“The Master” di Paul Thomas Anderson, recensione di Davide Viganò

06 Jan

Ci sono film che non lasciano sconti, non sono lì pronti a farsi accarezzare da tutti, non sorridono accomodanti, non ti sparano cose alte per poi darti il dizionario della filosofia spicciola di modo che anche tu possa andar in giro a vantarti di aver visto un film d’essai. No,ci sono film fatti e nati con uno scopo solo: piacere agli spettatori e alle spettatrici indisciplinati e indisciplinate. Cioè i guerriglieri dell’immaginario su grande schermo, che non si accontentano di patine di democretinismo, filmetti carini, polpettoni di fantascienza e filosofia alla buona e tanta retorica sentimentalista. Noi abbiamo bisogno di sfide, di Cinema che richiede massima attenzione, partecipazione cerebrale e poi forse anche umana, che ci tratta come Uomini e come Donne, quindi capaci di relazionarsi con le immagini, le parole, la poetica dell’opera. Gli altri si fermeranno al risolino di scherno che solitamente si fa quando non capisci un cazzo,  ma non hai il coraggio di dire che non capisci un cazzo.
La cosa preoccupante è che vedo molti Occhialuti, cioè parlo di noi Sacri Custodi della Bellezza Assoluta e Assolutista del Grande Cinema, impoverirsi e diventare alla stregua di un tamarro qualsiasi. Brutti tempi.
Non di meno ci troviamo di fronte a un film eccezionale, a una strepitosa lezione di recitazione corale, (con anche i piccoli personaggi assai ben delineati), con una sceneggiatura assolutamente perfetta e una regia che, insolitamente per Anderson, abbandona il furore della mdp che talora sovrastava i personaggi e dava l’impressione di un intervento dall’Alto del Regista, (un precisare che il Cinema è fatto dai registi che sadicamente si scatenano, movimentando la vita dei personaggi),con invece una regia minimalista, seminascosta, statica, opprimente. Perché sia ben chiaro che parliamo di oppressione. E qui non ci sono, come in altri film ammmmereggggani,possibilità di fuga verso la libertà di qualche eroe individuale che, nel nome della sana tradizione liberale, scopre l’amore e combatte la tirannide. No, perché qui l’oppressione è stato di vita naturale, essa forma le tue ossa, scorre nel tuo sangue, è la tua carne. La setta è una prigione, ma il Mondo fuori? Davvero aver combattuto per la libertà e democrazia ti ha salvato? No. E qui comincia il grande dramma di Freddy. Lo vediamo e lo vedremo sempre sul bilico e oltre del disastro umano.Quando questo ragazzo è stato felice? Quando la rabbia e la follia che nasce dalla vita quotidiana e dalla natura umana, non da traumi, l’ha lasciato in pace?Forse solo quando incontra Lancaster. Forse solo quando sente parlare della Causa, forse in quella famiglia, ma è un inganno.Il regista e sceneggiatore ci dirà che forse non è così. Stai vedendo il film di una condanna, stai vedendo il film di un’apocalittica fine umana e non serve una setta, una causa, non serve credere in un Padrone, anzi nel tuo Dominatore, (master), perché sei solo gioco e passatempo, sei lo specchio che riflette la sua voglia assoluta di essere idolatrato. Riempi la solitudine di un uomo che, nonostante si sforzi di avere potere,rispetto, non è altro che un povero egocentrico in cerca di fortuna  e polli da spennare.
In questo, però, Anderson ci vede anche qualcosa di sottilmente tenero. Nella scena della prigione dove la rabbia atroce lascia spazio a piccole tenerezze, (con Lancaster -Hoffman, che dice al suo Freddy- Phoenix-, che lui gli vuole bene e che lui si interessa del povero marinaio senza radici e in balia di una rabbia senza fine), c’è anche il sadismo assoluto e totale, il plagio consenziente, l’abbandonarsi nelle mani della persona sbagliata..- C’è un discorso sulla solitudine cattiva, universale, totale che colpisce questi due uomini. Uno ha bisogno della sua setta,di gente debole da plagiare e l’altro ha bisogno del suo padrone, figura paterna e punto di riferimento. La via scelta da Anderson però è spiazzante, evita la tensione drammatica sempliciotta, melodrammatica, spinta che potrebbe dare una storia come questa, portando il suo film sui territori sicuri del filmone “impegnato”, ma per tutti. Lui invece chiede moltissimo e pretende moltissimo perché ti offre tantissimo. Non è Cinema, è vita che scorre in immagini, ma filtrata dal Cinema e dai suoi mezzi, difficile che la maggioranza sappia stare al passo di questa opera, ma gli altri e le altre avranno da gioire infinitamente.
Philip Seymour Hoffman si mostra un grandissimo attore, non sbaglia film da quando lo conosco e anzi, pure se il film non è il massimo, lui è sempre un mostro di bravura. Sempre. Joaquin Phoenix, più che recitare, qui è una maschera, un simbolo che diventa carne e uomo e la sua sofferenza pesa e disturba. Non è un film consolatorio e, a parte il suo unico sbaglio cinematografico – Ubriaco d’amore, che rimane sempre un gioiello in confronto alla merda che circola- anche questo prosegue un discorso amarissimo e a suo modo malinconico, straziante, persino tenero sul fallimento umano e un senso di riscatto rimandato, abbandonato, o vissuto come liberazione attraverso il dolore.
La storia di Freddy, che tornando dalla guerra spezzato e perso, trova rifugio nella setta dello scrittore e tante altre cose, a sentire lui,Lancaster, è una storia universale sul potere, la solitudine, la vita, ma raccontata con uno stile personalissimo e innovativo per lo stesso regista che abbandona lo stile possente e movimentato per concentrarsi freddo e disilluso su due uomini alla deriva, ma uno si salva con l’inganno e la  manipolazione, l’altro con un abbraccio a una donna immaginaria fatta di sabbia su un spiaggia, abbandonato alla sua fine.

Capolavoro assoluto di inizio anno.

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