’illagrimato rosso “squillante” nell’abissale discesa negli inferi delle pulsioni incontrollabili, quasi aldilà mistico che respira fra echi e “picchi” di sieste e paradisiaco illanguidimento di svenevolezza romantica per poi, implacabile, spietatamente sicario ad “agghindar” solo il dark d’un orrido fantasma, vicario forse delle “fantasie” pazze dei burattinai assassini in cui “trasmigra” da emissario satanico negli anfratti di fiamma “ossidrica” dal lancinante urlo che si “dimena” ammutolito proprio “digrignando” gli occhi di “vetro” nelle smorfie della vittima designata, “anonimo”, ignoto, fuggitivo incarnato in possenza muscolare dai tremolii glaciali nella vigoria “orca” d’istinti a domar solo gli spasmi della follia.

 

Boati e poesie come strade illuminate a sprazzi, incendiate dall’ice fulmineo di spari.

 

Kuklinski, incenerito fra vagabondanti illusioni, già spente, riaccese dal sorriso d’una famiglia, l’unico pentimento di cui si discolpa, nella “flemma” ieratica di commoventi dissolvenze, “fermoimmaginate” anche nell’imperdonabile confessione agli spettatori, terrificati, che (non) possono giudicarlo con “obiettività”.

La vita è un incrocio d’errori, errando sbagliamo, come Richard dichiara, esausto, finito, affranto solo per i suoi cari.

Fra il suo specchio che non ha paura del buio della condanna eterna, lapidaria, “divina”, un Cristo disegnato nei suoi zigomi di cuoio e nella titanica sua statura appassita come foglie solo sognanti di un autunnale “obitorio” per la sua stessa micidiale autopsia.

 

Sul banco degli imputati, a fissarci, a guardarsi (in noi) dentro, nel ventre visceral, “acustico” d’agonica “pioggia” nel viso, in una penombra che spaventa, distrutta come un flash magnifico che ha divelto le tutto.

 

Forse, “Richie” più che the iceman è il nothing (e “morphing“) crepuscolare della sua opalescenza nelle note, notti malinconiche d’uno Springsteen laconicamente “irrequieto” di sua chetezza “tramontante”, rabbia nel lacero incanto contemplativo su macerie incarnate, apparenza svanita in evasioni estemporanee, (de)frammentate del suo “non c’è” che vocifera “lucifereggiando”, lampeggia d’ardori che gli brucian dentro, schizzando nelle sue vene d’uno psichedelico inturgidirsi dalle acute, anche “rimpiante” fragilità che si scorporano da un Cuore suo tensivo, fantasmaticamente “cristallo” spezzato nel baluginar “morso” delle interiora, di martoriate stesse estasi che lubrifica e smalta nelle tempeste improvvise degli imponderabili turbinii.

Squartante, si ricoagula per ferire, ferirsi, feralmente mostruoso ancora nell’infinito dolore.

Grido spaventoso, distruzioni, reset che cancella e poi (s’)offusca. Arde, (s’)annienta. S’annerisce e s’illumina di nuovo, “ammodernato” negli abiti eleganti d’ una “personalità” dell'”alta finanza”.

 

La sua famiglia, pearl argentata della violenza, della sua umanità, profonda, che spacca le “mura domestiche” quando dichiara il suo straziante, struggente darling nel suo kiss “tatuatole” per sempre…

Perché ama ed è Uomo solo quando adorato dagli amplessi romantici nello Sguardo della moglie, nella creaturale innocenza dei figli, forse ad accudire e uccidere il sé che non ha mai coccolato.

 

Il cui unico abominio è stato averli traditi, averli fatti soffrire.

 

Michael Shannon, in un ruolo “cucito” nell’Oscar, una Winona Ryder dolcissima, ringiovanità in un’ancor più bella maturità, un Ray Liotta “riesumato” dal goodfella “fallito” d’una criminalità davvero triste, un cameo lugubre di James Franco, uno Stephen Dorff finalmente “brutto”, un Chris Evans che, del Capitan America, è solo lo spaventapasseri della sua “arietta” sbruffoncella da laido truffatore delle sue idiozie.

 

E, solitario, l’iceman si congeda, voltandosi da un’altra parte, aspettando il patibolo.

“Punitore” d’un Mondo sbagliato, “(as)sol(d)ato” alla deriva che ha trovato, nella sua traviata “ingenuità”, il capro espiatorio di tutta la merda.

 

La prima… di chi è senza Peccato…“.

 

 

(Stefano Falotico)

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