Posts Tagged ‘Valentina Vargas’

La morte di Luke Perry, Il nome della rosa con John Turturro e il mio carisma imbattibile da Sean Connery


05 Mar

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Siete rimasti tutti stupefatti e pietrificati dalla morte di Luke Perry, bello per antonomasia delle vostre fantasie pre-adolescenziali.

Quando voi, ragazzine con la fighella sulla rampa di lancio, trepidavate sia per Luke che per quell’altro viso spigoloso di Ronn Moss di Beautiful.

Poi sarebbe venuto il peggio. Crisi anoressiche, competizioni, semmai un fidanzatino che amava le gambe della tennista Monica Seles e, pensando al momento della limonata schifosa con tanto di foglie d’insalata fra i denti del suo sboccato ritardato e della sua sciocca da Fool’s Garden-Lemon Tree, perdevate ogni faith no more, amando Tarantino solo perché di Tarantino avevate capito soltanto la volgarità “cool”, ché fa tanto trasgressione da quattro soldi.

E, ascoltando quella povera pazza “istruita” di vostra madre, vi siete laureati/e alla facoltà istituita da quel trombone di Umberto Eco. Arrivando, col pezzo di carta, a voler fare il bello e il cattivo tempo su tutti.

Ma, improvvisamente, nel bel mezzo del cammino di vostra arroganza, il cielo vi ha flagellato con un “ictus” o qualche altra malattia debilitante.

E tutte le vostre certezze sono andate in frantumi in un nanosecondo. Tutta quella boria, quell’alterigia stronza, ops, è stata vanificata, distrutta da una botta, ho detto cazzo che botta…

E invece, ogni giorno che passa, io divento sempre più bello, più veloce, più grande come il leggendario, saggio Sean Connery.

Perché mai mettersi contro uno così.

E la bellezza non si può rovinare con le porcate, le invidie e le scemenze delle fattucchiere frustrate e frigide.

Ieri è morto anche Keith Flint, cantante dei Prodigy…

Cara la mia deficiente saputella, rimetti su, nei momenti di forte lutto, Smack My Bitch Up.

E non ci pensare. Su.

E questa è cultura! Anche una tua fregatura! Lo so, ora è molto dura.

Devastante!

Si chiama presa per il culo alla demente schizofrenica gelosona di merda. Oh, carissima, se ti senti gravemente depressa, all’assistenza sociale ti daranno un sostegno e qualche pillolina.

Ahuahuaha! Eh già. Coi criminali bisogna essere più stronzi di loro.

Sì, detto ciò, gli eventi occorsi ancor m’inquietano quando, all’alba, alle prime intonazioni del gallo e al suono angelico delle campane che odo provenire dalla limitrofa mia parrocchia San Martino, mi sveglio e la vita m’accorgo ch’è sempre un perenne combattimento, un travaglio perpetuo, un’infinita ricerca del vero e del Verbo. In tale società d’intrighi di corte e di sotterfugi biechi ove, se hai l’ardire e l’illuminazione, di scoprire le atroci verità nascoste degli ipocriti, ti fan passare per malato di mente, adducendoti psicopatologie figlie solamente dell’ignoranza più oscurantistica e bugiarda. E semmai, nonostante mille, superflue, evitabilissime indagini lerce alla tua anima, qualcuno, dinanzi alla verità tanto così cristallinamente rivelatasi, possiede ancora la malvagità, figlia delle sue mai curate ansie e cattive usanze, di dirti che soffri di manie di complotto quando, invero, è stato tutto soltanto un maligno, esecrabile e realmente ordito imbroglio per farti credere d’esser storpio e orbo, un grottesco, interminabile fraintendimento dettato dalla più lestofante superbia e dalla più sciocca, medioevalistica, arbitraria superficialità vanesia e vana.

Io perdono ogni strega che nelle persone superiori han voluto maliziosamente vederci qualcosa di sbagliato e non uniforme alla porcellesca gioventù ribalda fatta e sfatta di frivolezza marcia e non invece balda giovinezza non solo sana ma forse anche santa.

Sono triste e addolorato per quanto è successo, e piango ogni giorno l’idiozia di tale miserabile assurdità.

E le tragedie accadute.

Ora, a vossignoria, a voi dell’Inquisizione e a ogni altro bastardo mentitore, così come io confessai i miei sbagli, inauditi e ammetto giganteschi, chiedo altrettanto di riflettere sull’imbecillità della vostra fallacità e riconoscere, purtroppo, che avevo ragione io.

Adesso, con estrema clemenza, concedo per l’ennesima volta il perdono e spero finalmente di poter vivere libero, vivaddio, come ogni uomo dovrebbe, senza più perquisizioni, deportazioni e altre amene mostruosità idiote.

La mia e la vostra è stata una reciproca, importantissima lezione di vita indimenticabile.

E, nel procedere dei miei dì sin al giorno della mia fatale morte, serberò nell’anima mia eternamente la perfidia animosa del vostro distorto affronto, benedicendo le mie colpe e anche le vostre fino alla pace e alla giustizia infinita del Giudizio Universale.

 

Firmato

Gugliemo da Baskerville,

cioè il Genius.

E sul fatto che sia un Genius credo che non ci sia oramai più il benché minimo dubbio.
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Firmato

Gugliemo da Baskerville

Città marine, il prete & il Diavolo, le prime (s)volte “rosette”


25 Mar

Instradiamoci, non intestarditevi…

Alla riscoperta di un capolavoro perduto

Le “accigliate” increspature della nostalgia del Tempo in un noir dove le emozioni hanno il profumo nervico del mare

Nel 2002 debuttò nelle sale americane City by the Sea, capodopera di Michael Caton-Jones, da noi uscito l’anno dopo e ribattezzato “convenzionalmente”, in linea col “principio” tramico da cui si tesserà la vicenda, Colpevole d’omicidio.
Interpreti principali Bob De Niro (Vincent LaMarca), Frances McDormand (Michelle), e James Franco (Joey). Prove di alta densità recitativa, di sofferto tormento, la pacatezza crepuscolare di un De Niro superbo nel suo minimalismo “manierato”, avvolto nello “scialle” delle sue emozioni, una McDormand sensibile e pudica nella sua timida anima, e un sorprendente James Franco ancora una volta “rebel“, un outsider lungo strade bagnate di fango dove divampa l’inquietudine ermetica di un’adolescenza appena assopita lì lì per destarsi in un armonioso velo che si squarcia. Il velo della vita. Tutti, quasi, dormienti fantasmi delle loro storie, di modulati cuori che s’infiammeranno nella nudità di esistenze ancora in viaggio.
Tratto da un articolo comparso su “Esquire” di Mike McAlary dal titolo “Mark of a Murderer”, e scritto da Ken Hixon, il film s’avvale del notevole contributo della fotografia notturna di Karl Walter Lindenlaub, quasi danzante con Lune che accudiscono le acque del fiume Hudson e dell’Oceano, fra una Brooklyn che non ovatta i suoi dolori e i borghi fatiscenti di un’Asbury Park quasi più laconicamente malinconica delle ballate amare di Springsteen.
Un film che non assomiglia a nessun altro, un tuffo “liquorico” nello spettro autunnale del buio che giace mormorante in acuti lampi di Luce, quasi una sbronza alcolica che annebbia la vista iniettandola di quel bagliore chiaroscurale che vi guairà “glaciale”.

Vidi Colpevole d’omicidio in una sera in cui s’abbozzò quel nitore vivido che di lì a poco mi avrebbe come ridestato da un tramonto personale, un’anima rinnovata che ritrovò, dietro quei volti sofferenti, una cheta riacquescenza di un vitalismo sfrenato, quasi lisergico, che si seppellì.
Ho sempre, fin dalla prima visione e in quelle successive, ritenuto il film di Caton-Jones un capolavoro, nonostante i critici miopi dell’epoca, ingannati dalla pessima distribuzione italiana, mi smentivano coi loro giudizi eufemisticamente freddini.
Oggi, “scartapellando” nel magico Net, pesco una recensione d’affissione che combacia in tutto e per tutto a quel che penso io del film, apparsa sulla rivista online affiliata a “FilmTv”, “Sentieri selvaggi”. Ne è autore Francesco Ruggeri.

“Colpevole d’omicidio”, di Micheal Caton-Jones Caton-Jones arranca nelle retrovie nostalgiche del tempo e si sbilancia interamente nel filmare le tessiture nervose di rapporto mancati e proprio per questi saltellanti da un estremo all’altro del racconto, sempre lacunosi e mirabilmente sospesi. Tira un’irresistibile aria decadente in quest’ultima meravigliosa opera di Caton-Jones. E’ un fatto di spazi, di luoghi non più abitati, di umanità in dissolvenza abitate da umori descrittivi che ce le restituiscono vive per un’ultima, dolorosa volta, come se il cinema potesse davvero trattenere in qualche modo la vita. Si tratta di rappresentare il crocicchio che divide l’immagine di oggi da quella di ieri, provando a dare un’occhiata all’intersezione passato/presente, come Caton-Jones fa nelle prime sequenze in cui ridà letteralmente vita alla sfarfallio luminescente di una Long Beach immersa in un passato non meglio precisato. Appunto perché solo immaginato forse, visto che subito dopo il teatro degli eventi assume la fisionomia funesta di un luogo squallido, disabitato, fatiscente (eppure sempre di Long Beach si tratta). Si gioca con il passato dunque, per tornare al presente quando però quest’ultimo ci appare come meno preciso, non ben definito, diciamo pure sfocato. Vincent LaMarca vive il presente per praticare il passato, è un poliziotto con un matrimonio fallito alle spalle, e un figlio ventenne che non vede da anni. Il giovane è un drogato, ha un figlio con una giovane cameriera, ma l’assenza del padre nel corso degli anni si è fatta sentire. Viene implicato in un omicidio (uccide nelle prime sequenze un malvivente non bene intenzionato), per poi essere ricercato dalla polizia per un’uccisione di cui però stavolta non ha colpa. Intanto però rivede il padre che si sta peraltro occupando proprio del caso che lo vede coinvolto in prima persona. Ma non è questo ciò che conta. A Caton-Jones non interessa troppo sciogliere i nodi del pettine (si tratta peraltro di un plot ispirato ad un articolo di un certo McAlary), ma di lavorare di cesello sui corpi dei protagonisti (quello vagante e malfermo per la troppa droga assunta del ragazzo, quello deciso fino ad un certo punto e poi oscillante del protagonista, ma anche quello materno e risoluto della brava McDormand), racchiudendo nelle loro esitazioni al movimento lo spirito nascosto di tutta l’opera. Quando un certo Cinema ti entra dentro e ti sconvolge, il rispecchiamento dell’essenza in un puntino di luce qualsiasi (e quanta luce drogata / malata / sognata c’è nelle prime sequenze, quasi a fare da contraltare all’oscurità a-programmatica del seguito) provoca emozione ed estasi dello sguardo, quasi a voler cancellare di colpo il germe dell’identificazione e recitare senza più soggetto, in preda ad affettuose convulsioni del cuore. Subito dopo la prima mezz’ora Caton-Jones inizia a perdersi per strada la storia, arranca nelle retrovie nostalgiche del tempo (il rapporto impossibile vissuto col ritmo del salto temporale tra Vincent e il padre giustiziato tanti anni prima sulla sedia elettrica per aver causato senza volerlo la morte di un bambino, comunicazione scandita dal corpo stanco del protagonista che riguarda su un logoro divano le foto di quand’era bambino) e si sbilancia interamente nel filmare le tessiture nervose di rapporto mancati (straordinaria in questo senso la sequenza in cui De Niro / Vincent va a prendere al lavoro la McDormand, trasparenza / previsione fantasmatica della notte scorsesiana di Taxi Driver) e proprio per questi saltellanti da un estremo all’altro del racconto, sempre lacunosi e volutamente sospesi. Ma ancor di più in fondo punteggiati da insostenibili / sublimi in­serti melò che mandano all’aria ogni raccordo (basti pensare a che tipo di chiusura narrativa si va incontro) per fissarsi sul campo/  controcampo finale tra padre e figlio assediati dalle forze di polizia locali, direttamente immersi nell’inferno agghiacciante del confronto. Padre e figlio, dunque (De Niro è da manuale di recitazione come il suo solito e qui, se possibile, anche di più, James Franco è una promessa su cui puntiamo senza problemi), due perfetti estranei che la vita ha già messo al tappeto, eppure ancora capaci di lottare, di schierarsi. Di piangere. Caton-Jones spinge il suo Cinema alle estreme conseguenze e infuoca in un diluvio di spontaneità raggiante e spudorata quei misteriosi vuoti lasciati come solchi nelle nostre vite, lasciandoci in balia di uno sguardo gettato al di là del mare (il City by the sea del titolo originale, nonché l’ultima immagine). Lambito da tracce d’esistenza che ci appartengono per intero.

Titolo originale: City By the Sea
Regia: Micheal Caton-Jones
Soggetto: Micheal McAlary, tratto dall’articolo di Micheal McAlary “Mark of a murderer”
Sceneggiatura: Ken Hixon
Fotografia: Karl Walter Lindenlaub
Montaggio: Jim Clark
Musiche: John Murphy
Scenografia: Jane Musky
Costumi: Richard Owings
Interpreti: Robert De Niro (Detective Vincent Lamarca), James Franco (Joey Lamarca), Eliza Dushku (Gina), Frances McDormand (Michelle), William Forsythe (“Spider”), Drena De Niro (Vanessa Hansen), George Dzundza (Reginald Duffy), Patty Lupone (Maggie)
Produzione: Brad Grey Pictures-Franchise Pictures-Sea Breeze Productions Inc.
Distruzione: Eagle Pictures
Durata: 108′
Origine: Usa, 2003

Articolo del 25/03/2003 di Francesco Ruggeri

Un modo in più, per me che lo evoco spesso nei miei scritti, e per tutti coloro che l’hanno visto distrattamente, o per coloro che non l’hanno ancora visto, di riscoprire un’autentica perla.
Un capolavoro che sa essere anche melò.

 

 

No, non salvarmi…

 

 

Quivi ristetti, ansimante. Dalle vetrate penetrava la luce della luna, in quella notte luminosissima, e quasi non avevo più bisogno del lume, indispensabile invece per celle e cunicoli della biblioteca. Tuttavia lo mantenni acceso, quasi a cercar conforto. Ma ancora ansimavo, e pensai che avrei dovuto bere dell’acqua, per calmare la tensione. Poiché la cucina era vicina, attraversai il refettorio e aprii lentamente una delle porte che dava nella seconda metà del piano terra dell’Edificio.
E a questo punto il mio terrore, anziché diminuire, aumentò. Perché mi avvidi subito che qualcuno stava nella cucina, presso al forno del pane: o almeno mi avvidi che in quell’angolo brillava un lume, e pieno di spavento spensi il mio. Spaventato com’ero, incutei spavento, e infatti l’altro (o gli altri) spensero rapidamente il loro. Ma invano, perché la luce della notte illuminava abbastanza la cucina per disegnare davanti a me, sul pavimento, una o più ombre confuse.
Io, raggelato, non ardivo più retrocedere, né avanzare. Udii un ciangottio e mi parve di udire, sommessa, una voce di donna. Poi dal gruppo informe che si disegnava oscuramente presso al forno, un’ombra scura e tozza si distaccò, e fuggì verso la porta esterna, che evidentemente era socchiusa, richiudendola dietro di sé.
Rimasi io, sul limine tra refettorio e cucina, e un qualcosa di impreciso presso al forno. Qualcosa di impreciso e – come dire? – mugolante. Proveniva infatti dall’ombra un gemito, quasi un pianto sommesso, un singhiozzo ritmico, di paura.
Nulla infonde più coraggio al pauroso della paura altrui: ma non mi mossi verso l’ombra spinto da coraggio. Piuttosto, direi, spinto da una ebbrezza non dissimile da quella che mi aveva colto quando avevo avuto le visioni. C’era nella cucina qualcosa di affine ai suffumigi che mi avevano sorpreso nella biblioteca, il giorno prima. O forse non si trattava delle stesse sostanze, ma ai miei sensi sovraeccitati esse fecero lo stesso effetto. Avvertivo un afrore di traganta, allume e tartaro, che i cuochi usavano per aromatizzare il vino. O forse, come appresi dopo, si stava in quei giorni preparando la birra (che in quella plaga a nord della penisola era tenuta in un certo pregio) e la si produceva secondo la moda del mio paese, con erica, mirto di palude e rosmarino di stagno selvatico. Aromi tutti che, più che le mie nari, inebriarono la mia mente.
E mentre il mio istinto razionale era di gridare “vade retro!” e allontanarmi dalla cosa gemente che certamente era un succubo evocatomi dal maligno, qualcosa nella mia vis appetitiva mi spinse in avanti, come volessi esser partecipe di un portento.
Così mi feci dappresso all’ombra, sino a che, alla luce della notte, che cadeva dai finestroni, mi avvidi che era una donna, tremante, che serrava al petto con una mano un involto, e che si ritraeva piangendo verso la bocca del forno.
Dio, la Beata Vergine e tutti i santi del Paradiso mi assistano ora nel dire cosa mi accadde. Il pudore, la dignità del mio stato (ormai vecchio monaco in questo bel monastero di Melk, luogo di pace e serena meditazione) mi consiglierebbero piissime cautele. Dovrei dire semplicemente che qualcosa di male avvenne ma che non è onesto ripetere cosa fu, e non turberei né me stesso né il mio lettore.
Ma mi sono ripromesso di raccontare, su quei fatti lontani, tutta la verità, e la verità è indivisa, brilla della sua stessa perspicuità, e non consente di essere dimidiata dai nostri interessi e dalla nostra vergogna. Il problema è piuttosto di dire cosa avvenne non come ora lo vedo e lo ricordo (anche se ancora ricordo tutto con impietosa vivacità, né so se sia il pentimento che ne è seguito a fissare in modo così vivido casi e pensieri nella mia memoria, o l’insufficienza di quello stesso pentimento che ancora mi tormenta dando vita nella mia mente addolorata a ogni minima sfumatura della mia vergogna), ma come lo vidi e lo sentii allora. E posso farlo, con fedeltà di cronista, perché se chiudo gli occhi posso ripetere tutto quanto non solo feci ma pensai in quegli istanti, come se copiassi una pergamena scritta allora. Devo quindi procedere in tal modo, e san Michele Arcangelo mi protegga: perché a edificazione dei lettori venturi e a flagellazione della mia colpa voglio ora raccontare come un giovane possa incappare nelle trame del demonio, sì che esse possano essere note ed evidenti, e chi ancora vi incappi possa sconfiggerle.
Era dunque una donna. Che dico, una fanciulla. Avendo avuto sino ad allora (e da allora in poi, siano rese grazie a Dio) poca dimestichezza con gli esseri di quel sesso, non so dire che età potesse aver avuto. So che era giovane, quasi adolescente, forse aveva sedici, o diciotto primavere, o forse venti, e fui colpito dall’impressione di umana realtà che promanava da quella figura. Non era una visione, e mi parve in ogni caso valde bona. Forse perché tremava come un uccellino d’inverno, e piangeva, e aveva paura di me.
Così, pensando che il dovere di ogni buon cristiano sia di soccorrere il proprio prossimo, mi appressai a essa con gran dolcezza e in buon latino le dissi che non doveva temere perché ero un amico, in ogni caso non un nemico, certamente non il nemico come essa forse formidinava.
Forse per la mansuetudine che spirava dal mio sguardo, la creatura si calmò e mi si avvicinò. Avvertii che non capiva il mio latino e d’istinto mi rivolsi a lei nel mio volgare tedesco, e questo la spaventò moltissimo, non so se a causa dei suoni aspri, inusitati per le genti di quella plaga, o perché questi suoni le ricordassero qualche altra esperienza con soldati delle mie terre. Allora sorrisi, ritenendo che il linguaggio dei gesti e del viso sia più universale di quello delle parole, ed essa si quetò. Mi sorrise anch’essa e mi disse poche parole.
Conoscevo pochissimo il suo volgare, e in ogni caso era diverso da quello che avevo in parte appreso a Pisa, tuttavia mi avvidi dal tono che essa mi diceva parole dolci, e mi parve dicesse qualcosa come: “Tu sei giovane, tu sei bello…” Accade raramente a un novizio, che abbia passato tutta la sua infanzia in monastero, di udire affermazioni circa la propria bellezza, e anzi si è di solito ammoniti che la bellezza corporale è fugace e da tenere in conto assai vile: ma le trame del nemico sono infinite e confesso che quell’accenno alla mia venustà, per quanto mendace, scese dolcissimo alle mie orecchie e mi diede una incontenibile emozione. Tanto più che la fanciulla, nel dir questo, aveva proteso la mano e coi polpastrelli delle sue dita aveva sfiorato la mia gota, allora del tutto imberbe. Ne provai come una impressione di deliquio, ma in quel momento non riuscivo ad avvertire ombra di peccato nel mio cuore. Tanto può il demonio quando vuole metterci alla prova e cancellare dall’animo nostro le tracce della grazia.
Cosa provai? Cosa vidi? Io solo ricordo che le emozioni del primo istante furono orbate di ogni espressione, perché la mia lingua e la mia mente non erano state educate a nominare sensazioni di quella fatta. Sino a che non mi sovvennero altre parole interiori, udite in altro tempo e in altri luoghi, certamente parlate per altri fini, ma che mirabilmente mi parvero armonizzare con il mio gaudio di quel momento, come se fossero nate consustanzialmente a esprimerlo. Parole che si erano affollate nelle caverne della mia memoria salirono alla superficie (muta) del mio labbro, e dimenticai che esse fossero servite nelle scritture o sulle pagine dei santi a esprimere ben più fulgide realtà. Ma v’era poi davvero differenza tra le delizie di cui avevano parlato i santi e quelle che il mio animo esagitato provava in quell’istante? In quell’istante si annullò in me il senso vigile della differenza. Che è appunto, mi pare, il segno del rapimento negli abissi dell’identità.
Di colpo la fanciulla mi apparve così come la vergine nera ma bella di cui dice il Cantico. Essa portava un abituccio liso di stoffa grezza che si apriva in modo abbastanza inverecondo sul petto, e aveva al collo una collana fatta di pietruzze colorate e, credo, vilissime. Ma la testa si ergeva fieramente su un collo bianco come torre d’avorio, i suoi occhi erano chiari come le piscine di Hesebon, il suo naso era una torre del Libano, le chiome del suo capo come porpora. Sì, la sua chioma mi parve come un gregge di capre, i suoi denti come greggi di pecore che risalgono dal bagno, tutte appaiate, sì che nessuna di esse era prima della compagna. E: “Come sei bella, mia amata, come sei bella,” mi venne da mormorare, “la tua chioma è come un gregge di capre che scende dalle montagne di Galaad, come nastro di porpora sono le tue labbra, spicchio di melograno è la tua guancia, il tuo collo è come la torre di David cui sono appesi mille scudi.” E mi chiedevo spaventato e rapito chi fosse costei che si levava davanti a me come l’aurora, bella come la luna, fulgida come il sole, terribilis ut castrorum acies ordinata.
Allora la creatura si appressò a me ancora di più, gettando in un angolo l’involto scuro che sino ad allora aveva tenuto stretto contro il suo petto, e levò ancora la mano ad accarezzarmi il volto, e ripeté ancora una volta le parole che avevo già udito. E mentre non sapevo se sfuggirla o accostarmi ancora di più, mentre il mio capo pulsava come se le trombe di Giosuè stessero per far crollate le mura di Gerico, e al tempo stesso bramavo e temevo di toccarla, essa ebbe un sorriso di grande gioia, emise un gemito sommesso di capra intenerita, e sciolse i lacci che chiudevano l’abito suo sul petto e si sfilò l’abito dal corpo come una tunica, e rimase davanti a me come Eva doveva essere apparsa ad Adamo nel giardino dell’Eden. “Pulchra sunt ubera quae paululum supereminent et tument modice,” mormorai ripetendo la frase che avevo udito da Ubertino, perché i suoi seni mi apparvero come due cerbiatti, due gemelli di gazzelle che pascolavano tra i gigli, il suo ombelico fu una coppa rotonda che non manca mai di vino drogato, il suo ventre un mucchio di grano contornato di fiori delle valli.
“O sidus clarum puellarum,” le gridai, “o porta clausa, fons hortorum, cella custos unguentorum, cella pigmentaria!” e mi ritrovai senza volere a ridosso del suo corpo avvertendone il calore e il profumo acre di unguenti mai conosciuti. Mi sovvenni: “Figli, quando viene l’amore folle, nulla può l’uomo!” e compresi che, fosse quanto provavo trama del nemico o dono celeste, nulla ormai potevo fare per contrastare l’impulso che mi muoveva e: “Oh langueo,” gridai, e: “Causam languoris video nec caveo!” anche perché un odore roseo spirava dalle sue labbra ed erano belli i suoi piedi nei sandali, e le gambe erano come colonne e come colonne le pieghe dei suoi fianchi, opera di mano d’artista. O amore, figlia di delizie, un re è rimasto preso dalla tua treccia, mormoravo tra me, e fui tra le sue braccia, e cademmo insieme sul nudo pavimento della cucina e, non so se per mia iniziativa o per arti di lei, mi trovai libero del mio saio di novizio e non avemmo vergogna dei nostri corpi et cuncta erant bona.
Ed essa mi baciò con i baci della sua bocca, e i suoi amori furono più deliziosi del vino e all’odore erano deliziosi i suoi profumi, ed era bello il suo collo tra le perle e le sue guance tra i pendenti, come sei bella mia amata, come sei bella, i tuoi occhi sono colombe (dicevo) e fammi vedere la tua faccia, fammi sentire la tua voce, ché la tua voce è armoniosa e la tua faccia incantevole, mi hai reso folle di amore sorella mia, mi hai reso folle con una tua occhiata, con un solo monile del tuo collo, favo che gocciola sono le tue labbra, miele e latte sotto la tua lingua, il profumo del tuo respiro è come quello dei pomi, i tuoi seni a grappoli, i tuoi seni come grappoli d’uva, il tuo palato un vino squisito che punta dritto al mio amore e fluisce sulle labbra e sui denti… Fontana da giardino, nardo e zafferano, cannella e cinnamomo, mirra e aloe, io mangiavo il mio favo e il mio miele, bevevo il mio vino e il mio latte, chi era, chi era mai costei che si levava come l’aurora, bella come la luna, fulgida come il sole, terribile come schiere vessillifere?
Oh Signore, quando l’anima viene rapita, quivi la sola virtù sta nell’amare ciò che vedi (non è vero?), la somma felicità nell’avere ciò che hai, quivi la vita beata si beve alla sua fonte (non è stato detto?), quivi si gusta la vera vita che dopo questa mortale ci toccherà di vivere accanto agli angeli nell’eternità… Questo pensavo e mi pareva che le profezie si avverassero, infine, mentre la fanciulla mi colmava di dolcezze indescrivibili ed era come se il mio corpo fosse tutto un occhio davanti e di dietro e vedessi le cose circostanti di colpo. E capivo che da esso, che è l’amore, si producono a un tempo l’unità e la soavità e il bene e il bacio e l’amplesso, come già avevo udito dire credendo mi si parlasse d’altro. E solo per un istante, mentre la mia gioia stava per toccare lo zenith, mi sovvenne che forse stavo sperimentando, e di notte, la possessione del demone meridiano, condannato infine a mostrarsi nella sua natura stessa di demone all’anima che nell’estasi domandi “chi sei?”, esso che sa rapire l’anima e illudere il corpo. Ma subito mi convinsi che diaboliche erano certo le mie esitazioni, perché nulla poteva essere più giusto, più buono, più santo di quel che stavo provando e la cui dolcezza cresceva di momento in momento. Come una piccola goccia d’acqua infusa in una quantità di vino tutta si disperde per prendere colore e sapore di vino, come il ferro incandescente e infuocato diventa somigliantissimo al fuoco perdendo la sua forma primitiva, come l’aria quando è inondata dalla luce del sole è trasformata nel massimo splendore e nella medesima chiarezza, tanto da non sembrare più illuminata bensì essere luce essa stessa, così io mi sentivo morire di tenera liquefazione, sì che mi rimase solo la forza per mormorare le parole del salmo: “Ecco il mio petto è come vino nuovo, senza spiraglio, che rompe otri nuovi”, e subito vidi una fulgidissima luce e in essa una forma color zaffiro che avvampava tutta di un fuoco rutilante e soavissimo, e quella luce splendida si diffuse per l’intero fuoco rutilante, e questo fuoco rutilante per quella forma splendente e quella luce fulgidissima e quel fuoco rutilante per l’intera forma.
Mentre, quasi svanito, cadevo sul corpo a cui mi ero unito, capii in un ultimo soffio di vitalità che la fiamma consiste di una splendida chiarezza, di un insito vigore e di un igneo ardore, ma la splendida chiarezza la possiede affinché riluca e l’igneo ardore affinché bruci. Poi capii l’abisso, e gli abissi ulteriori che esso invocava…

 

 

(Stefano Falotico)

Genius-Pop

Just another WordPress site (il mio sito cinematograficamente geniale)