Posts Tagged ‘Recensione’

Nonno scatenato, recensione PressView


12 Apr

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Nonno scatenato, recensione da Cinefilos


11 Apr

Eccola qua e lo incensa, quasi, giustamente a mio modesto e dunque superbo avviso.

Con i miei dovuti aggiustamenti, leggasi correzioni alla punteggiatura, di rinomato/a errata corrige.

Se si pronuncia il nome di Robert De Niro e qualsiasi persona direbbe di sì anche senza sapere nulla del progetto: stiamo parlando dell’Attore con la A maiuscola, preso a esempio da tutte le ultime generazioni, con titoli imponenti e performance alle spalle che lo hanno reso l’icona che è oggi. Poi lo ritroviamo a 72 anni che molla un po’ la presa e decide di dedicarsi ad un cinema più leggero, dal facile incasso, dove non importa più di tanto la trama. O forse sì, ha semplicemente deciso lasciarsi andare, dopo 50 anni di scelte sagge.  Arriva così al cinema, grazie alla Eagle Pictures dal 13 Aprile, con la commedia Nonno Scatenato, in un duetto esilarante con Zac Efron, per la regia di Dan Mazer.

Jason Kelly (Zac Efron), giovane avvocato noioso e bacchettone, accetta di accompagnare il nonno Dick (Robert De Niro) in Florida come suo ultimo desiderio dopo la morte della nonna.  Sulla strada per Boca i due incontrano tre studenti diretti a Daytona Beach e da quel momento il vero Dick esce allo scoperto, deciso a concludere con la giovane Leonore (Aubrey Plaza). Jason scopre così un nonno sboccato e irriverente, che ci sa fare con le donne ma che non fa altro che cacciarlo nei guai. Tra i tre studenti c’è anche Shadia (Zoey Deutch), ex compagnia di liceo di Jason al corso di fotografia, una passione che lui ha dovuto mettere da parte, e ogni momento con lei diventa una boccata d’aria fresca dalla sua vita sotto il controllo della promessa sposa Meredith (Julianne Hough). Grazie al “nonno scatenato” il viaggio prenderà strade davvero inaspettate…

Questo film non verrà accolto a braccia aperte dalla critica (convinta di una caduta di stile di De Niro), ma c’è da ammettere che Nonno Scatenato è una commedia irriverente che fa ridere in più momenti, con diversi personaggi al limite dell’assurdo. Più volte si sconfina nel volgare, ma di certo non ci si potrebbe aspettare diversamente da un film che si sarebbe dovuto chiamare Nonno Zozzone, titolo più rappresentativo come l’originale Dirty Grandpa, per non parlare del fatto che la maggior parte delle battute sono affidate a De Niro e adattissime al suo personaggio sopra le righe.

Dan Mazer, dopo i Borat e Bruno con Sasha Baron Cohen, trasporta con giusto ritmo sullo schermo la storia scritta da John M. Phillips, inevitabilmente prevedibile in certe scelte ma inaspettata in altre. Zac Efron si conferma adattissimo alla commedia dopo il successo di Cattivi Vicini, tenendo testa a un De Niro a briglie sciolte e le fan saranno sicuramente accontentate visto che potranno apprezzare tutti i suoi lati, sia artistici che fisici! Infine pensando al personaggio di Leonore, nessuno ne sarebbe stato all’altezza tanto quanto Aubrey Plaza, un ruolo che sembra sia stato creato apposta per lei.

Flawless – Senza difetti | Joel Schumacher


20 Mar

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Joy, finalmente recensito da spietati.it


24 Feb

Recensioni di GIOIA.

Joy recensione glispietati

Jacknife – Recensione da SupergaCinema di Stefano Falotico


14 Feb

Jacknife Superga Cinema Falotico

Internazionale di che? Fofi Goffredo stronca Tarantino di The Hateful Eight


11 Feb

The Hateful Eight Tarantino

Joy recensione de Il Fatto Quotidiano


30 Jan

Questo è il FATTO!

Joy Il Fatto Quotidiano

 

Joy Davide TurriniSe c’è qualcuno, e qualcosa, che David O. Russell sa filmare è lo sguardo, le movenze, i tre quarti del corpo (dal primo piano al piano americano, non oltre), di Jennifer Lawrence. E se c’è un controcampo che gli riesce in subordine altrettanto bene è l’espressione catatonica, sorpresa, stupita di Bradley Cooper che osserva lei, e poi lei lui. Joy, infatti, sgomberato il campo dalle comparse, dai soggetti brulicanti sullo sfondo (Robert De Niro e Isabella Rossellini compresi), è questa linea direttrice che struttura il senso dell’intera opera. La self-made-woman (con fatica titanica) e l’affascinante mogul depositario del segreto del successo delle vendite televisive, l’ordinario che si sposa con lo straordinario, il cosiddetto sogno americano strabordante di citazioni sul cinema (il produttore di Via col Vento David O. Selznick che sposa Jennifer Jones) è la cifra filosofica tra il malinconico e l’ironico che Russell applica al caso di Joy Mangano, colei che nei primi anni novanta inventò il Miracle Mop, lo scopettone di plastica con lunghe spugne in cotone usabile senza doversi bagnare le mani per strizzarlo, e lo vendette sul canale QVC in solitaria vista l’ignoranza rispetto all’oggetto dei conduttori più esperti della rete tv.

La protagonista disegna, taglia, smartella, sgobba, lavora manualmente, sorbisce questo parentado invadente, sinistro e simpatico, sempre con il visino pulito della Lawrence, idealizzato nella sua dolce testardaggine, mai agiografico rispetto alla mitologia dell’uomo, pardon donna, qualunque che dall’anonimato si fa grande imprenditrice, anzi. David O. Russell inventa un espediente scenografico, o forse lo recupera da qualche racconto sugli studi tv dell’epoca, anche se oggi ci sono boss delle tv locali che lo spacciano come invenzione loro, che è quello del palco girevole circolare, magari suddiviso in due, tre o quattro set, sliding door pronto per roteare lentamente e mettere in scena un nuovo capitolo della quotidianità in cui si concretizza, grazie al proprio ingegno e alla propria determinazione, il successo personale ed economico.

Dall’altro lato, l’umanità che non reagisce che non osa che non ci prova mai, la generazione più anzianotta che dalla tv è rimasto infatuato dalla sua ipnotica e vacua finzione, la madre di Joy, anestetizzata dalle serie modello Falcon Crest, che rischia di diventare ascissa ed ordinata esistenziale anche per Joy. David O. Russell può così modellare la sua Giovanna d’Arco, vituperata e lesa nell’intimo, fregata e presa in giro dal prossimo, amata ma tanto sfiduciata dalla pletora di ex mariti, sorelle, genitori e nonne che le gravitano attorno, in un ritratto al femminile che rinuncia alla beatitudine astratta della purezza dell’anima, ma che a quella stessa purezza etica si rifà in chiave più materiale come fuga da un destino passivo e conformista. Un futuro conquistato con i denti e con la foga, da una donna, in un mondo di squali maschi. Nella splendida sequenza in cui Joy, dall’altra parte della barricata, modificata la sua classe socio-economica d’appartenenza, dà l’ok alla fanciulla con marito e neonato venuta a New York fin dal Sud per mostrarle il prototipo della spazzola pulisci vestiti da viaggio (quella rossa e bianca che abbiamo avuto tutti in casa o valigia), ecco che il disegno circolare del film si compie.

A differenza dell’ipertrofico, spaccone e dispersivo racconto di American Hustle, lo script di Russell ritrova la compattezza omogenea de Il lato positivo. La regia è dinamica, esplorativa, prossima ai corpi in scena, con la cinecamera in adorazione mai voyeuristica della Lawrence (bellissima donna di cui non vediamo mai dettagli fisici ma ne intuiamo il fascino proprio come un film anni cinquanta), e in sala montaggio si lavora di forbici per tagliare e ricomporre materiale tra una sequenza e l’altra in modo che il discorso non si perda mai in momenti di vuoto o noia. Infine come non amare questa miscela di brani che accompagnano simbioticamente la protagonista: The sidewinder del trombettista Lee Morgan, l’Elvis di A little less conversation, il tema di Vertigo di Bernard Herrmann, come i brani della serie tv di The good wife. Qui Russell ritrova la dimensione del patchwork senza capo né coda che l’ha caratterizzato fino ad oggi: passato e presente della visione (americana) tra cinema e tv, omaggio sensoriale ma mai citazione, impressione epidermica e mai devozione autoriale. Joy è un film che fila che è un piacere.

The Hateful Eight – Mereghetti e il suo Corriere stroncano Tarantino, delusione!


29 Jan

Ma che passa per la testa a Il Corriere?

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Un western interminabile, lungo tre ore, in cui il regista americano concentra tutti i suoi vezzi: un catalogo delle sue ossessioni e manie, alla fine senza una vera ragione

di Paolo Mereghetti

No, The Hateful Eight non è un «grande» Tarantino, nonostante l’Ultra Panavision 70 (millimetri) e una durata che supera le tre ore. È un film molto «tarantiniano», dove ci sono tutti i suoi vezzi e le sue specificità, ma diversamente da altri suoi titoli quelle caratteristiche qui sono sprovviste di una qualche necessità e smascherano un vuoto (d’ispirazione?) che il gigantismo della produzione e dello schermo finisce per rendere letale.

Grazie a una simpatica e contagiosa invadenza, e a una conoscenza mirabolante del cinema di serie B, il regista ha saputo conquistare un posto di primo piano dentro un cinema che sembrava aver perso ogni bussola e che preferiva sottolineare i propri limiti invece che cercare di superarli. La citazione, il «plagio» sistematico non era più il debito che il cinema di oggi aveva con quello di ieri ma solo la confessione di una serie di guilty pleasure, l’elenco potenzialmente interminabile dei propri giochini preferiti. Con tre inevitabili conseguenze: a livello di «contenuto», la perdita di un qualche sguardo unificante (non si dice morale) capace di mettere in fila i diversi gradi di interpretazione e di senso; a livello di «forma», una centralità sempre maggiore data (o meglio: lasciata) ai dialoghi, gli unici capaci con qualche salto mortale di dare un ordine alle scene, che non rispondono più a una vera logica narrativa ma solo al proprio gusto della citazione o della sorpresa. E a livello di regia, il dover ogni volta accentuare la forza delle singole immagini per accecare lo spettatore e stordire la sua voglia di razionalità e di gusto.

Se questo modo di procedere era abbastanza evidente in Kill Bill e in Grindhousee meno in Bastardi senza gloria e Django Unchained, è perché la struttura di genere — il film di guerra e quello storico — aveva imposto a Tarantino dei «limiti» che in quest’ultimo western non ha voluto più rispettare. Troppo preoccupato (forse) di voler rimescolare le carte di un genere di cui ha sempre preferito gli epigoni «revisionisti», italiani in particolare, e troppo compiaciuto (sicuramente) della propria scrittura e del proprio gusto per le immagini iperrealiste, The Hateful Height è diventato un catalogo delle proprie manie e ossessioni, ma ha perso la forza che l’autentica messa in scena è capace di trasmettere alla macchina-cinema.

Una «perdita di senso» in cui non è estranea la scelta di girare (in pellicola) nel formato Ultra Panavision, quello che impone all’immagine una base di 2.76 volte più lunga dell’altezza. Il formato di Ben-Hur, di Gli ammutinati del Bounty e La battaglia dei giganti, film che hanno fatto delle riprese in esterno la loro carta vincente. In The Hateful Height invece Tarantino sfrutta molto poco l’immensità degli spazi del Wyoming per imprigionare i suoi protagonisti prima in una diligenza e poi in un emporio. La pellicola 70 mm (in Italia visibile solo in due locali, a Melzo e Bologna) restituisce una straordinaria profondità all’inquadratura ma quando serve solo per mostrare un occhio tumefatto, un paio di baffi molto folti o una chiostra di denti ultra bianchi, ti chiedi se non sei davanti a una montagna che ha partorito solo un topolino.

E così la storia di un cacciatore di taglie (Russell) che viaggia con la donna che deve consegnare alla giustizia (Jennifer Jason Leigh) e che durante una tempesta di neve accetta di dare un passaggio sulla propria diligenza a un altro bounty killer (Samuel L. Jackson) e a un sedicente sceriffo (Walton Goggins) ma poi è costretto a cercare riparo per la tormenta in un emporio dove lo attendono quattro persone — un ex generale sudista (Bruce Dern), un messicano (Demian Bichir), un boia (Tim Roth) e un misterioso cowboy (Michael Madsen) — diventa una versione verbosa e splatter dei Dieci piccoli indiani di Agatha Christie: chi non è quello che dichiara di essere e vuole solo impedire che la donna finisca sulla forca?

Per saperlo dovremo sorbirci tre ore di interminabili dialoghi, compiaciuti e francamente poco divertenti, dove l’unica cosa che interessa a Tarantino sembra la distruzione di ogni possibile mitologia, western o nordamericana fa poca differenza (ne fa le spese anche Abramo Lincoln). Ma senza un vero perché. E soprattutto senza un vero interesse.

Joy, recensione da FareFilm


28 Jan

Hanno ragione loro!Joy FareFilm

Cinematographe, a differenza di molti criticuzzi-(im)piegati, plaude Joy, e io, con gioia, la copio-incollo e forse con la Lawrence copulo


27 Jan

Cinematographe che dice? Dice il vero.

Joy, ultima fatica registica di David O. Russell, è una favola moderna alla quale si sovrappone con decoro e maestria la lastra decadente e antropologicamente rappresentativa della soap opera. La pellicola in bianco e nero trasmessa attraverso lo schermo di un vecchio televisore bacia ripetutamente i colori sgargianti del film, creando un parallelismo inizialmente confuso e inquietante, che mette al centro la natura e la volontà delle donne, anche se fosse più opportuno dire della donna, l’unica diva attorno alla quale ruota la pellicola: Jennifer Lawrence, perfettamente calatasi nei panni di una donna matura, indubbiamente sfigata ma fortemente intenzionata a ribaltare la sua vita.

Come in American Hustle e Il lato positivo, anche in Joy Russell fa dei rapporti famigliari il perno centrale attorno al quale si srotola l’azione. Un mucchio di parenti stravaganti che convive ad alternanza sotto lo stesso tetto, scambiandosi cattiverie, frustrazioni e gioie; una famiglia allargata, in cui la confusione regna sovrana per riversarsi esclusivamente sulle spalle della protagonista.

Joy: la Cenerentola contemporanea alla quale non serve un principe, ma un mocio che si strizza da solo!

La vita di Joy viene raccontata dall’amorevole voce della nonna Mimi (Diane Ladd), la quale ci spiega con parole semplici ma efficaci l’excursus della nipote che, proprio come una Cenerentola contemporanea, ha una sorellastra (Peggy, interpretata da Elisabeth Röhm) che non fa altro che metterle i bastoni tra le ruote, una madre che passa il tempo appollaiata sul letto a vedere la tv e un padre amorevole quanto egoista, Rudy, interpretato da un fantastico Robert De Niro, che in questa pellicola veste appieno i panni dello sciupa femmine.
Nei ricordi sbiaditi quanto martellanti dell’infanzia Peggy sogna un uomo, mentre Joy sogna di inventare, di affermarsi nel mondo esclusivamente con la bellezza del suo ingegno. Ce la farà?

Si innescano frettolosamente i rami arcuati della drammaticità e dell’infelicità, quella che attraversa la vita di chiunque, ma che in questa pellicola permea con complicazione l’intera trama: ogni scelta diventa difficile e asfissiante, ogni tentativo di emergere sembra inutile, soprattutto se i tuoi cari si appendono all’orlo della gonna come pesi di piombo per evitarti di spiccare il volo.
Ma Joy è un osso duro, chiede senza esitazione, si fa strada in un mondo fatto di uomini – sintetizzati tutti nel volto di Bradley Cooper alias Neil Walker – per lanciare sul mercato la sua invenzione: il Miracle Mop, ossia il mocio.
E non sarà per niente facile convincere Trudy (Isabella Rossellini), la nuova compagna del padre, a investire sul suo progetto, a convincere chi le sta accanto che può farcela. Ma gli unici che la sostengono sono l’ex marito e la sua migliore amica. Suvvia, siamo davvero sicuri che una donna riesca nell’impresa? Tolti i fronzoli della commedia a tratti drammatica Joy Mangano, la casalinga newyorkese laureata in economia aziendale col pallino per le invenzioni (alla quale è ispirato il film), ce l’ha fatta davvero e dopo il mocio ha inventato tante altre cose, come “le stampelle ricoperte di velluto per armadi più ordinati”; ha lanciato un nuovo modo di imporsi sul mercato, un modo più autentico, più diretto e ha cambiato il suo destino.

La personalità della protagonista si staglia sullo schermo luminoso del cinema grazie a quello stesso contesto che vorrebbe tenerla con i piedi per terra. Niente campo e controcampo allora, ma inquadrature in cui tutti i personaggi si ritrovano affollati insieme, costretti a comunicare e a scontrarsi; ognuno con la propria bolla fragile di egoismo, pronta a frantumarsi e a ferire chi sta intorno, liberando l’odore accattivante ma per certi versi malsano di una sceneggiatura che sta in piedi più per i suoi attori che per la volontà di raccontare una storia.

Esattamente come in una soap opera – che appare al momento giusto a scandire la sceneggiatura, trasferendosi dalla tv al nostro schermo cinematografico –  David O. Russell crea delle caricature della realtà, ogni personaggio vive in un mondo a sè; è rafforzato dai dettagli del suo carattere, dall’autorevolezza della voce, dei gesti e dalla confusione che tutt’intorno riesce a creare; è stimolato da una macchina da presa capace di compiere movimenti impeccabili e inquadrature artistiche teatrali, provviste di colori pastello che tanto ci fanno ricordare certe opere di Jack Vettriano, certo assopite da quell’eros che in quei casi ci sconvolge, sostituito però dalla luminosità caotica di Guttuso.
Private comunque della scia immortale concessa all’arte, le immagini di Joy vivono solo nell’attimo in cui le vediamo, poi spariscono travolte dagli eventi e di esse rimane l’alone di Jennifer Lawrence, Robert De Niro, Bradley Cooper, Edgar Ramirez, Isabella Rossellini, Diane Ladd e Virginia Madsen.

Ancora una volta Russell ci sorprende con una pellicola che sa tenere incollati alla sedia, sa far commuovere, soffrire e attivare l’invincibilità affascinante del “volere è potere”. Una pellicola che in parte delude per la ridondanza delle argomentazioni e che si poggia esclusivamente sulla prestanza recitativa della Lawrence, ma che non può non piacere, non farci rendere conto di quanto sia reale e assurdamente teatrale quello che vediamo al cinema: la famiglia dipinta come un’ancora, un filo al quale siamo indissolubilmente legati, che non abbiamo scelto ma ci appartiene, nella buona e nella cattiva sorte.

La colonna sonora provvede a ricamare il resto di questa storia tutta al femminile, che i fan della Lawrence non potranno non apprezzare, mentre quelli di Russell forse rimarranno delusi.

Genius-Pop

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