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Mi son commosso davanti a me stesso e ho riso tantissimo


07 Jul
CAPE FEAR, Robert De Niro, 1991, © Universal

CAPE FEAR, Robert De Niro, 1991, © Universal

Improvvisamente, nuovamente, scopro che piaccio moltissimo alle donne. Ora, non dovete dar retta a tutte le panzane che vi rifilo. Io ne ho avuta qualcuna, anche se ho sempre avuto il dubbio che non fossero donne. Non è che erano delle cangurine? Sì, ci sono, vivono in Australia e, pur d’incontrarmi, hanno attraversato l’oceano, zampettando fra le onde. A parte gli scherzi, fu dilettevole sperimentare la parte affettiva di me, spesso da me stesso rinnegata. Quando mi do, so di soffrire molto, perché l’amore vero richiede sacrificio totale e significa accettare il gioco, la sfida, con sfacciataggine estrema. Allora crollano i pudori, i residui dubbi si sfaldano, la maschera scivola e le incertezze devi lasciar da parte se vuoi “sfondare”. Ecco, qui ho calcato la mano, e so di aver peccato. Mi perdoni, padre, mi assolva con tre Ave Maria.

Sì, mi ricordo di tantissimi anni fa quando “scelleratamente” mi masturbai, al che in tutta fretta mi recai alla basilica di San Luca, perché talmente “grande” fu il mio peccato che andava obliato in un’abluzione quasi battesimale, per estirpar la colpa e far sì che m’intingessi nella purezza profonda del mio esser spoglio davanti a Cristo, in remissione sincera.

Ricordo i patimenti mistici di quelle giornate deliranti, sospese fra l’adulazione all’aldilà inattingibile e la carnalità adolescenziale unta e bisunta. So che all’epoca i brufoli s’addensarono sulla mia pelle efebica, e rammento ancora come la “rammendai”. Sì, ne faccio qui ammenda, e vi chiedo scusa se in quel periodo mi presentai con quella faccia simpaticamente escrementizia.

Da anni immemorabili, non credo a Dio. Perché soltanto un pazzo potrebbe credere a un’entità superiore che domina i destini di poveri disgraziati, qual siamo noi tutti, in questa condizione umana che spesso ci rattrista e penar ci fa tra dilemmi, il proceder lemme lemme e la flemma, appunto, davanti a una donna elegante per non apparire troppo surriscaldati. Sì, conservate la calma quando lei accavallerà in modo birbante, e annuite solleticanti eppur maliziosi dirimpetto alle sue pose così vogliose. Attendete l’attimo nel divenire e poi verrete di tutto venare, no, peccato veniale. Eh sì, i vasi dilatatori…

Lo conoscevate il verbo venare? Ah, ma andate sverginati, no, svernati!

Devo esservi onesto. Io non sono un campione nel corteggiamento, anzi, spesso mi faccio sopraffare dalla figa, no, foga, imbarazzato esito talmente tanto da indurre la mia preda a mollar subito la presa e a mollarmene una. No, non una sberla, proprio una scoreggia che sdegna la mia esagerata cautezza. Perché la donna media ama l’uomo arrogante che, già imbestialito dalla sua sensualità dirompente, procace, a dir poco avvenente, è zotico e gorgheggia infoiato l’amplesso subito desiderato, ponendosi già troppo accalorato. Le donne dicono che uomini così a loro fanno sesso, a me fanno schifo. L’amplesso va pacatamente desinato, gustato con l’antipasto sfizioso di una chiacchierata che può durare per ore. Sì, perché più durano le frottole, più fra una banalità filosofica e l’altra si mordon le frittelle, tese solo a farlo diventare terso, tesissimo e fritto, no, ritto, più lei non si accorgerà che avete “sbottato” precocemente. Ah ah. Che spiritoso che sono, sono un discolo.

Nessuna donna, ma anche nessun uomo, crede che io abbia 38 anni, anzi, a Settembre ne farò trentanove. Vorrei farmene quaranta, ma trentanove mi spettano di giusti ani, no, anni. Perché, quando mi sbarbo e non assumo robaccia antidepressiva che appesantisce il mio ventre, sembro un trentenne a dir molto.

Invero, la mia apparenza non mente sulla reale età anagrafica ma credo che chiunque, guardandomi nell’anima dei miei occhi, scorga che sono giovanissimo. Non son vergine ma il mio sguardo emana lucentezza viva, scevra di ogni corruzione adulta. Sì, esprimo romantica dolcezza anche quando me la tiro da stronzo. Perché non si addice alla mia natura genetica, estetica, esegetica del mio cuore, essere un figlio di puttana. Sì, alle volte sbraito, do di matto, molto meno rispetto a prima, anzi oramai mai, perdo facilmente la pazienza e sbrocco, ma non perché sono una schiappa e un brocco, perché sento troppo e mi è complicatissimo gestire il turbinio abissale delle mie emozioni voraci, veraci e anche, non so, trovate voi un aggettivo che faccia rima baciata con la mia sibillina autenticità smodatamente limpida e pugnace.

Sto riguardando tutti i Blu-ray che avevo comprato e mai avevo visto. Film che avevo già visto ma non ancora in Blu-ray.

Sto rivedendo Cape Fear e i suoi contenuti speciali.

Sto parlano del remake di Scorsese, sì, il promontorio della paura.

Ecco, a chi saltò in mente di affibbiargli questo sottotitolo? Promontorio è stupendo. Potevano tradurlo anche con cima, capo, sommità, sai che merda…

Vi devo essere obiettivo. So che vi stupirà questa mia affermazione, ma Cape Fear è un ottimo thriller con ambizioni metafisiche, ma non è un grande film, per niente.

È sorretto da una suadente colonna sonora, riciclata penso, sì è così, e lo sceneggiatore Wesley Strick ha cancellato troppi eccessi della prima versione, ma non ha tolto alcune scene che secondo me sono fastidiose. Come quando (in tv raramente passa integralmente) De Niro mangia la guancia di Illeana Douglas. Abbastanza vomitevole e di cattivo gusto. Max Cady è uno psicopatico ma non sino a questo punto così barbaramente mostrato.

No, non è un grande film. Ma comunque va guardato in lingua originale. Con tutta la stima per la buonanima di Ferruccio Amendola, la voce originale di De Niro, con le giuste intonazioni, i tintinnii lievi della testa e la pettinatura leonina così ben “acconciata” alle sue ottimamente cadenzate corde vocali, rende appieno giustizia alla grandezza della sua interpretazione.

Poi, perché citate quella frase… imparerai che vuol dire perdere?

Dice in effetti You’re gotta learn about loss. Che potremmo tradurre più appropriatamente con hai da imparare sulla perdita. Sul senso della perdita. Perché in galera Cady ha perso la sua anima. Non soltanto degli anni.

E lui non dice… roba tipo… ci voleva qualche vizio per ricordarmi che sono un uomo.

Uomo, virilità e il concetto di perdente appartengono alla nostra cultura italiota. Alla nostra folle visione fra bianchi vs neri, fra vincenti e vinti. Roba tutta fottutamente, laidamente italiana. Lui dice… per ricordarmi di essere umano. Perché sì, Cady ha stuprato e si è macchiato d’infamia, ha lordato la sua coscienza, ma ha perduto soprattutto la sua umanità. Ed è per questo che è un fan di Nietzsche e di altre teorie superomistiche che comunque lui distorce a piacimento.

Sono dettagli importantissimi, cazzo.

Ora, vi siete accorti che è forse l’unico film di Scorsese che indugia sui tramonti rosati e le stelle cadenti?

Perché la fotografia è del lynchiano Freddie Francis. E The Elephant Man e Una storia vera vi dovrebbero dire qualcosa in merito.

È in questi scorci che Cape Fear diventa metafisico.

Perché il significato intrinseco della vita è nel profumo delle stelle.

Perché ci svegliamo ogni mattina, nonostante tutte le sfortune del mondo, e continuiamo a emozionarci? Perché, come sostengono Freud e Jung, fin dalla nascita possediamo una sorta di coscienza sociale figlia della nostra genetica emozionale? No, una grande balla.

Perché Dio non esiste, ma credo fermamente che esista qualcosa che ci rende unici. Qualcosa di profondamente inquietante, a ben vedere, che non ci permetterà mai di essere delle scimmie, neanche se lo volessimo.

E io non posso essere pazzo neppure se m’impegno dannatamente talvolta per sembrare tale.

Da tempo poi, devo confidarvi, che sono terrificato dall’idea della morte.

Forse, siete troppo occupati nelle vostre competizioni balorde e nelle vostre stronzate ignobili quotidiane per capire ciò che sto cercando di dirvi da una vita.

Oggi muore un tuo amico, domani la donna che ami o ti eri illuso di amare, domani i miei genitori, ieri i miei nonni. E noi perdiamo, giorno dopo giorno, qualcosa.

Quel qualcosa che ci rendeva simili a Dio. Nella nascitura onnipotenza della nostra innocenza.

 

T’insegneranno a non splendere. E tu splendi, invece.

(Pier Paolo Pasolini).

 

In verità, noi tutti siamo già uomini quando abbiamo tredici anni ma siamo obbligati, giocoforza, a nanizzarci perché non abbiamo indipendenza economica, i genitori ci attanagliano perché pensano che una vita programmaticamente corretta sia quella sana, nessuna quarantenne farebbe sesso con noi, non sarebbe moralmente lecito, veniamo imbrigliati da retorici retaggi e ricatti scolastici per essere indirizzati…

Un’immane, orrenda ipocrisia. Come quella di Nick Nolte.

Voi non smettete di guardare alla vita con la vostra poesia.

E non avrete più paura di niente e di nessuno… anche di uno che guadagna centomila Euro al mese e v’impone sadico e smargiasso la legge del più forte…

Adesso vi mando a cagare e mando a fanculo anche me stesso. Ah ah ah.

 

Buonanotte.

Buona visione.

 

 

di Stefano Falotico

Genius-Pop

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