Archive for December, 2011

Auguroni, di Natale e non “fetali”


26 Dec

 

Sì, avevo promesso che avrei “trascritto” solo l’ultima play che comparve, ma, ivi, smentisco.

Presto, annoderò, nelle mie notti, tutte le annotazioni di FilmTv.It, ma, qual occasione migliore, se non po(rno)star questa sfilza di “auguri?”.

 

Quel Natale d’una Notte da rane (natanti)

 

Se Dio svilì le lussurie di Lucifero, il lucernario “addobberà” il mio “cenacolo”

Sì, il Natal s’infarcisce come filastrocche per un’altra allocca che penderà dalle labbra di chi si gongola del suo “gorgonzola”.
Di zolla in zolla, io razzolo e, di ruzzolii, passeggio come una “palla” lebowskiana, elargisco i miei soldi a dei siti porno che “or(n)ino” d'”onanone” le mie voglie che “orinaron” di reprimende a castigarle, e salto di palo in frasca, ma “alito” dietro le frasche.

L’Uomo del Nuovo Millennio non è uno da Rooney Mara di Millennium, perché “odia le donne” a tal punto da “oliarle”.

Sì, perché dovrei vergognarmene?
Ho visto ragazzi “colti”, “sparare” di “colt” sulle virginità di ragazze malate di “cancri” isterici, ho visto ragazzi della “buona borghesia” agire illegalmente della loro sessualità, circuendo pollastrelle degli istituti magistrali per “istruirle” a romaniche cene nient’affatto romantiche, ma del “lattinismo” meno incoccolato ma “in-coca-coliato” solo per ingollarsele.

Ho visto insegnanti di religione scambiar un povero Cristo per il figlio di Berlusconi, e ho visto politici schiattare dopo che un’altra, schiaffeggiandoli nel sadomaso, “gliela” schiaffava.
Ho visto la Schiaffino far l’amore con l’omonimo calciatore nella notte brava con un amour braque.

Vedo quarantenni da asilo nido farsi assistere socialmente dall’ASL, e ho visto asini esser più sani indossando i sandali.

Ho visto preti irretire, pedofilmente, una Donna di nome Irina, per infilarglielo nella “retta via”.

Ho visto uomini “intonsi” dal torso opulente, esser “corpulenti” in amplessi senza lentezze.
Sì, lei urlava “Fuck me like an animal!“.
E lui, sudacchiandola: “Godo, oh my god, come ce l’hai soda.., un po’ lo corrode”.

Ho visto signori amare il Cinema di Luchino Visconti, e poi da una zoccola pretender lo sconto dopo l’Amaro Lucano.

E, in tutto questo, io sono Ben Richards de L’implacabile.
Me ne fotto delle chiacchiere che mettete in giro su di me, io e Conchita ci beviamo il caffè della Carmencita.
Anche se la tradisco con Jennifer Beals con i miei ululati alla Peter Loew.

E festeggio con un presepe da chi seppe, e ora, di pene, “insenapa”.

Firmato il Genius
(Stefano Falotico)

  1.  L’implacabile (1987) L’unico criminale è quel demente che voleva assistere alla mia “fine”, “allestendola”.
    Si è trovato con un palmo di naso, come si suol dire…
  2.  Stress da vampiro (1988) Meglio una vamp delle risse.
  3.  L’ululato (1981) Ululà, la Luna è lilla, ululì.

 

“Bona” a Natale: seppellii la mia pelle e, dopo belligeranti calunnie, divenni un Unno, ma non uno qualsiasi, e barbarico li spellai

 

Il Natal accheta le tribolate inquietudini della tribù occidentale che, “regalmente”, rabbonisce le malignità con glasse “galattiche” di alpine-pie cristologie dalle stelle, fra Otelli dissanguati dagli aghi-Iaghi, mentre io “eiaculo” e aculeo fra culi in cui “dolcificar” fiche con la garbata “glabrosità” di chi, da “lebbroso”, ora ama le labbra per cui ne siamo ebbri di briose luccicanze dall’arder vicino all’albero, per ber il barboso gregge in questa nostra aggregazione che non è gregaria ma, d'”angurie”, ci s(tr)ugge, io duro e Lei “illimonata” nel godimento-lampone con lampi solenni mentre fuori “festeggiano” sotto i lampioni

Paragrafo 1…

Non dire “Uno qualsiasi” se, piuttosto che alle “Formule” di Montezemolo, ha trovato la “felicità” in via d’Azeglio

Sì, in questa Bologna non ancora innevata, ma slavata in peccaminose colpe mai lavate, nel suo nevralgico Centro, fra il Nettuno e il Padiglione, sorse un Uomo dalla vita “barbona”: il sottoscritto.

Amante dei mantelli draculiani, Nosferatu con veggenze da Nostradamus, non tollera i giochi di dama e le trame della borghesia, ma il “borgo” di chi vive ai bordi e non ne abborda nessuna, sebben scalpiti per donne scultoree dall’affinata muliebrità plasmata negli scalpelli di Madre Natura, per cui si “scappellerebbe” volentieri. E, poi, per le “oscenità” del suo pudore, scapperebbe dopo la “scaloppina” impudica nell'”impubarlo”.
Ma devo esservi sincero, son scudiero del mio “sedere”.
Essendo un “angioletto”, non m’attizza il letto, poco “lo” rizzo, ma aizzerò quelli come me a “zigzagarla” nelle zizzanie.
Non son mai stato un fuggiasco, ma mi rifugiai nella “fuga”, perché non avevo foga, qualche volta mi sfogai e ora, forse, affogherò, ma ripudio chi s’affanna per i “podi” della “figa”, che per me è olezzo.
Non sono omosessuale, ho una casa di sassi a Sassuolo, località vicino Modena, con cui condivido il “tetto” con una di gran tetta. Non ha mai frequentato nessuna scuoletta, ma abbraccia la sua vita “solare” anche se non ha un soldo neppur per le suole delle scarpette.

Sì, nessun mi batte, neanche le mani, ma io non m’ammaino, detesto le frivolezze e le moine, e in molti mi dan del “Mona”.
Ma datemi Winona Ryder-Mina, e Dracula si farà Piacer, un’altra volta, il “culino”.

Paragrafo 2

Gli amici son spesso degli ipocriti mici, accendon la miccia, scopano le ragazzine-“Mocio Vileda”, leggono Moccia e sono machi solo nei “bac(h)i”, fra banchi da branchi

Ve lo vedreste il Genius, tocciar e toccare una Donna, poi “idromassaggiarsi” in vaschetta, asciugarsi con l’accappatoio e piluccar lo “zuccherino” ancora tra le lenzuola con una “colazione”-brioche?
Io no.
E so perché.

Ho sempre adorato Humphrey Bogart che rifiuta, laconicamente, Ingrid Bergman, e torna a casa a deprimersi con un film di Ingmar.
Ho sempre sognato che Marcello Mastroianni, alla burrosa Anita Ekberg che gli dice “Come here“, rispondesse con un “Ah, buzzicona, man vedi d’annà a prenderterlo interc… o!“:

Ho sempre sognato che, Taxi Driver, finisse così:
Cybill Shepherd si “redime” per aver offeso la virilità di Travis/Bob col suo rifiuto umiliante, aspetta che Lui si dia una mossa, ma il Bickle vuole i soldi del “pedaggio” e le sussurra: “Questi, mi serviranno per un’altra orgasmizzazione porno”. Sono il “tassametro” di chi ce l’ha di trenta centimetri, come John Holmes, e a una cherichetta come te, in tutta fede, preferisco Veronica Ciccone. Adesso, levati dalle palle e non ti curar di me, puttana!”.

Paragrafo 3

Le mie grafie sono graffi alle vite da giraffa

Per anni, vidi sciocchi e vanesi bimbetti, ronzarmi attorno perché io m'”immuscolavo” e non gradivo il miele.
Ero un moscone per la mia Mosca e, sebbene, provarono a ingannarmi con delle false esche, ne uscii illeso, perché son ancora illuso che il mio bel “musetto” finirà in un “museo”.
Non delle cere.
Nonostante, per colpa di troppe ferite, i “cerotti” non bastano.
Ogni Giorno, mi rado le gambe con la ceretta, ché la dritta via era smarrita ma, dopo il bandolo della ma(ta)ssa, divenni un tasso che guida il tassì e, quando mi va, sbanderò.
Perché son bandiera di questo bando un po’ “bandito”: “Se la vita è breve, il mio è lungo e, di lingua in lingua, “babelico”, son oggi babbeo e domani ebete per un abete da Babbo Natale, l’Uomo che è un “abate”.

Applauso!

Firmato il Genius
(Stefano Falotico)

  1.  Un Maggiolino tutto matto (1968) Sono una micromachine sex machine.
    Son sempre più “pingue” come l’ometto (o non “lo” metto?”) della Michelin, ma tra Pfeiffer Michelle e Michele Lea, “miscellaneo” nell'”autoscuola” Michielli.
  2.  Mary Poppins (1964) Le mie “schizofrenie” furon sedate con la pillola che va giù.
    Ma, Lui, va sempre più “in rossoblù al Barbablù”.
  3.  Biancaneve e i sette nani (1937) Sono colui che incarna tutte le declinazioni metaforiche di questi qui… che vedono pochi “fori”:
    Brontolo, Cucciolo, Dotto, Eolo, Gongolo, Mammolo, Pisolo.


Anno nuovo: scansione completa del mio sisma “asmatico” di lavico magma

 

Flemme corporali tra un freddo caporale e donne orali, tra oratorie e oratori chetichistici, alla chetinella risalii la china, con “varichine” alla mia anima che or s’anima, amandola “al mandorlato”

L’inganno mi fuorviò in “traviata”, mentre commensali s’apparentano tra pareti asettiche di “sciacquate” bocche dallo “spagnolo” lagrimio con la crème de la crème già screpolata in acrimonie d’una cerimonia per soli invitati.

Mi congedo dalla baldoria, e mi “aureo” nel vento, nel solletico, “illecito”, che s’inciterà per una Donna d’afferrar di porpore sognanti, ci sfioreremo nella nostra flora, senza batteriche isterie e piatti della “batteria”.

Mi camuferò, “impuffato”, in un pornoattore, d’ercoliana “virtù” indomabile a guair per leccar i suoi capezzoli e morderli senza crudeli che ci morsichino
La mia “pinguedine” smagrirà disossata nel Piacere e “futileggerà” di “fucil” eroticissimo di crespo liquore terso in Lei.
Per assaggiar il suo respiro, tra dinoccolato mio “arcuarlo” irto e le sue morbide cavalcate d’inebrio “amanuense” a non “ammansirlo”.
Nella spiritosaggine di quest’enigmatica Notte d’incenso levigato di carezze, c’annoderemo sciogliendo i nodi e le ombrosità lombrosiane e anodine, “nidificherò” di ficcante brivido nella vividezze dei nostri lividi di roca densità passionale, avvolti nel gelo di calorifica lievitazione.
Spalmati come la Luna nell’ormone a noi gaudio, “gallici” lustreremo la Luce “neonata” dell’alba, in palpitazioni d’aurore “orlate” nel nostro sudore di tanti fluidi amorevoli.

Questa mia sessual abbondanza & “abbienza”, no, non “la” rabbonirete “imbombolandola” di dolcezze cioccolatesche, sarò fondente nel “miagolarle” di latrati soffici d’irruenza, poi ruvida nell’arrugginito tepore che s’insaporì di baci carezzevoli di potente ferocità.
Genuflessi al goderci, come un Silvestro con Minni.
Lei si tergerà e struggerà per quelle mie mammelle che ora “incaramello” di mielosa rigidità nell’epica del nostro “incubo” più palpabilmente delicato.
Soavi come neve dissolta, assolati nell’eremitico nostro rifugio di fame, che s’assidererà solo di placide, gustose “moribondie” quando il Giorno, nei suoi vividi tramonti, smorirà nel nostro sereno, profumato “agonizzarla”.

Per Elena Sara, che mi “mangerà!”.

Firmato il Genius
(Stefano Falotico)

  1. Nel bel mezzo di un gelido inverno (1995)
  2.  Eros (2004)
  3. 8 donne e 1/2 (1999)

 

Nuoto così tanto che m’annoio, di Lun in “unte” cene ch’assideran le sideralità

 

Luniversalità antropocentrica, mai m’asseta e, a me stante, mai m’assesto per dissetar la neve in nebbie che non s'”opacizzino” in galassie troppo “lattee” ma sfamino la fiamma

La gente si catapulta su di me, con ruffiane cortesie ad arruffar il mio “pelo” e a sbellicar i miei furori perché m’arda negli sconquassi che mi “coagulino” e “conguaglino” nel “quagliarla”.
Ma, entità equina di mie distanze, tra una stanza sfarzosa di fantasie alate, aliti con cui mi riverbero a imbevermi di barbosa “noia”, e una Notte malinconica per non assopirla in banali “furtività”, evacuo di svagatezze tra lagrime pittate d’avorio, gli illivoriti uomini lavoratori e il mio “minarla” tra uno sbadiglio, un “sbiadirla” celestiale e un tocco madido, ancor d’incertezze, che crepita in me, di scolpite mie meraviglie che viaggian laconiche per poi esser agonia o un ghiacciato lago che s’incresperà in altri dubbi, tra irregimentate nostalgie in un'”ipocondria” che s’abbevera di suggestioni e l’ustione d’una Donna scalza ai piedi del letto, accucciolata perché la coccoli di piaceri ondivaghi fra un “mareggiarci” assorto e risorger d’erotiche trasparenze a “meriggiar” fino al nuovo spasmo spalmato del Sole.

Passeggio, incantato dai pulviscoli che mi celarono, e poi, furibondi, ora son levità d’una inarrestabile mente che si rasserena nelle “serenate” a una dolce amata, e poi ammaliarla, vita puttana quantomai desta, in birre ch'”alcolizzeran’, rizzandolo, in godibili funereità di vezzosi capricci in cui, d’arricciar l’anima, s’arrochiscon per non arrostir all’Inferno m’accaldarlo di sontuoso grido d’esterrefatte mie ferree briosità dal buio dissipato tra luride risa e un “cappellarla” matto di zompettar “allegretto” con note intonate alla cremosità del non scremarla mai per discerner il vero.
Semmai, mi secerno, cervo o incenerito, senza dubbio uno stronzo, fra un regalo che m’infiocchetta e il mio ciuffo per Paula Patton, “spiaccicata” nel mio Cuor “levitato” nelle sue gambe immolate a una mole mulatta.

Giudicatemi un genio, questo sono, il DNA mi fu fortuna dopo che mi “rintanarono”.
Ah, quanto m’invidiano, spero almeno che le renne sussurrino loro di non arenarsi.
Ne varrebbe la pena, ma s’ammoscerebbe il pene.
E non ne gioirebbero. S’ebetizzeranno di nuovo?
Scommetteteci, la testa è quella. È tal e quale alla “quaglia”.

Firmato il Genius
(Stefano Falotico)

  1. Il loro Natale (2010) Preferisco il mio, “infighettato”.
  2.  Apocalypse Now (1979) C’è chi è in guerra, e chi se la spassa senza diarree da fegati imbottiti di “piombo”.
  3.  Casinò (1995) Sono Bob, il giocatore, Nick Nolte melvilliano che lesse le balene bianche di Herman, e ora, dopo aver vinto, è in Lei He-Man.

 

Inalberato: a scartar i regali, preferisco Carter, e ai gioielli Cartier e alle teorie di Bacone e Cartesio, gusto il bacon

 

Amo Lucifero perché, da traditore, non legifera, non sono sferico poiché vedo sempre oltre con la mia sfera d’infrangibile cristallo, tra “affranti” passati e la mia misteriosa “sparizione” da Frantic, un po’ da “frate” che, nell’anfratto, si curò le “fratture” e ora è iattura dopo le “catture”

I was bruised and battered, I couldn’t tell what I felt.
I was unrecognizable to myself.
I saw my reflection in a window, I didn’t know my own face.
Oh brother are you gonna leave me wastin’ away
On the Streets of Philadelphia.

I walked the avenue, ’til my legs felt like stone,
I heard the voices of friends vanished and gone,
At night I could hear the blood in my veins,
Black and whispering as the rain,
On the Streets of Philadelphia

Sì, un crasso borghesaccio, s’avvide che, in me, qualcosa “non andava”. Ero “malaticcio”, con prime comparse di sintomi “schizofrenici”… ritiro sociale, inedia, perdita d’interessi, eloquio depauperato…

E mi “licenziò”, perché turbato da questa “lebbrosità”.
Al che, m’affiliai a un altro “diverso”, un nero con palle da toro, Denzel Washington, che anni addietro anche Lui patì l'”apartheid” razziale e i malsani “scherzetti” a danno della sua incolumità, solo perché la sua pelle era ritenuta “calamità” d’effetto poco “calamitico” per “le regole dell’attrazione” delle “normali affezioni”, così umorale da esser ritenuto “anaffettivo” o peggio infetto “reietto”.
Perfino John Lithgow, che per De Palma si scisse in pericolose “doppie personalità“, volle incastrarlo e “incriminarlo” perché non tollerava la sua rettitudine, tanto da volerlo incolpare come “reo” d’innocenza principesca. E accopp(i)arlo… per poi fregarlo col suo “ingegno” fedifrago.
Prima infatti lo “drogò”, poi lo filmò mentre si “lasciava” scopare, incosciente, da una puttana assoldata al suo sporco giochetto.
Infine, recapitò il VHS alla moglie e ai suoi datori di lavoro, come prova “inconfutabile” della sua labile, poco integerrima “faccia”.

Ma, l’inganno perpetratogli, fu scoperto e si ritorse contro il malfattore, per un Denzel-man on fire nella sua vendetta più giusta e irosa. Quasi virtuosa, “al righteous” contro il “killer“.

Sì, anni fa, non è la prima volta che vi narro quest’episodio “sciagurato”, e ve lo rammento, perdonatemi per tal pleonastica ridondanza… uno psicopatico, assai invidioso del mio genio e, soprattutto, irritato dalla mia libertà, mi tese un “tiro mancino” dal similar volermi “assimilare” sia a Tom Hanks e sia a Washington.

Lo trascinai in tribunale, perfino, e confessò, fra acute, altre vergognose menzogne di fronte alla legge, e reticenze mal dissimulate, l’orrenda sua anima, così, da me, vittoriosamente, denucleata in tutto il suo putrido fetore.

In tempi non sospetti, quando dispettosamente s’azzardò a “ledermi”, fu preventivamente avvertito, ma la sua recidiva insistenza fu scarnificata dal suo stesso “bollirsela”, perché tutti ora lo bollano come ingiurioso diffamatore punito nel suo sacrilego “vizietto” così spellatamente smascherato.

Sì, tutti i conti alla fine tornano e s’attorcigliano dentro i fegati dei crudeli.

Io, in questo Natale, così rinascente, dopo ermetiche involuzioni, son mutato nell’azione.
Pedissequa ad aver inseguito chi mi “perseguitò”, un po’ Michael Caine e un po’ Sylvester Stallone.

Firmato il Genius
(Stefano Falotico)

  1.  Philadelphia (1993)
  2.  La vendetta di Carter (2000)
  3.  Verdetto finale (1991)
  4.  Sfida senza regole (2008) Ah, caro “amico” Rooster, ti sei arrostito da solo… stavolta.

 

Io “nataleggio” senza i vostri leggii, “fuorilegge” per vocazione “spirituale”, spiritato dal’alito ch’è udito dell’anima

 

Un prete, mi confessa:
– Quali, sono i suoi peccati, fratello?
– Non mi sono affratellato, ma amo le frittelle.
– E come mai non ama la socialità?
– Perché mi alita e io non sono più alato. Preferisco le ali di “pollo”.

Al che, “incornicio” le mie cornee in un VHS con Luisa Corna, e “pirullo”, “smottandolo” di pan che monterà

Sì, vado fuori dai gangheri, perché non sono mai in ghingheri ma, da “ghiro” mingherlino, ora gareggio a camaleontismi “ponghi” ove ingrasso e smagrisco in onore a Bob De Niro, per rincarar la dose di non essere “caro”, ma Icaro.
Poi, di ringhio feroce, son amenità “sconcia” del mio “meringarlo” in luoghi pubblici per non “impubarlo” di birra in locande “calde”, e mi scaldo in un’arringa per non “arrugarmi” ma arrogarmi il diritto d’esser rauco, d'”eunuca” maestria di sopraffin estro che si destreggia nella mia “mancina” diaboleria

Se Badly Drawn Boy è un pissing in the wind, io invece piscio “sventolandolo” sopra la testa di chi mi sta antipatico, perché è un ometto plin-plin ch’è già planato nel “pantano”.
Ah, merdoso fango, meglio i miei funghi che non son funzioni religiose, ma gioioso a iosa mi strappo le viscere nelle rose, con la signora Rosalinda che va a messa alla parrocchia “Rosso San Martino”, per ascoltare tale predica:

L’Apocalisse non è quella di Maya, ma dell’omonima pornostar Hills, una maiala!
Dovete combattere l’Uomo che non ha freddo ed è un Siffredi.
Bevete il bolognese Segafredo, caffè che sorseggia anche Pacino Alfredo.

E tutte le vecchiette, “in brodo di giuggiole”, applaudono scroscianti, dopo che il nipote, invitato alla cena di Natale, scroccò i tortellini e, “a sbafo”, palpò le cosce della figlia.

Sì, ogni 25 Dicembre, assisto a questo scempio, ma io non ne son “discepolo”, e sempre più scapolo amo gli scalpi degli “indiani” come me.
Per volteggiar, “pistolero”, con un sombrero messicano da chi, più che alle stelle, preferisce l’ombra dell’ultimo Sole, e i suoi “lessici” esperanti nel letto.
Non sono speranzoso, ma “spaparanzoso”, e Carmela Gomez è miele della “melina”, sbaciucchiata nei luccichii delle (endo)venose “truculenze” epidermiche, Lei, di corpo alla ceramica, e io nient’affatto un “buonista” Vincenzo Cerami.

Applauso!
Ed evviva la “bontà” del Cristo.

Auguri, e in bocca al lupo, che sono io anche quando non mangio l’agnello di Dio.

Firmato il Genius
(Stefano Falotico)

  1.  La zona morta (1983) In pieno Inverno, sotto le festività, un povero Cristo cade in coma.
    Si risveglia anni dopo, sotto una coltre di “neve”
    Così, diventa un Travis Bickle che, anziché avercela con Palantine, vuol prendere a palate l'”apocalittico” Martin Sheen.
  2.  Apocalypse Now (1979) Questo Brando che si stravacca in mezzo ai selvaggi, e si fa coccolare come un porcellino che tanto scanneranno alla Cronenberg.
    La storia di un Genius che ne aveva le palle piene.
  3.  The Addiction (1995) Paradigmatico d’ogni “disagio”:
    tutte queste puttane danno il voltastomaco, dobbiamo ripulire le strade, tutti questi balordi, dobbiamo renderli meno luridi.
    Tutta questa indignazione, è la mia dignità!

 

Voglio “natalizzarli” dalle loro bacate “certezze” – Auguroni a quella “gentilissima” gente

 

Se Batman ama la Notte camuffandosi da pipistrello antropomorfico per “svolazzar” in Catwoman, il Joker ama struccarsi senza che nessuno “lo” veda.
Sì, non si svela, da cui il verbo dalla “doppia personalità”: vedo-non vedo

Innanzitutto, ti auguro un felicissimo Natale, e un anno Nuovo che s’inauguri, nel mio augurio “alla anguria”, sotto i migliori auspici, ché tu possa, infatti, spiccar voli di serene placidità rigogliose, dopo che ti alienasti negli “allenamenti” di banchi di scuole ove dissiparono, ingrigendoti, quel giovanilismo birbante ch’è fonte d’ogni sano delirio wertheriano e di quelle ambizioni solipsistiche ch’alimentan gli impeti nel loro “boarsi” tra quelle compiacenze, ossificate nel tedio, di crassi adulti boriosi dal “perentorio” classi(ci)smo. Meglio, esser “incoscienti” ciclisti nel traffico, come raffiche di vento.

Ma, altresì, desidero che tu porga le più sentite “congratulazioni” a quell’imperitura, “inaffondabile” congrega di violenti infingardi della mia psiche, affinché possan redimersi, con la mia “benevolenza”, da anni di sfregi perpetrati alla mia anima “pura”, e da illazioni con cui “pascevan” di goliardie ris(s)aiole, tra un drinkettino col ghiaccio e puttanelle “calde” come il Sole nell’Irlanda nebbiosa dei geli invernali.

Sì, dal più “profondo del Cuore”, dichiaro, in tutta “fede”, ché tanto desiderarono, con impellenza, che mi spellassi nelle “vanaglorie” carnali, come “tutti-pene-placiti”, che ottennero l’indesiderato effetto opposto, di me che mi “scomposi” in un rinnovato, incendiario lindore di frammentate mie autarchie nell’inossidabile monarchia “teutonica” a quei valori che non discuto, le cui “scosse” per “azzimarli” d’aizzate rabbie “comuni” m’han scosso solo disossando le antiche mansuetudini intellettuali a cui sempre attracco quando si vuol ledere la mia “ipocondriaca” dolenza.

Spero, vivamente, che tu possa “accigliarti” come la maggioranza se una maggiorata non te la dà, e imbufalirti se un bue con testa da asino è il fidanzato d’una “raffinata” attrice di Hollywood, con occhi “angelicamente agnellini”.

Con questa mia, so che ti ho allietato il pranzo di questo letizioso Giorno, ché la Notte, fra oggi e Santo Stefano, ammansisca di buona creanza le atrocità di quelle abominevoli creature.

Con affetto, un amico “(I)carissimo”.

Firmato il Genius
(Stefano Falotico)

  1.  Batman (1989)
  2.  Il Cavaliere Oscuro (2008)
  3. Il jolly è impazzito (1957)


Elogio del Genius! – Nei miei gargarismi son barbaro garrito

 

Erasmo mi fa un baffo, perché io son più beffardo, irrido la massa che mi deride e, fra gli stenti, ostento una galanteria della mia gelateria “Il gel sul limone”, artigianato di confettura fantasiosa “anale” con peperine scaglie di cioccolato “(imprese)-pepate” nel penetton “salato” contro il panettone dolce.
Nel mio “zuccherificio” son fico d’ascendenza biblica, ardo contro i fiocchi di neve e voi raggelati, con “lui” mai in bilico, ma bilioso contro chi mi vuol imbrigliar delle sue “meraviglie”.
Son il cacao con ciocche spumeggianti e mascarpone che “insapona”

Io son ribelle di mille pelli che si sbellicano “illenzuolate” nel mio catarro che sputacchia contro gli psichiatri e spretacchia le donne tacchine.Al cui tacco son puntiglioso “appunto”, nel mio scrotale taccuino.
Galleggio, sfioro e in tutti i fori mi fiondo, tra fronde e un’onda che “sgradevolizzano” affinché “si” sgretoli.
“Immaialisco” me stesso, con questo “articolo” della mia costituzione, “sano & robusto”:

1: L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul livore, e io affondo di “bananone”.

Firmato il Genius
(Stefano Falotico)

  1.  Taxi Driver (1976) L’ilarità dell’Uomo impermeabile al “tatto”, che “ratteggia” di Notte nel tassì per un altro “No”, Cristo che si corruga nelle gomme per asfaltare la sua “adempienza” al non essere empio d’affetti.
    Si vendica, puritanamente “sputtanandoli”, “pittando” di graffiti al sangue come macchie di sputo “nauseabondo”, nel suo avorio è un Dracula solo ma assolato nel solleticarla nel porno. Alle origini d’ogni peccaminosa cagione, alla ventura con la sua vettura.
  2.  Vivere e morire a Los Angeles (1985) Poliziotti ubriachi di “dimestichezze” che se “le” fanno con “mestiere”, tra corruzione, schizzi, fango, poltiglia e altre bottiglie.
    Senza giochi damerini, nell’America “somara”, forse come dei sumeri, tribù estinta dal clericalismo borghese.
  3. Cruising (1980) Identità nascosta nella zona che non sembrava “losca”, occhi che volteggian neri per sbiancar la Luna nell’orgasmo omo che non è esime da “colpe”.
    La sapienza di sé.

 

Vigilia, senza vigilanti, di Santo Stefano – martire che martellarono m’ancor gli “tira”

 

Soffice impermeabilità alla bile con cui l’uomo medio, nel Natal già serale e “insederato”, placò i tormenti d’una mente che quasi mai adopera, fra operai lagrimosi e “affaccendati” borgheselli dai panciotti “commendatorizzi” che non più “lo” rizzano.
Sono, indiscutibilmente, non “biscottatela”, più bello di Raoul Bova, e mangio carne bovina avvinazzato nella mia “viltà” ch’è villosa di villica impudicizia

Anni fa, quando la neve e le nebbie m’avvolsero in spirali ove m'”insalatai” ed ero lì lì per esalar l’ultimo, “cardiaco” respiro, mi “soffocai” senza fuochi della passione.
Nel mio memorandum, or rammemoro di quand’ero già mimetico nella mia stella cometa, sebben m’accomiatai da tutte le comitive e dalle plasticosità “cosmetiche”.
Mi smemorai e, amletico, m’anestetizzai di acuti “meningiti” d’amnesiaco “Paradiso”, ove festeggiavo ilare ogni dì da Don della sua “parrocchia scappellata” da Cappellaio Matto.
Sì, addussero che fossi “folle” solo perché ero “repulsivo” alla folla, che ora incito in piazza d’una mia (ri)nascenza che tutti spiazzò. Adesso, come un ossesso uscito dal suo (gl)ossario, li spazzolerò ben bene, con denti affilati per gente a me più affine, di più garbato “tatto” e sensibile pudore, un po’ g(l)as(s)ato di nostre galassie.
Tutti, infatti, mangiano il Pandoro, io, da “sfigato”, guidavo la Panda e fui adottato dal “WWF” affinché non m’estinguessi perché già stinto.
Nella mia (a)dorata prigione, lascivo sciai nel vento delle carezze alla poesia ma, da “avaro”, non spillavo mai il mio affetto e si pappavan tutte le fette di “torta”, fra tortellineschi pasciuti e “prosciuttine” dal ruffian “intorto”.

Le donne mi stremarono ma, più che al mare, gradirei che a Bologna giungesse Amauri, calciatore “rottamato” perché io, da Uomo “spezzato”, lo a(m)m(ir)i per qualche mirabile balistica che, m’auguro, non “imballino” più.

I miei coetanei godevano nello “sbaciucchiarla” da ciuchi, io, oggi, mi son imbufalito da Falotico, con un primo piatto di cannelloni (una cannonnata!) agli spinaci (per il mio braccio di ferro) e faraona con patate al forno senza “contorni” muliebri né effeminati.

E, a poche ore dal mio onomastico, son mastino mentre gli altri masticano di rabbie e invidie.
E, coi buoi, mi sento meno “buono”.

Applauso!

Firmato il Genius
(Stefano Falotico)

  1.  A Christmas Carol (2009) La storia di Stefano Falotico, col conto in banca che fa i conti con chi non fa neppur uno “sconto”, che si scontrò nella dura realtà, tanto da “indurirlo” per l’umanità tutta.
    Da “avaro” senza “credito” a Gastone disneyano, come per “magia”.
    A tutti i miei detrattori, nella loro valle…, da “coniglio”, consiglio il “saggio” dittico del Kleenex: il fazzoletto asciuga i pianti e assorbe ciò che non avete seminato, ma seminal si “masturba”.
  2.  A Beautiful Mind (2001) La storia di Stefano Falotico: genio scambiato per “cretino” solo perché non accordato all’imbecillità adolescenziale, si cuccò, di gran “posteriore”, una Jennifer Connelly e una collana di libri per un Nobel “postumo”.
    Nel Mondo esistono gli impostori e chi ce l’ha sul collo, anzi, di culo!
  3. Midnight in Paris (2011) Domani, sono stato invitato a una festa con ospiti Marilyn Monroe e Ava Gardner.
    Invece, farò sesso con Glenn Ford.

 

Auguri di nuove natalità e an(n)alità a questo bacino d’utenza di FilmTv.It

 

Il mio hard disk esterno vien collegato alla mia mente che, in vena di svenevole “buonismo”, all’accolita dei “fratelli” di questo sito “accollerà” le sue impressioni, per una play da imprimere nel Tempo che tutti spreme e taluni, come me, rende supremi

Sì, lo so, la mia “bugiarderia” è nota mentre, ancor, nuoto di foghe che non affogano.

Sono l’irriverenza che, al sintetico, preferisce la “sintassi” senza sintesi, e, alla sinusite, i seni.

Sì, invidio “mortalmente” Ryan Gosling a Parigi con Eva Mendes.
Donna dal neo maliardo che sa “illuridir” nel “lardo” anche l’Uomo più integerrimo che non ha bisogno dell’Enterogermina.

Sì, il mio fegato, trucidato nel pensiero che Ryan “lo” lucida dentro Eva, non poco mi rende “lassativo”, no, non sono ormonal rilassatezza, anche quando sogno virtuali “furti” delle “signore” altrui.

Eva, esotica lindezza che m'”illividisce” perché a “scudisciarla”, fra i cuscini, è un “finto tonto” nelle sue rotondità, di sapori epidermici permeati nell’aroma purpureo del suo fondoschiena morbido per “irrigidirlo” in “fluidi” respiratori dopo “afflizioni” che “lì” non “lo” affissero.

Immagino Lei nuda nel vento d’una serata invernale, ai bordi della piscina, e io, elegantemente sbruffon nel mio “baffetto” già ispido, ad “accoccolarlo” nelle cavità del suo Piacere, fra onde “apneiche” e un “Dai, Stefano, più forte appena, sei penoso”, per notti infinite che s’assesteranno nel momentaneo “arresto” dei turbinii carnali con pennicchelle per poi “impennarlo” con vigoria di maggior furia.

Sì, rosico quando il mio vicino di casa, un buzzurro dalla zazzerra rasata, mi dà il “Buongiorno” in ascensore assieme alla sua ragazza.
Perché sa che se io “scenderò” precipitevolissimevolmente, “lui”, voluttuosamente, “ascenderà” quando “la” insedererà con epidemico “spermino” che già annuncia altri “spumanti” da primo dell’an(n)o.

Sì, il mio amico è un ex teppista con manie suicide, che ora, imborghesito, soffre solo d’accidia. E urla, a tutta la brava gente: “Io v’accido!”

Dopo un’adolescenza turbolenta a base di pub con Cuba Libre senza pube della sua “fibra”, dopo lagrime amarissime, ora si scaraventa rabbiosissimo perché tutti piangano quei dolori che “patì”, “patibolarmente” senza “immascellarlo” per odori di un’ancella dalle profumate d’ascelle.

Ma, a questi veri compagni di vita e di sbronze, solidali anche quando tutto si sbriciola, dedico un “Buone Feste”.

Sì, quella “là” è piccolina ma è “accrescitiva”, e quell’altro, invece, ha bisogno della Crescina per un bulbo “pilifero” ove, tra capelli diramati non più (r)amati, tutti gli spifferi, nel suo brizzolato, son “brezza”.

Firmato il Genius
(Stefano Falotico)

  1.  Pirati dei Caraibi: La maledizione della prima Luna (2003) Mathiasparrow: nomen omen, ometto che non omette mai niente.
    La “giovine scultoreità” delle ambizioni da laureato d’effervescenza cervellotica.
    L’Uomo che, al plenilunio, sa incarnare la purezza del lupo con una pupa di buone poppe. Tra un film “sobrio” di Clooney e una “folle corsa” alla Winding Refn.
  2.  Salvate il soldato Ryan (1998) Panflo: stanco delle lotte e delle guerre, delle inezie e forse preoccupato dalla “calvizie”, non “digerisce” Spielberg ma, questo film, è calzante alla sua “retorica” quanto i suoi scritti “incalzanti”.
    Di placide cadenze come un saggio che ama il “pargolismo”.
  3.  Biutiful (2010) Yume: Donna forte, emancipata così tanto che, arrivata a una certa soglia, disgusta le “colleghe” sogliole, “implasticate” nel lifting per il maschio “virulento” senza troppi neuroni.
    Se “Donna Moderna” propone un modello di femminiltà “puttana”, Lei ama l'”antiquariato” d’una Bellezza acculturata che, purtroppo, oggi come oggi, s’è imbruttita di troppi falsi trucchi estetici, senza etica.
  4.  Cast Away (2000) Lampur: da anni vive “sereno” e “imbolsisce” per finger d’essere un “debole”. Ma, fra una palla Wilson e quelle di Ibrahimovic, è sposato con una “Rita” che sa “arrotarlo”.
    L’Uomo che vuol farsi passare per uno “zecchino d’oro“, ma l’ha inzuccata più volte, tanto che ora mangia le dolci “zucche”.

 

 

 

 

Il Cavaliere Oscuro… risorgerà!


21 Dec

 

L’avevamo pregustato nel teaser…

 

 

In tutta la sua magnificenza, nessuno oserà intaccar la parola “Capolavoro?”.

 

 

Firmato il Genius
 

Sean… Sean


21 Dec

 

Chi è Sean Penn?

 

Stefano Falotico, il qui presente Genius lo “evinse” così.
Perché Sean ama i “vinti” ma ho una Sguardo “pastore” da buon vino e ottime annate.

 

 

Un falco nella Notte, non acchiappabile, mettiamola così, quasi etereo, come la luccicanza di anime in viaggio. Questo è Sean, gli elementi indivisibili della Natura, con la quale si fonde.

Aspirandone   la vita, la imprigiona nei suoi occhi, la sente.

La canalizza nelle vie respiratorie sino a deflagrarla nei gesti, nella passione, nel Cuore. Da lontano, osserva. Storie di uomini “veri”, ribelli per necessità, perché crollano i nervi e tutto il resto con loro.  Una paralisi emotiva, che “comatizza”.

Qualche frase di troppo, un pugno, un livido, dolori fisici e intestinali.

Lupo solitario, storie di uomini al “bivio”. Di uomini che odiano se stessi, ma se si uccidono…

Tre giorni per  la  verità,   riflessi(oni)  alcolici/coliche,   nel traffico

“mesmerico” di bei ricordi, quando si era felici, anche di poco.

 

La promessa, una vita che non ha più significato, bisogna darle un senso, una direzione che riappacifichi   il tormento. Di un buio esistenziale. I dadi, il caso, la frattura delle tempie, la “pazzia”.

Into the Wild, una scelta assurda, vivere in una non vita, a contatto con la foresta, il  tramonto libero  dallo  smog  e dal chiasso.

Le parole nitide di un “Perché?”.

 

Sean, un Uomo difficile, ombroso che chiede alla sua Donna se lo ama per ciò che vede, un attore di Hollywood, o per ciò che è.

Un Uomo come tanti, con una ruga e uno Sguardo infrangibili. C’è n’è di peggio, gente che si finge amica, lavora e poi marcisce. Rabbuiandosi. Gente che corrode, erode, guasta, si affila.

Vieni travolto dal Fato. Immutabile.

Formicolante.

 

Giocondo tramutò in pianto, come un trucco che si  scioglie, macerando  la pelle.

 

Anime bucate, che spendono i loro ultimi soldi, la vanità residua in furti, in dozzinali inganni per turlupinare  il debole.  Deboli, appunto, stritolati dal Sistema, sempre fuori giro, schiavi dell’ipocrisia mendace, del lauto guadagno che, “divaneggiante”, ruba le tue viscere, mangiucchiandole, le spolpa, le “deossifica”.

Il Cinema di Sean Penn è un giro tortuoso tra le nevi e i ghiacci, sudato come un animale in gabbia.

Si dimena, salvo venire graffiato, da unghie rapaci, crudeli come avvoltoi che fremono per un po’ di sangue, leccano, uccidendoti.

C’è n’è di peggio, persone che lavorano ed educano male i figli.

 

Li picchiano, poi altri vanno via, o meglio svaniscono,  come onde del mare, ascendenti, ma poi t’inabissi, le capti, le fotografi mentre aspirano l’alba. Mentre la vita intona il suo lamento. Che cosa sapete di me? Di quel che tengo nascosto. Di quelle ombre, imprendibili, che battono lì dentro? Invisibili agli occhi altrui.

Sussulti che miagolano, come amori invernali.

Nella baia “irrespirabile” di un mattino tenue. Mentre assapori la vita, mutevole, nel suo indistricabile manto, nel suo velluto discinto.

Ti butti addosso un po’ di fango e te lo spalmi dappertutto. Sogni, prima che li offuschino in carte stagnole antiodoranti.

Dietro le croci suda la verità, le camere in cui si annidano segreti insondabili. Dove i figli vengono castrati, come se non avessero spazio a una pace libera, e furtivi spiano le loro mosse, mentre tutto rivive. Gioivo, con naturalezza e libertà.

Da quel Giorno venne tutto spezzato. In monocorde utopie della mia mente. Che sfasa… sono personaggi spesso sopra le righe, eccessivi come alcol dei giorni migliori. Quando tutti bussano alla tua porta e ti porgono carezze “ammorbidenti”, lisce, come le gonne di donne dalla lussuria irriverente.

In cui godi, aprendoti alla vita, prima del buio.

 

Sean Penn rappresenta lo spirito proletario della gente comune, dei combattivi, che volenti o nolenti devono lottare, a costo di martoriarsi. O delle persone che, causa “molte cose”, si trovano nei guai, come conchiglie, come shake di un barista su di giri.

Sean per gli  amici  nasce come attore, subito  dopo  diventerà regista, duro, arrabbiatissimo, che si scola birra & sudore e se ne inebria  con  imperturbabile  spocchia  da  lupo  di mare. Ritrae uomini  stanchi,  dal  volto  segnato, dai  casi,  dalle  coincidenze andate male, dai giochi beffardi di un destino amaro, o meglio dolceamaro.

I suoi uomini giocano a carte con la morte, con l’ignoto, dietro l’angolo, pronti a darti addosso, al  primo passo falso,  spietati come leoni senza cibo. Già caduti, nella polvere, mentre gorgoglii di carne, amplessi famelici ti strizzano l’occhio. Mentre per altri, là fuori, la vita esonda, enfiata. Enfatica.

Sean Penn, un attore rissoso, “volgare” nei suoi anatemi, burrascoso, una “tempesta” che gorgoglia, esatto gorgoglia, questo termine che si riempie  e si sfoga con lamenti, singhiozzi, urla innocenti. Tra foreste, condannati a morte e pipistrelli che ti baciano coi loro “vagiti”.

Una tempesta che ti agita, scuote, e calma poi si riposa.

 

Un salice piangente, ma(e)linconico,  tremendamente arrogante. Superbo, odioso, anticonformista  come una ballata dolceamara (ecco che torna) di Bruce Springsteen, colui,  l’alter   ego  che dà forma e sostanza allo “strazio”,  poetico, ingenuo, conturbante, trasgressivo,  veloce delle  sue immagini.  Che le stuzzica con accordi, con ritmi leggeri, come guance di un bambino nudo.

 

Sean è come Springsteen, un’anima tormentata, implosa, un volto livido, “traumatizzato” da scelte anticonvenzionali, enigmatiche, “polverose”,   è  un  coraggioso,   un   brave,   come  dicono  gli americani,  che  respinge  l’altro  e  poi  lo  abbraccia, lo  copre d’insulti e poi lo stringe a sé, lo mortifica per paura di mostrare i suoi sentimenti.

È un attore/regista, un artista “schizofrenico”, capace di mille sfumature, nevrotico, scattante, saettante, saltellante.  Energico, un urlo che grida rabbia, dolore, un cinico neoromantico, camaleontico,   trasformista,   “alienato” dal suo  Tempo,  fuori moda, contro.

Un personaggio scomodo, antipatico, avulso dalla contemporaneità.

Un occhio  a parte, unico,  sconvolgente  nella  sua brillantezza “triste”, fulgida eppure misteriosa, un corpo anarchico, a volte grottesco.

Un “cattivo” incappucciato nel ruolo infelice di cavaliere dai mille volti.

Infagottato dentro una maschera da “acido presuntuoso”, è invece un personaggio crepuscolare, dinamico  nella sua poliedrica mutevolezza.

Disperato, allucinato, “fenomenalmente arrembante”. Scontroso, brusco, violento, personale.

Un Cinema  unico,  secco, capace di un proprio stile,  laddove Michael Mann è  veloce, schizzante,  da  Formula  Uno,  come gomme di seta sull’asfalto,  come sguardi di lince, dove Francis Coppola è lisergico, magmatico, pastoso, favolistico, Sean Penn è duro, ribadiamolo, iracondo,  glaciale nel suo romantico cinismo.

Dentro traiettorie di anime già morte, illuse  in  un’“affliction” permanente. Senza riscatto, gireranno solo parole nella mente, parole di grazia e giustizia, come gabbiani al tramonto.

 

La sua “filosofia” di vita è questa:   se piaci a troppe persone, vuol dire che stai facendo qualcosa di sbagliato.

Il suo Sguardo (ancora Lui), all’apparenza ingenuo, come tuo zio, come un bicchiere di vetro sul comodino.

Non può piacere a tutti, è “vecchio”, raggrinzito, orrendamente fuori moda, con tante cose dentro che dovevano rimanere lì, invece scuote le coscienze,  sa colpire dove deve, quasi investito di una missione, di un compito maieutico.

Combatte solo, con le rughe, le palpebre stanche, l’occhio cadente.

Sean Penn, un volto “buono”, un volto che riflette la sua Natura, un Uomo, una canzone, una lunga canzone.

Chi è Sean Penn?

Cosa sappiamo di lui, oltre al suo volto, secco come l’argilla del

Texas?

 

Del suo occhio, spregiudicato? Da dove proviene il suo carisma? Quell’energia?

Quasi scaturisse come un geyser!

 

A volte Sean sembra un padre di famiglia in vacanza premio a cui improvvisamente  si blocca  la vita, per un incidente, un destino che manca il  bersaglio,   per un tradimento inatteso,  per porte girevoli. Qualcuno  ha sparato a suo figlio, forse, ecco perché sei triste, ecco perché qualcosa  non  va, o  forse qualcuno  ti  ha combinato un brutto scherzo, promettendoti dal primo Giorno della tua nascita un Mondo migliore.

 

Ma sbandi, acceleri, spingi con foga e disperazione, lasci che il volante s’involi, che muta e puttana, la Notte, ti assorba nel suo silenzio.

E tra queste strade, infinite, tra le sfumature di neon caldi, ritrovi i vecchi amici, un’amante perduta, un sogno, e chissà dove giaceva, in quale anfratto labirintico.  Ora, timido, ti chiede scusa.

Lo perdoni.

Lo estrai e lo annusi, ancora profuma, eri sepolto nel tuo dolore, nelle tetre oscurità di un Cuore di pietra che rideva a tratti, balli cieco, tra gli schizzi di  un’emozione  epidermica.  Ti dipinge martire. Cristo sorridente. Clown ambiguo.

Così, senza aggiungere altro, se non te stesso.

 

La tua vita infranta, un  po’  sciocca, troppe  volte.  Che non s’arrende. Va avanti, alla ricerca di una Luce. Di un breve spiraglio.

 

 

Im a little down under, but I’m doing O.K. Got a little lost along the way

Im just  around  the corner to the light of day

Just around  the corner to the light of day Just around  the corner to the light of day Just around  the corner to the light of day

 

Forse questo dolore nasce da lontano, dove i cervi bagnano le strade col loro alito.

Chi è Sean Penn?

 

Un Uomo a cui non manca niente che dà voce agli umili, agli indifesi, ai pazzi, ai drogati, a chi combatte e muore nella fame, tra gelosie fratricide e pugni.

Gente che compie sforzi incredibili per rimanere. Vivi.

Vite frantumate, tranci.

Vite appese a un filo, corrose.

Di traumi, di morbide labbra che diventano secche.

Tu, qui esisti, stammi accanto, nel freddo, insensibile a tutto.

Forse Sean fa le cose per dimostrare qualcosa, per emanciparsi

dalla sua “eleganza”, per diventare torbido, amarognolo, stanco di chewing-gum e baci simpatici.

Sean possiede  un dono,  non  l’ha  mai  asciugato, è sempre lì, pronto, la capacità  d’indignarsi, di provare rabbia, senza sintetici cotton fioc, sporco, volgare forse.

Sean sostiene  gli  “insostenibili”,    le  anime   perse,  quelli  che crollano o sono già caduti da Tempo, sepolti dalle macerie di una vita “indignitosa”, in cui bestemmi senza che nessuno oda il tuo grido, smorzato per timore della vergogna.

Le vite “diverse”, di chi accende le candele in chiesa e prega per un  figlio  malato   per  ritrovare la  speranza, l’illusione  che  li rinvigorisca nei giorni in cui sembra spegnersi tutto, gli “aridi”, gli  antipatici, quelli  che te la  sbattono in  faccia, senza girarci troppo,  quelli  che  per  troppa  bontà  non  reagiscono  mai,  e quando lo fanno vengono presi per violenti, per “fuori di testa”, per invasati.

 

Per “gentaglia”  che starnazza, che rivendica diritti che doveva conquistare come tutti, la maggioranza,  spesso cafona, tritante, torturante, per chi si oppone, ha il coraggio  delle proprie idee, di patire sulla propria carne, come libellule senza ali.

Piange Sean con la sua risata strafottente, immerso nel livido immenso di una Notte senza fine, in cui gli porgono carezze, per ringraziarlo.

Quasi fosse un santo, Sean.

Nota gli sguardi, li (ap)punta, li incide. Dove tutto non coincide.

Soffre, lancinante, teso come uno spasmo acuto, come crisi isteriche che dilaniano le viscere.

Storie di uomini, come noi.

 

Restituisce la voce a chi ha il “torto” di lamentarsi, a chi genuflesso chiede a Dio che gli dia una mano. Che non sprofondi nella melma. Chiede un abbraccio sincero.

Guarda il suo nemico, lo sfiora e affonda le unghie, un predatore. Apre gli occhi a chi non vede, a chi cieco sbatte la testa.

 

 

Un poeta che forse pensa come me.

 

Sto bene finché non affronto la realtà, appena solo la annuso, finisco per sniffare. Ci sono i drogati, i deboli e chi è malandato.

Io appartengo a questa fascia, e ho “tutto”.

Un  televisore  piatto,  non  è al  plasma,  ma le  immagini  sono cristallo nitido, un lettore Dvd comprato coi risparmi, ma se non ci fosse chi  mi  mantiene e mi  da questi “agi”, non so cosa avverrebbe.

Finirei in carcere, ci scommetto, poco ci manca, una persona che cola, si scola.

Il mio Sguardo vuoto, senza il mio sorriso entusiasta.

 

C’è chi è ricco e se la gode mangiando sugli altri, su chi sta peggio, chi è povero e lotta tirando fuori le palle.

C’è anche chi non ce la fa.

 

Il Mondo di chi dipinge per sentirsi un po’ meglio, per tirarsi e non stirarsi, il Mondo di chi vive nel suo di Mondo, chi concepisce un’idea e sbanca, chi vince alla lotteria e chi aspetta un autobus, solo  per un altrove, più mistico, come lo immaginò.

Penn dà luce a questo Mondo. Lo affronta a muso duro.

 

 

Sean Penn da Los Angeles e figlio di artisti. Il padre Leo, un regista televisivo.

La madre, Ellen Ryan, invece, attrice.

 

Strada facile e spianata? Per nulla,   lui cercherà sempre le traiettorie meno banali.

 

Ora, la prima domanda che ci si pone, è questa:  perché Sean diventerà Sean, cosa segna il suo cammino, quali le scelte che lo condurranno a esser così prematuramente maturo, irrispettoso della frivolezza, infrangibile nelle sue durezze come marmo levigato?

Perché intraprende la difficile strada del “poco sopportabile?”.

 

In effetti, all’inizio, Sean prende il Cinema   come gioco, quasi passatempo, se ne avvince.

Partecipa con passo leggero a commedie adolescenziali di scarso conto, presta la sua faccia da simpatico birbante a registi “di là a venire”.

Tale   Amy   Heckerling   con   lo   spassoso   Fast  Times   at

Ridgemont High e Racing with the Moon.

I “filmettini” sono godibili, da serata con gli amici.

 

Poi, sotto la guida protettiva di mentori come Brian De Palma, si plasma, fino a diventarsi e inventarsi.

La burrascosa relazione con Madonna, cantante all’epoca all’apice del successo e della fama mondiale, non lo sfama. Si tratta di un film “guilty pleasure”, Shangai Surprise, davvero, davvero trascurabile, quasi una macchia.

È con Casualties of War che comincia a farsi notare a livelli più (pre)potenti. Il ruolo è quello di un ufficiale pazzo, stupratore e violento. Calza a pennello per la parte, per via del suo volto da cane bastardo, o è Lui, sempre lui bravo.

È presto per dirlo, troppo.

 

Il  film  è  uno  dei  meno  riusciti di  De  Palma,  didascalico, pressappochista, “parzialmente scremato”.

Non commuove né indigna, rimane un atto d’accusa stilisticamente perfetto. Ma senza nerbo, senza quell’incisività che marchia le opere importanti.

Meglio l’anno prima con Colors dell’“easy rider” Dennis Hopper, un film sporco come la birra. Granuloso come un orgasmo senza Cuore.

 

Un film che parla di corruzione, di sberle in faccia, di botte, di piedi scalzi.

Un film  fuori (dal)  Tempo, anacronistico,  che non  riscuote i favori della  Critica, viene  messo alla  zona “Non  va bene per oggi”.

Ma Sean impara a menadito la lezione, l’amicizia  col “madman” Hopper lo aiuta,  gli procura sostegno morale per The Indian Runner, il suo esordio come regista.

Il film stupisce, lascia a bocca aperta, inutile raccontarsela, a soli

30 anni Penn sf(r)onda le barriere di genere, si personifica  nella sua visione del Mondo. Da lì, da quel punto esatto, rimarrà se stesso, coerente a quell’etica drammaturgica, a quel modo subito riconoscibile di filtrare la realtà.

 

È  un film  forte come un leone  della savana, ectoplasmatico, persino orrorifico nel suo clima allucinatorio.

Un  film  che  passeggia   tra  le  note  ispirate   della  splendida

“Highway Patrolman”, una ballata dolceamara da blood brothers.

 

 

We played king of the mountain  out on the end

The  world come chargin up the hill, and we were women and men

Now there’s so much that time, time and memory fade away

We got our own roads to ride and  chances we gotta take

We stood side by side each one fightin’ for the other

We said until  we died we’d always be blood brothers

 

 

Now the hardness of this world slowly grinds your dreams away

Makin a fool’s joke out of the promises we make

And what  once seemed black and white turns  to so many  shades of gray

We lose ourselves in work to do and bills to pay

And it’s a ride, ride, ride, and there ain’t much cover

With no one runnin by your side my blood brother

On through the houses of the dead past those fallen in their tracks

Always movin’ ahead and never lookin’ back

Now I don’t know how I feel, I don’t know how I feel tonight

If Ive fallen ‘neath the wheel, if I’ve lost or I’ve gained sight

I don’t even know why, I don’t know why I made this  call or if any of this matters anymore after all

But  the stars are burnin bright like some mystery uncovered

Ill keep movin’ through the dark with you in my heart

My blood brother

 

Una canzone che pone l’accento sull’empatia simbiotica di due fratelli senza baricentro, con la saliva di chi non suda.

Come il Tempo che ha spezzato le illusioni di un sogno.

 

Era lì, l’avevi quasi raggiunto, ti è sfuggito di mano, come sabbia perlacea.

Ti rimetti in forma fratello, ti liquefi in questa Notte. Ubriaca come un angelo senza più Dio.

Emozioni vibranti. Anch’io mi sdoppio.

Parlo, interseco varie congiunzioni.

 

Opera prima, lucida, impressionante, vividissima. In nuce tutto Sean Penn, la  rabbia,  le  scazzottate a fin  di bene, le  bevute aspettando l’alba, il  fegato che scoppia e brucia, il  Tempo che immutabile trascorre, uccidendo i ricordi, la vita che (se ne) va, imbottigliando  in una camera a gas  ogni attimo di luce. Un film crepuscolare come un suicida che non vedrà il Giorno, tiepido, caldo come il seno di una Donna coraggiosa, sporco come un destino finito male ma ancora in piedi.  Suonano le note di Springsteen, accarezzano la neve, le facce sgualcite,  l’immutato che è già cambiato.  Lì non ci sono più prati ma c’è un edificio, dove la civiltà ha ucciso i sogni dell’infanzia, le corse spensierate che premevano sull’asfalto. Adesso non corri più, rimani dentro l’abitacolo di una macchina e sfrecci a gran velocità, annebbiando i traumi, annebbiato.

(D)entro una forma delirante, pastosa.

 

Il Cinema di Sean Penn è come uno sparo nel buio, colpisce, tramortisce, lascia  ferite profonde, laceranti,  lascia  gridare, un sibilo potente, straziante.

Mentre la vita scandisce il suo ritmo e Springsteen vive dentro questo western di anime.

 

Un bagnarsi lento, mesto, il sapore incantato dei ricordi, uomini che si scambiano effusioni con lo Sguardo, dentro qualcosa che sfuma. In un locale di spaventapasseri.

Un attimo congelato che ritorna.

 

Un lento-potente “Cuore selvaggio”, lentamente ascendente, fra la luce bianca,  il sapore lieve della Notte e le tenebre dell’inquietudine.

Come una strada lunga, mal asfaltata, illuminata solo dai fari. Attorno la vita gira, i cani abbaiano e un latrato sfreccia lontano. Notte pensierosa, tribolata.

Prendo carta e penna, cerco di dare un senso al crocevia immaginativo che percuote/scuote la mia anima,  buia, tormentata.

Mi lincia, lancinante, allucinante.

 

Un dolce, docile, cristallino sbalzo in qualcosa di meno recettivo, uno stato di trance, inaudito, non diagnosticabile.

Opaca lucentezza…

Parole confuse, deliri grotteschi che ammorbano il mio respiro. Questa mia tristezza melanconica che s’interroga, e mi vogliono

“cieco” per impedirmi di cambiare le cose, anzi corsia.

Sarebbe un delitto tacere, anzi obbligarsi al mutismo. Spegnermi.

 

Meglio rendermi un relitto, un derelitto ché affievolire l’ardore, la curiosità accesa che pulsa nelle vene, questo sangue vivo. Un flash che mi apre, con lo stomaco in ebollizione. Devo mantenermi giovane, devo scappare.

Fuggire da quest’agonia.

 

Prego, adombrandomi in  che mi  dia fiato  per  non morire, volare, correre, danzare.

Questa visione esoterica, meravigliosa che abbaglia le mie iridi, le incendia, e mi scoraggio, poi nuovamente avvolto dentro i miei ricordi.

Come non fossi mai nato, come se ieri fosse domani.

È un Cinema che ama, forse troppo come una sigaretta. Come chi non si dà mai per vinto.

Perdonami  se sono pazzo,  pare che ti sussurri…

 

 

Well I went out and I jumped  in my car and  I hit the lights

Well I musta done one hundred and ten through Michigan county that night

 

 

Se non so vivere. Se crollo.

 

 

Dopo quest’esordio inaspettato, sorprendente, entra come attore con la  A maiuscola  nel leggendario,  fiammeggiante  Carlito’s Way, datato 1993.

Ha modo di rifarsi delle malelingue, e di chi seppe solo blandirlo per la trascurabile  parentesi  del mediocre We’re  No  Angels, dove però già  seppe sfoderarsi  in  campionari  “grotteschi”  da istrione. Un film in cui ha modo di allenarsi, di sperimentare la sua versatilità.

 

Ma torniamo a Carlito.

 

Nel film di De Palma è grande, un avvocato corrotto, truffaldino, sporco, rissoso, preda d’istinti famelici, in cui non gli basta più niente.

Difende la causa di un cliente “importante”, lo tira su, lo salva, salvo poi incasinarlo.

Perde  la  testa  Sean, non  ci sta  dentro,  e  alla  fine  scoppia, tumefatto nel suo dolore.

Bang, viene ucciso sul letto d’ospedale, da una pistola vendicativa. Bang. È tutto finito, quel sogno, quel sogno (non) vola alto. Sfuma, come l’atmosfera languida di un Paradiso artificiale con

ballerine sulla spiaggia e un ritmo caraibico, profumi di sale, di

ultimi respiri.

 

 

Perché l’hai fatto Sean?

 

Potevi avere tutto, anche la stima di un grande amico, un ex combinaguai ora pulito, nuovo come Natale sotto la neve.

Perché?

 

La tua voglia, irreprensibile.  Hai osato troppo,  sei diventato vizioso.

Sorridimi amico, non sghignazzare come tuo solito. Come sei cambiato Sean…

Nel 1983 pestavi sangue, saltellavi tra le pozzanghere, arruffato come un destino infranto.

Eri un “bad boy-s”.

Quell’occhio malconcio, malinconico, tremante.

Fremevi per un tocco di giustizia, per un limpido petalo, per un

Mondo che non ti stritolasse.

 

Come in At Close Range, tuo padre, ne sei figlio, non potevi ribellarti.

Reagisci   troppo   tardi, quell’occhio   che  si  dischiude   in   un sanguigno-azzurro grido catartico.

Fissi il tuo nemico, il tuo “miglior amico”.

Hai vinto tu, l’innocenza che castiga la mostruosità. Ma, alle volte, niente è più come prima.

Una Notte violenta, accecante.

 

Hai stuprato una povera ragazza. Ti arrestano, macchie di sangue sulla tua anima spenta.

Macchiato.   Mentre la   Notte  ti  assorbe,  è  stato  un  errore mastodontico.

Essersi rovinato per colpa di troppa “birra”.

 

 

Bridge: I had a job, I had a girl

But  between our dreams and actions lie this worldIn the deep forest

Their blood and tears rushed over me

All I could feel was the drugs and shotgun

And my fear up inside me…

 

 

Now the clouds above my prison

Move slowly cross the sky

There’s a new day comin

And my dreams are full tonight…

 

 

Morto, giaci nel plenilunio, mentre sorseggi  un’utopia di un amore che ti rinfreschi, che ti riami.

 

Qualcuno al tuo fianco, meno solo. Aspettando l’inevitabile che avverrà. Non voglio più soffrire.

Stammi vicino, tiepida carezza.

Dopo il mancato Oscar, Sean pare “scordarsi” dei suoi accordi. E dondola, sereno-andante, altrove.

Calmo, poi nervoso, ancora dentro un tormento che non finisce, ti sfinisce.

Sean è così, questo volto da cane bastonato, che implode.

 

Un tipo mansueto che non reagisce, ma poi… che “china” e ammutolisce.

Sta sempre buono e subisce… ardi, in una rabbia che geme.

 

Alle volte sbuffa Sean, agli angoli della strada, come un cane dall’occhio livido. Sì, ancora la lividezza.

Spifferi che entrano nella sua stanza, mentre scrive un nuovo film,  mentre i giorni  passano nella più  pigra monotonia senza scosse.

 

Sean dà voce e coraggio agli umili, ai reietti, a chi non può dire la sua e mastica la vita, questo dono che si è trasformato in un canto straziante, strozzante.  Si ripete, sino allo sfinimento.

Dove  Dio  ha  coperto  gli  occhi  ad alcuni  dei suoi  figli,  che patiscono in un canto inerme, che prima o poi si sventra, nella lagunare palude dove i sogni muoiono,  trafitti da spine.

 

 

Sean si ripete, sì, è noioso nel suo mantenersi “fermo”, in un registro che sfoga, ansima,  si accorda su una melodia triste che poi “vigoreggia”, con improvvise accelerazioni.

Come gli zigomi anneriti, di cuoio.

 

Come Springsteen, appunto. Con la sua Luce che si staglia tra le ombre, come un microfono che assorbe un Cuore, lo trita e lo rende potente forza, una gola inferocita che ti afferra per  il bavero e t’induce a urlare con essa. Per una speranza che non si smarrisca.

Gli zigomi, appunto. Quel punto di contatto tra le labbra e gli occhi.

Tra il naso che aspira gli odori e l’umore cangiante delle tue iridi, dove la vita acchiappa un po’ di gioia e tanti dolori, mentre la ridi beffardo, per sfidarla.

Sean Penn incarna le mille contraddizioni dell’America, ha gli zigomi sporgenti, l’espressione emaciata di chi  ha preso mille pugni, ma è rimasto in piedi, forte, vigoroso, “incatenato”  al suo Credo.

Alle sue virtù, alle sue braccia, al suo coraggio, ai valori classici, quasi gospel, di una spiritualità andata perduta.

Di una primigenia “originarietà” e originalità.

Sean bofonchia parole tristi, fumanti, volteggiano.

 

Le parole di chi non può parlare e rimane intontito da un destino ingrato, forse già scritto, dall’irreversibile processo di marcia di un popolo che non sa più sognare. O li ha solo spenti in un posacenere di “mestizia”.

Di gente che non vuole svolgersi, ma si capovolge nel pianto, per dissanguare le ferite.

Un po’ stanca, tra pugni dolenti, emozioni troppo vivide.

 

Che a volte  ti  sfrecciano davanti, e  cadi, tramortito  da  una velocità che non prendi.

Come bocche di storpi, come un borbottio che si lamenta.

 

Sean Penn è forse l’unico, o tra i pochissimi, a stare fuori dal giro gracchiante, uno fuori dal coro.

Sempre, con un pizzico di narcisismo, fuori moda.

 

È l’unico, se non il solo, a girare film morali. Uno che emerge e dunque si “sommerge”.

Nell’appiattente panorama, asfittico, moralista, puritano di un’America che sconta i suoi peccati.

Ma non li riconosce.  Prega, si dispera, e poi ti mangia.

 

Cinema di emozioni che lavora sottopelle, ti lascia a bocca aperta per la sua onestà.

Un Cinema che si consuma, che non lascia spazio,  che non dà tregua, che  colpisce  a  muso  duro,  disincantato,  amarissimo, greve.

Ribelle, giusto, come un’illusione sfociata in un pianto tristissimo, che annega in una delusione, poi ritrova le energie e batte il ferro.

Un Cinema che usufruisce della sua intensità, scolorandosi in acquerelli giallo-ocra, densi come il bacio di Giuda.

Un Cinema guerriero, mai domo, indomabile. Vecchio, saggio, moribondo.

Vagabondo.

Morti e avvoltoi che bucano la tua pelle, nella calura  di un

Giorno senza fortuna.

 

Sean Penn ha il volto (s)tirato,  l’occhio di un Santo come quello dei suoi maestri.

Un occhio che implora pietà, compassione, cristologico, intenso, profondo, “ramificato”, capace di guardare la  vita  nella  sua complessità, a 360 gradi.

Come il  suo  amico  Pacino, o  quello  dell’altro  suo  mentore, Robert De Niro, un Angelo-Diavolo pensieroso, enigmatico, strafottente con un delicato “Non so che”.

Il suo Sguardo, d-entro cui s’inseriscono immagini, in cui la vita gioca col suo Cuore.

Un Cinema febbricitante.

 

Il suo Sguardo, gaudente e poi torvo.

 

Assorto, “bastardo”, capace di  prenderti  in   giro,   da  gran bugiardo.

Un bugiardo ingenuo, camaleontico. Adultero, femminile, efebico.

Limpido, cristallino, impagabilmente se stesso, Sean.

 

 

Sean Penn appunto. Sean Penn è mille cose.

Un funambolo coraggioso, dai capelli ispidi e il naso-nasone.

 

Un clown con  troppo  sangue nelle  vene, un  cavaliere  prima disarcionato e poi di nuovo in piedi.

Egli corre, rincorre.

Spinge il pedale con intensità.

S’immerge nei suoi personaggi, li deterge. Li rende se stesso.

 

Il Cinema di Sean parla alle nostre anime, le “instrada” in territori mistici,  le  esplora,   le  accarezza trascinandoci nell’asfalto,  nel cuore buio dell’America, dove i bambini  giocano a fare la guerra, dove ci si ammazza come all’O.K. Corral.

Un Cinema western, surfista, eccessivo.

 

Banale nel suo sorrisetto furbo, eppure profondo, lacerante, che si muove e smuove.

Mastodontico, vero. Piovigginoso e malinconico.

Cinema che palpita, mai cerebrale, sempre dentro coordinate in cui ti dimeni, dove quel che conta è l’anima.

Anche Sean, in questo mi rispecchio, soffre di un disagio interno che lo macera.

Lo sposta in continuazione, lo altera. Per perdersi.

Un Cinema che da solo prende l’iniziativa.

Si piglia i suoi bei rischi, e affonda, pugnala.

 

Si adira, e sventola  la  bandiera della  libertà,  di chi  combatte, poiché non ha altro.

Si commuove nella disperazione, per la contentezza, ché la vita esiste…

Così.

 

 

Well the highway is alive tonight

But nobody’s kiddin nobody about where it goes Im sitting down here in the campfire light Searchin’ for the ghost of Tom  Joad

 

Di padri che mentono, e poi accavallano le gambe.

Di madri che ti sputano per godersela da qualche altra parte. Di uomini soli, nella tempesta.

Fra le braci e le braccia di una puttana.

Di capezzoli che succhi con vorace, godereccia rabbia.

 

Mentre scende la sera, e nel tramonto sbrani la vita,  con un sofferto miagolio della tua carne.

Tutti concordano sul fatto che piangi, e soffri, nessuna carezza che ti consoli. Eiaculi un dolore incolmabile, rabbrividisci.

Sean è l’incubo preferito di chi ha congelato le emozioni, le ha messe in un ripostiglio di ricordi che non devono più agitarti. Con la candida forza di chi ti bacia, ancora.

Come rasoi affilati. Rosichi e raschi.

Vuoi  solo  le  sue  labbra,  l’umido  tepore  di  un’anima,  meno insolente, che ti apprezzi senza chiederti un prezzo.

Di chi nutre un odio, un disprezzo che lo consuma e ti rovina. Di chi stipula patti col Demonio.

E ruba all’altro un talento che egli non ha.

 

Di chi mette in   giro   cattiverie per  sgualcirti,   ché  la   tua reputazione venga messa sottosopra, ché dovrai  faticar il doppio per un posto al Sole.

Mentre il contagio sparge il suo seme in questo Mondo senza più dignità.

Mentre intoni un po’ di nostalgia.

 

Acida, come pioggia battente, come un soave ludibrio che ti anima.

Tra uomini spregevoli, tra balli in cui ti squagli.

 

Un fiume ardente.

Che balugina nel vento.

 

Uomini modesti che ridono di piccole cose, mentre cala il sipario sulle loro teste.

Dove ti affumichi, tra i cespugli. Dove spari-sci.

La stringi a te in questa Primavera che s-fiorisce.

 

Come Sean, scrivi, poi bruci tutto, destini la tua opera a un autodistruttivo falò.

Sono deliri tutt’al più, pezzi in cui ti spezzasti.

 

Gente che continua a martoriarti, levandoti l’anima, quel poco che s’annidava, di tuo.

Che giace in posti che credevi non fossero più… In cui deponesti le armi.

Gente che non lotta, “ammaina” i fucili, senza quei nervosismi che la vivacizzavano.

Gente che non conta.

 

Che, a meno che non la interpelli, non parla più, sono sussurri, tra le foglie sbiadite.

Gente che non crede più a nulla, perdipiù  alle favole,  che ha perso  i  figli  in  guerra, nel “filo  spinato”  di un  destino che prometteva altro. Invece solo garbugli, veleni che t’hanno eroso.

Gente con la birra in mano, che si fissa dritta e solidarizza con timida gentilezza.

Gente “sbucciata”.

Di baci fugaci, di un suono mellifluo che ti estranea.

 

Perché lì, mentre tutto scorre, appoggi le guance sul cuscino e dormi.

Tranquillo, nella siesta.

 

Nasciamo nudi, nella nostra innocenza, poi ti ribelli. Con ansia.

Divorando una vita che ti macella.

Poi impari, qualcuno resiste, altri abdicano. Posso?

Un po’ di erbe per medicare il bruciore. Picchi, non gliene importa a nessuno.

Abbi un po’ di coraggio per rialzarti, almeno un po’, lo racimoli lì.

Parte, ha origine dal tormento, da quel che accumuli e poi monta. In un deflagrante boom che tutto travolge.

In cui fischi e deliri.

La vita ti riporta con sé.

Ti trattò in un certo modo, adesso è tutto come prima. Quanto posso durare così?

Mi rendo duro, m’indurisco, ancora è vicino quel ricordo che mi tirò via la pelle.

Che mi ustiona ancora, pare oggi, e quelle reazioni, eccessive, di lividi… Di una “sberla” con le nocche a mia madre.

Sean sbertuccia l’ipocrisia.

 

È  la  fronte  corrugata di  chi  ne  ha  prese  di  botte,  di  chi, raggrinzito, fuma.

Per annebbiarsi.

Si cerca sempre, e a ogni domanda non trova risposta. Sean continua, rema-trema, come dico io.

Nel mare-marea in tempesta.

 

Come nella sua seconda opera, The Crossing Guard, tradotto in Tre giorni per la verità. La verità appunto, che non esiste, è solo un’utopia, una vana speranza che ti disillude, tanto non c’è nulla, ognuno si porta dentro il suo dolore.

È la storia di tre anime, di tre cuori solitari e di un Cuore spento. La storia di un uomo che è separato dalla moglie e ha perso il

figlio per “colpa” di un automobilista “in avaria” che, come si

dice, aveva bevuto troppo.

 

La storia di un Uomo, più che altro un’ossessione, che vuole vendicarsi di chi gli ha rubato l’unica ragione di vita. Suo figlio.

Il padre e il “carnefice”,   entrambi   legati a doppia mandata da questa tragedia orribile, la morte senza preavviso, senza allarmi di sorta, una morte che squilla e ti lascia di sasso, con le membra rotte e il fiato senza polmoni.

Asfissiante come una donna di paglia.  Non c’è altro in cui credere, se non “arrostirsi” con un’altra birra, condensarsi tra le sfumature grigiastre di una sala s-colorita, tra puttane e vizi per noia.

Tiri fuori un pacchetto di Marlboro, te lo “scoli”.

 

Poi torna l’incubo, la realtà che ti sgretola, a poco a poco, uno zombi che zampetta tra la folla, mentre tutti ridono e tu, con la morte dentro, fai finta di starci bene, “fuori”. In mezzo agli “altri”, a chi scherza sempre, mentre tu esorcizzi tutto con un urlo rabbioso che non emetti né liberi per dignità.

Ti strozza, la tua gola geme, nel silenzio incomunicabile, qualcosa, qualcosa, un rumore impetuoso che ti agita le viscere.

Forse, uccidendo chi ti ha ucciso, troverai pace, e sarai come prima. E, se non come prima, almeno sorridente. Poi scopri che il  “cattivo” tanto cattivo non  è, anche lui  ha perso qualcosa, anche lui  non è più  lo stesso, è un taglio lacerante,  un grido straziante che non tappi con le carezze, un orgasmo che non si penetra.

 

Aspetti le onde soffici del mare. O un’alba serena, dopo la lunga

Notte infinita. Stringendo la mano di un fantasma, forse.

 

 

Last night I dreamed the sky  went black You were drifting down, couldn’t get back Lost in trouble, so far from home

I reached for you, my arms  were like stone oh, but you were missing, missing, missing Searched for something to explain

In the whispering rain and the trembling leaves

Tell me baby, where did you go

You were here just a moment ago

 

 

Missing

Qualcosa che va via…

 

 

Sei lì, da solo, mentre impazza  la guerra e, solitario,  cinico, ti frantumi al crepuscolo, tra i sogni sbiaditi d’innocenze  perse.

Enigmatico come un fremito.

Come flash accecanti.

 

La sottile  linea  rossa,  che ansima  e rimani  appeso a quel filo, intermittente.

 

 

Sei un simpatico cialtrone come un musicista “fallito”, fra accordi

& disaccordi, armonie che stonano con la vita, un talento irruente, volgare ma ingenuo.

Come un bambino capriccioso che stuzzica le corde. Strimpella di getto, come sangue di un amplesso “sereno-andante con brio”.

 

Sei un poeta ermetico che desidera un adulterio che lo distragga, che “voracizzi” il suo tormento.

Ripido e scosceso come un incubo. Sean Penn, o meglio S(e)an Penn.

Anche quando “ridi”, nascondi la tua identità. Sorseggi del vino, ti “sorteggi”, per una sorte migliore.

Sean, la sua voce che gracchia.

Il suo saliscendi, quasi sempre sofferente.

Fitte al  Cuore, dolori  intercostali,  come peccati inestinguibili. Non  c’è  redenzione,   nessuno  è  salvo,  dentro  il   fiume  mistico scorrono le anime sporche di un’America che spara a chi non ha colpe,  i destini  irreversibili  di anime perdute, come angeli che bussano alla tua coscienza.

Toc toc, il rumore sfuma in un “dolce domani”.

Il Cinema tragico, il più delle volte, di Sean Penn.

 

 

L’autostrada di un Cielo nitido e deserto, qualcosa che resiste, vacilla e crolla. Uno spazio vuoto, solo una pianta, pochi frammenti di luce, una speranza, la metafora del domani.  Il Tempo che segna, le rughe, il mistero, l’allucinante flash, il boato di un terrore che ha spezzato il nostro diaframma. Il domani…

 

It’s rainin but there aint a cloud in the sky Musta been a tear from your eye Everything’ll be okay

Funny thought I felt a sweet summer breeze

Musta been you sighin’ so deep

Dont worry we’re gonna find a way

 

 

Im waitin’, waitin’ on a sunny day Gonna chase the clouds away Waitin’ on a sunny day

 

 

Domani il dolore  svanirà, come 21 grammi,  senza peso, leggero come libellule nel prato.

Dentro una nuova rinascita.

 

Meno tortuosa, più   fluida,   acqua che sgorga in   zampillii fluorescenti.

 

Un Cinema “muto”, fatto di silenzi, di pause, di andirivieni della coscienza. Nebuloso, frammentario, “esoterico”, sciamano.

Un Cinema   che privilegia   la   corrente interiore,    gli   sbalzi caratteriali, classico, lineare, atemporale.

Un  Cinema  che  sente  troppo,  e  trattiene, trattiene per  non impazzire, un Cinema erotico, appassionato e passionale.

Sean Penn è l’anima “bruciata”, sospirante, piange in silenzio, senza dare nell’occhio.

Inturgidisce le sue vene di sentimenti forti, veri.

La sua enorme voglia di vivere, il suo occhio cristallino, puro. Sbanda, ritrova la via, poi la “sigilla”.

 

La serenità è solo un attimo, poi s’infervora di nuovo, è assordante, un “brusio” che cresce, lievita, si dilata.

La bacia, si lascia cullare, coccolare.

 

La prende con sé, la porta a fare un giro, mostra la sua parte più buia, meno evidente, più “intraducibile”, quella parte che sta nei nostri cuori e fatica a uscire, come “arrestata” dalle nostre paure, dai nostri timori, dai nostri tabù.

Sean Penn parla, parla della “tribù” degli scontenti, dei vagabondi senza dimora fissa, alienati dalla loro “vivacità espositiva”,  dalla loro ilarità senza freni, spontanea, esultante, catartica.

Parla di sguardi “morti”, di fantasmi che riemergono e rivelano un Passato triste, un passato pieno di ferite, segregato dove puoi stare meglio, nel Mondo in cui non hai bisogno di farti troppa “pubblicità”, anonimo, un Mondo che passeggia.

”Strano”, magico, morboso, “appiccicoso”. Infantile nel non prendersi   troppo   sul   serio, nell’allontanare   la   “condizione umana”.

Sean Penn guarda, fissa, dice-non dice.

 

Hai mai perso una foto o una poesia importante?  Che era una parte di te?

Non c’è più…

Solo punti-ni di sospensione.

 

Parla di cose che non andrebbero dette ma ipocritamente tenute legate, scioglie le inibizioni.

Riflette, si pone dei dubbi e non sta zitto. Ammette le ingiustizie, rende visibili le tragedie.

Dà voce a coloro  che non  possono  parlare, che rimangono incastonati dentro “ingenue”  banalità, viaggi pindarici senza uno scopo preciso.

 

Sean Penn è un attore-cantante, una melodia incalzante, forte, una cellula impazzita, ossessiva, ripetuta fino allo sfinimento.

Strimpella una canzone giocosa che tanto giocosa non è. Poi si sveglia e grida.

Il suo Cinema è “lento”,  afasico,  affannato, “al  ralenty”, con improvvise accelerazioni.

Non è altisonante, è senza Dolby-Surround ed effetti speciali, è mellifluo, insinuante, allegorico, mesmerico, giocato sugli sguardi, i mezzi toni, le “tracce”.

Appare-scompare, fulmina, fulmineo e fulminante.

 

Psicologico senza esserlo, giocoso, una scala a  chiocciola  di umori, sensazioni, parole non dette, soffocate, (s)premute.

Interiorizzate.

 

È come una morbida  mano, ti accarezza le  guance, ti lascia smarrito, non sai  (in)seguire,  guardare, oppure fermarti, assaporando l’attimo.

L’apoteosi di questo barocchismo emozionale.

È sconvolgente, anima i sensi, li scuote, esaspera(nte).

 

Non ci sono molti dialoghi, un’estrema forma d’agnosticismo, un mistico lirismo.

Perpetuo, abissale.

 

Sensibile Sean, forse troppo duro, e lasciamo stare  le  sue avventure, le sue marachelle con questa e quell’altra Donna dello show business.

Non ama i compromessi, slabbrato, “fuori fuoco”, rispetto alla maggioranza, incerto persino con se stesso.

Sempre oscillante tra follia, normalità e  mistico,  allucinatorio dolore.

 

Non si rilassa mai, ha il volto di bronzo, l’occhio luciferino e allo stesso Tempo candido, innocente come quello di un bambino, il volto sgualcito da sigarette Marlboro, “strappato”.

Teso, contro un incubo chiamato vita… Che, prolissa, spesso si spezza.

 

 

Ce n’è di peggio, gente che lavora e poi finisce pazza.

 

Gente che non lavora perché non può, gente che non vuole più entusiasmarsi.

Gente che si macera in un bagno di sangue, senza più grammi di ossigeno.

Gente che perde le mogli, altri che sudano, lacerandosi in tormenti, altri senza più una lira,  sbranati dal  destino, che li travolge col suo fiato.

Il Fato.

Un Uomo di nome Sean nella Jungleland. Gracchia, gracchia, un sibilo.

 

Sean Penn, che anche nei film “alimentari”,  quelli che gira per “gavetta”, come il  giovanilistico   e  già  citato Fast Times at Ridgemont High, dimostra, anzi  mostra la  sua immagine  di ribelle, grezzo, già “bad boy”, “non adatto” a un Mondo che ti piscia in testa fin (da) quando hai coscienza.

 

Sean Penn, l’anima ruvida, tenebrosa, claustrofobica. Sean Penn, il volto lumeggiante di una melodia, luna-re. Liquido, vagabondo, sempre “di traverso”.

Crespo.

 

La Natura incontaminata dell’amore

 

C’è un nome che ha risuonato per tutta la visione di questa opera magna di Sean Penn: Elena.

 

No, non scherzo, sto conversando da qualche Giorno con una creatura che m’ammalia e ha sedotto un Cuore infranto, restaurandolo con “canagliesco seviziarlo” al fin taumaturgico di ripristinarne l’aroma troppo smaltato da una patina dolciastra che, di corrosive, taglienti “redini”, opprime, attimo dopo attimi a oscurarmi, l’anima mia più eccelsa per cui nacqui: l’astrazione, innata di divinatoria concezione metafisica della vita.

Le ho dedicato una poesia, vergata nei capelli suoi “lagrimosi” di melanconico umorismo furbetto, per odorarla, anche da lontano, nella porpora viva d’un fruscio erotico che eccita l’eclissata pulsione d’amarla, tergerne gli occhi in baci d’addolcir in tramonti che “piangan” l’estasi della nostra folgorazione in un Mondo sempre più divorato da crudeli brame di falsità.

 

Il suo nome vero è Elena.

M’irride, giuocandosi imprudentemente delle mie pazienze, ma poi non “stacca”, allacciata d’ipnotiche empatie, e attratta da come non cedo nel mio danzarle, sobrietà medioevale schiumata  d’alcol  fantasmatici,  nei  vagiti  sinuosi  in  cui smania di troneggiante passione pura. Già “invisibile”.

 

Sì, me ne sono invaghito, e quest’incantesimo non si spezzerà in luci offuscate di borghese, “melenso” crogiuolo d’obblighi o circuito dall’inganno maligno in cui molti, di consapevole pattuirsi da ipocriti, rinnegano l’essenza per poi rapirsi, sì, rattrappiti d’ischeletriti battiti strozzati, d’ingiallite vene a “onorare”  pragmatiche  d’un  ematico  dolore  mai  sviscerato, mai urlato e disincarnato come un sogno mistico che “ferisco” nella lirica contemplazione d’onirici intrecci spirituali, d’agon sensuale e”cristologico”, ascetica finezza del sospiro e del gemerci.

 

Perché peccare di “virtuosa” pacatezza quando i profumi della vita riscoccano in ansiti d’assoluta e messianica libertà?

 

Sì, la amo…

E questo mio pensiero si concilia con questo capolavoro. Indecifrabile viaggio esistenziale, d’una strada da lastricar di sangue “appuntito” nei polmoni, d’urgenze impellenti e denudanti  a  esplorar,  “violentare”  la  deflorazione cosmogonica dell’interiorità umana più profonda, come raggi di “vitrea seta” d’un assetatissimo, inesausto Sol battagliero (t)ersissimo, intrepidamente fiero e “(in)cosciente” nell’ululato lunare di notturne, guascone “morti” d’euforia folle del nostro man walking rinascente.

Un’evirazione sofferentissima ma vivifica, illuminante dalla società, come intona un “triste” Eddie Vedder nell’utopia dell’happiness angosciante, anelata, disperata e forse celestialmente “immersa” nelle aspersioni d’iridi toccate da un Dio armonioso dell’imman beatitudine della salvezza.

Colonna sonora “fluviale”, tene(b)ra come già detto del leader dei Pearl Jam in rifulgenti (as)soli intinti di fluorescenza temp(e)rata, anche allucinatoria, che urla “cupamente” abba(gl)iata  proprio  nel  picco  di  “The  Wolf”,  nona  track, l’unica ch’è un vagito, una sprigionata, inafferrabile, “ferina” redenzione dalle ibernazioni del mellifluo grigiore, e vola incorniciando, sghemba e dissolventemente turgida, dinamicamente statuaria, il selvatico liquore del primordiale, creatural incanto.

 

Culmina, rocciosa di montagne, nella sua sommità.

Il  candore  di  Chris  McCandless  muterà,  traslucido,  nel febbrile Alexander Supertramp, eruzione nella sua licantropica, vulcanica, irrefrenabile voglia di fuga dalle istituzioni e dall’asservimento logorante, asfissiante e caudino.

Capitoli scanditi dall’evoluzione che corre veloce, scalpita ed è illiquidito “marmo” (im)perfetto del senso, sfiora occhi innocenti (una Kristen Stewart “tragicamente” magnifica) e preferirà l’innevata e florida Alaska d’un magic bus perso tra le “foglie” fotografiche del Tempo, nella memoria istantanea, memorabile d’un autoscatto a immortalare un Uomo.

 

Nel planarci, soffici, d’un ricordo inestinguibile.

 

Forse, il valore e grondante dolore di questo film è inciso nello Sguardo (dis)illuso di Vince Vaughn, uno dei tanti compagni dell’avventura  in  cui  Alexander  s’è  imbarcato,  quando  lo lascia solo al “volante”, come a “mordergli” amorevole un “Vivi e ama come desideri, come imparerai da solo”.

 

E non si coagulerà…

 

 

(Stefano Falotico)

Tu vuoi vendetta… te lo ricordi?


21 Dec

 

De Niro di Cape Fear, nella sua cadyana rabbia contro la società caudina, aveva tatuato sul braccio la scritta Vengeance is mine.

 

 

 

Firmato il Genius

 

 

 

Dracula ama la cucula, con cui si “culla”


16 Dec

 

Son Uomo dalla mandibola che s’intristisce con Fiorella Mannoia, e, al film Magnolia, preferisco il Magnum.
Perché io son febbrile senza medicinali febbrifughi, e son un fungo che in tutte mi “f(i)ondo”, per funzioni religiose da “untore”.
Io non fuggo mai, perché non fui, ma nei miei fumi m'”imbottano” contro chi mi rimbrotta.
Ché vada da sua sorella, e la “insuori”. Io, sono la sonorità!

 

Salve, amici della Notte infausta, perché Faust è mio amico, e io gli ammicco.
Me ne sbatto degli eroismi da Pietro Micca, io son lo smacco che, nelle oscurità, si “macchia”.

Sì, abito in un castello, in cui spesso danzo senz’abiti, “talare” o nei mantelli alari.
In questa opaca Transilvania, ove ceno con Silvia per poi gustarci in selvaggine. Forse, solo la sua vagina…

Quando m’annoio, noleggio un film dalla videoteca “Il luppolo rosa”, ubicata sotto la mia valle, e gestita da una villica signorinella che, nel Tempo perso, fa la valletta.
Io non avvallo il suo stile di vita, ma quando accavalla anche i miei “puledri” s’imbizzarriscono.

Nella mia magione, spesso, occorre il maglioncino, e talora coi miei lupetti coglioncini gioco a scacchi, e dopo mi scaccolo.

Respiro nella mia dark room, un po’ nano lynchiano e un po’ immerso nelle “tenebre” di Laura Harring, per “meringhe” con cui ci dissanguiamo, sì, sanguineremo ancora, contro le sanguisughe, col nostro sugo “immozzarellato” nelle “pizzaiole”.

Detesto la borghesia, che alleva “bravi” figli medicandoli dalle “erbe cattive” con pastiglie da “erbolario”.
Di mio, son più e più viventi, “pipistrelleggianti” vocabolari, e combatto, strenuamente e anche un po’ stremato, chi vorrebbe che tremassi e non sia più letterato.
Io “allittero” nell’aglio che “la indattera”.

Alito sui colli virginali, “stringo i denti & vado”, poi “vengo”, mentr’Ella sviene nella sua morte apparente del mio morso col canino nell'”apparecchio” e, del macabro coi candelabri, son” burrocacao” in amplessi “necrofili” affiliati all’emofilia di globuli rossi senza cotone idrofilo.
Dunque, son necrofago, appena, al plenilunio, apro il sarcofago.
Perché, dopo l’insonnia del Giorno nei “sacchi a pelo”, m'”impelliccio” nel “pellame” di qualche Donna polla per il mio Sesso d'”ampolla”, anche un po’ ampolloso, in questi rigidi inverni che lo irrigidiscono sì, ma spesso non “lo” induriscono… come si deve.
Ah, quanta neve, qui fuori. Ma io preferisco infornar “caldo” nel “foro”.

Anni fa provarono a irregimentarmi, affibbiandomi un lavoro socialmente utile, perché anch’io diventassi uno che guida le utilitarie e canta con Renato Zero “Il carrozzone”.
Preferisco le mie carrozze, e il mio amico-“coniglio” che, di carote, traghetta le anime peccatrici come Caronte.

Volevano che m'”adattassi” e imposero dei paletti.
L’unico paletto che, con me, potrebbe funzionare, è quello d’avorio.
Ma, oramai, son talmente livoroso, che son così corazzato contro chi prova a scassarmi la carcassa.
M’incazzo, e mi mangio la sua “cucuzza”.

Potevo scegliere di diventare un avvocato, per “vocalizzi sensuali” con Anne Hathaway, ma quella ragazza mi fa “senso” e “le” preferisco Carmelo Bene.
Anche se, la pornostar Carmella Bing, con me fa “Bingo!”.

Con questa Luna, è tutto per oggi, è scattata l’alba e io son sempre meno scattante, apatico, perché tutti sanno che Dracula è metereopatico, patì molto, e dunque di “meteorismi” gioca con lo sfintere “al gargarismo”.

Applauditemi.

Sono Bela Lugosi-“la bestia” con la Bella, Frank Langella con l’ancella e la “pistola” che se ne frega dei pistolotti, ma “lo inginevra” al Lancillotto, Christopher Lee un po’ Nic Cage coi miei stress da vampiro, e soprattutto Gary Oldman con la “gentilezza” di Cary Grant che tutte le “scotcha” al Glen Grant.
Perché, anche se mi beccherete in flagrante, su di Lei sarò “reato” del suo corpo nella nostra fragranza.

Firmato il Genius-Vlad, vada come vada, sono un “evaso(re)”.
(Stefano Falotico)

 

 

 

 

 

Agguanterò l’Oscar, perché son sempiterno nel mio guanto di sfida


12 Dec

 

Be’, qualcuno dirà “sfiga”, ma è meglio che “pelucchiarsi”, dunque spelacchiarsi nelle “spelonche”, la figa tanto agognata.
Ah, come di quella sorseggiano, sorridendola.

Mah, ho sempre creduto che gli Oscar siano una festa ove un bell’Uomo, cioè me, se ne sta stravaccato sul divano a vaneggiar, e aspetta che colui, per cui tifa, vincerà.

Non tutti son meritati, già. Ma è meglio che metter il dito fra moglie & marito.
Ah, quanti appuntati ci sono, e quante donne appuntine che non si fan cocer a puntino.
Io, invece, scommetto sul più “simpatico”, spesso quello che nessuna ragazzetta vedrà mai con la statuetta.
Sebben, si chiami, semmai Vanessa, e di sua nudità statuaria è “le(on)essa”.

Suvvia, è un via-vai di attori che si scambian falsi complimenti e dalla mente spesso poco fervida, ma avida.

Fatto sta che, questa Notte, almeno, non prendo le botte, e il mio “borbottio” guida sull'”ottovolante”.

Voglio ricordar per voi due momenti per cui valga la pena di vivere.
Sì, “Lui” s’impenna quasi sempre, nonostante gli anni passano e le passere passeggiano.

Ma, oltre quell'”alzarlo”, io m’alzo in gloria, quando questi qui, “lì” a tutti lo misero.

 

ll Bob scatenato…

 

E, il Clint, indimenticabile…

Il caro canale degli Oscar(s), non ci permette d’incorporarli, peccato…

 

 

 

Firmato il Genius

 

 

Duri, quasi “germanici”, spietati


11 Dec

 

Eh sì…

 

Orrore di un allampanato che non s’è attenuato: “potatura” di albero ad alto “fusto”
Anno 1995, verecondia issata nelle ramificate mie “zoologie” d’una spietata, quantomai atroce “concretezza”, dopo i sincretismi “astratti” d’astral viaggiar in soavi nuvole “insaponate” da ricattatorie menzogne. Splende come ieri, e m’illuminò da chi lo “suggestionò”

Sì, i minuti scandiscon “cardiaticamente”, il Tempo che non m’ossida nel mucchio ischeletrito di zombi pingui nel “pastasciuttarla” di pasciutezze asciutte in anime che han spellato l’animismo “animalizzandolo”.

Di come, per sciagure “cerebrali” che involsero ad avvoltolarmi in cervellotica, perenne abulia, incontrai un balordo che capeggiava la sua tribù di bui “classisti” per evirar il mio gaudio e “clericarlo” alla varichina, o peggio acclararlo nella “follia”.
Di come tentò di traviar la mia vita “aviatrice“, spezzando le “ali” da Icaro perché non s'”accalorassero”.
Quella spontaneità repressa e indotta a deprimersi, quei pudori castigati dall’acuminato livore di proibizioni “probatorie” delle mie presunte “pazzie”.
Tutta la sana ferocità degli istinti, ammansita da quello “sguardo” un po’ paternalistico, un po’ “analistico” da schifoso guardone, da chi si vezzeggiava in compagnia a “mafieggiar” d’emozioni altrui, “legiferandole” con sferrar pugni alle loro dignità.
Le crasse risate “indagatorie” ad avvizzir anche il più tenue “boato” che voleva solo “beatificarlo”, conficatto di paletti d'”avorio”, di avida malignità a sgualcir la poderosa brillantezza d’un corpo e di una mente amante perfino delle sue “dissipatezze” o del gusto profumato dell’ansimar “vaginandola” in un’identità virile anche quando, onanista, si tergeva di lubrificazioni “vagabonde” per fornicarsi senz’esserne soggiogata da donne di “godereccia” goliardia o da lardosi “puledrelli” dall’uccelletto vivace. L’essenza scarnificata del “ragazzismo” becero di chi, incosciente, fra loro, si macera.
Orripilante macelleria!

Sì, m’appare l’angoscia d’un incubo che raccapriccia, ancora, una famiglia che mi “torniva” d’avvilente boria, con la presunzione manichea di “dotti” saputelli per intinger la “brace” nel sangue di chi era vivo o, di vividezza, rifulgeva d’ogni ardita bramosia, senza mai incenerirla in lavori mendaci e in fameliche corse al guadagno, ove il materialismo si “permeava” di bavose “tragicommedie” da frivoletti col pensiero stampato nello “stapparlo”.

Ah, come li assediai, per aver solo pensato d'”affrangermi” e infranger quei sogni che m’erigon nel mattino “marmoreamente” arcobalenico contro il loro Mondo libidinoso e di flatulenze sessuali, e di quel putrido grasso che cola. Ne siete avvinti, ne siete paurosamente, ah, come ne fuggo…, “vittoriosi”.
Ah, quanto rabbrividisco, or che son immerso nella lietezza dello spensierarla, nel tramonto sempre acceso di rossastre evasioni.
In cui le lagrime son scalpitio del tormento dei miei abissi.
La “marinità”, una soffice carezza nel vento che mormora.
Le crudeltà, l’arrocco difensivo dei deboli.
E la mia magnificenza, di grido irreprimibile, la vigorosa forza delle mie membra, o di un’altra mia ombra che non sarà più, mai più, offuscata.
La catarsi nella sua resurrezione, la prelibata sorgente d’esser ancor allibito dinanzi agli abomini, ed eternamente nella purezza che, di decadenti brezze, fischia dentro un grandioso ululato da “martire” che li ha martoriati.

Firmato il Genius
(Stefano Falotico)

  1.  Gli spietati (1992) Un torto troppo grave, imperdonabile, e l’antico guerriero, in una piovigginosa Notte vendicativa, “sfregerà”, a nitidissimi colpi di pistola, una mortifera allegria di “sceriffi” o solo un “califfo” con le sue caraffe e puttanelle che “arraffa”.
  2.  Mystic River (2003) Mai dire “buono” se è un lupo, e mai sparare su chi è innocente.
  3.  Debito di sangue (2002) Il tuo “migliore” amico, è colui che voleva “assassinare” la tua vita.
    Perché, ha sempre saputo, che lui è una merda.
  4.  The Aviator (2004) E se cambiassimo il finale?
    Howard Hughes, dopo la “malattia”, spaventa di nuovo tutti con la sua titanica grandezza da gigante Orson Welles.

 

 

 

De Niro, prima del nuovo anno, la vedrà “bianco”-nera?


11 Dec

Ardita domanda, anzi, arde.

 

 

 

 

Ah, non lo so, certo è, che ogni tassista roniniano ama la Sevigny…

 

 

Firmato il Genius

 

 

 

Il film della (mia) vita


11 Dec

 

Passan, “infingardi”, i giorni, pedissequi o a inseguirti, ma non ti scalfisci, e quella folgorazione è ancora viva.
Voce, la mia, soffusa, d’un film che non s’offusca mai.

 

 

Taxi Driver…

Di notte vengono fuori gli animali più strani

Iris del gruppo Mediaset propone da stasera un ciclo di nove pellicole dedicate a Robert De Niro, che, ripetiamolo, per i tardi di comprendonio e per i detrattori che ancora brulicano (purtroppo esistono anche quelli e dobbiamo sopportarli), è indiscutibilmente uno dei massimi interpreti della storia del Cinema.
Si parte col capolavoro immortale di Scorsese, quel Taxi Driver, Palma dOro al Festival di Cannes del ’76.
Immerso nella fotografia di Michael Chapman, è un film che non ha bisogno di presentazioni, a ogni nuova visione acquista sempre più fascino e valore.
Travis, Uomo della Notte, “straniero” in un Mondo “ostile”, angelo marchiato nella solitudine, ombra adombrata dalla sua ansia e da un insostenibile male di vivere che lo condurrà a un gesto salvifico, quasi una catarsi per rinascere.
Non mi soffermerei a elogiarne i meriti, mi parrebbe pleonastico, su questo film epocale si è scritto di tutto e di più.
È un dovere innamorarsene, amarlo, ed essere eroi metropolitani delle luci al neon, delle strade malfamate di un’America alienata che guarda le depravazioni, lo Sguardo febbricitante di un Uomo “solo” anche in mezzo alla folla, della furia che lo possiede nel suo trasformarsi in giustiziere, il cowboy col taglio da mohicano, in un’America che non dorme sogni tranquilli, soffre d’insonnia.
Magnifico, insuperabile, una perla fra le perle del grande cineasta Marty e del suo sceneggiatore “di fiducia” Paul Schrader. Oltre il capolavoro, oltre tutto e l’immaginabile.

Cowboy notturno

7 Dicembre 2011, ore 21:10…

Ripassa sul canale, Iris, o da pronunciar “airis” come Jodie Foster…

Ermetici, nottambuli, svagar nell’ammansito pudor che s'”orgasmizza“, “lacerato” a pelle o in sé allacciato, di stentorea fame in un marmoreo grido che fu tetra, feral oscurità dell’anima incupita o nelle tiepide luci lunari “assolata” nella sua pacata solitudine che si “crepuscolò” nell'”evanescendola”, assiderato da battiti cigliari nei “gracchii” del gelo o d’una maschera funerea a scolpir le cardiache levità sempre assopite, i tenui grovigli ad avvinghiarla per auscultar solo profumi mai incendiati, selvaggio crepitio d’offuscate danze nella Notte e nella sua immersione opaca in sulfurei colori per abbagliar la nudità mai abbigliata o le palpebre timorose d’accecarla nei “vitrei” fremiti.

Passeggero di nera cupezza o di suo puledro ero(t)ismo, nell’incendio di “cristalli” tonanti di densa foschia “glaciale” o di morbidezze innamorate di angeli biondi a temprar la lussuria avvincendola all’ischeletrica insonnia che “martirizza” il sonno e anche il risveglio, l’imperioso boato dei madidi labirinti a giacer con le iridi nei loro “liquori” più sibillini o liturgici nel soffice romanticismo di graffi intinti nel buio di represse ferocità, il suono della violenza è un vampiro che si squarta “vitorioso” nella catarsi, nel risorgere d’una rinascenza che si terge d’ogni suo peccato, “lagrimandolo” di sangue o d’un altro “nitido” bang dagli affreschi lividi di porpora.
Vitale, ansima di respiri eterei, immortalmente, è vividezza. Alba nel suo urlo magmatico.
E, si strugge, poetico d’un altra “sua” New York.

(Stefano Falotico)

Tributo ad Al Pacino


11 Dec

 

È sempre maestosa la piacevolezza di vivere, quando s’incontrano persone affini, con un’anima simile e con passioni vigorose, soprattutto cinefile.
È il caso dell’amicizia fra me e Giuseppe Avico, ché, sul viso “scarno” del densissimo, imbattibile Al Pacino, abbiamo allestito un personalissimo omaggio, un tributo inzialmente “spezzato” in due parti, la sua, quando ancora si faceva chiamare “mistertuyoube”, e il mio segmento, dunque “falotico“. Il cui vezzo “narcisistico lo riproneva in “separata sede”.

Adesso, per questioni di copyright, attendendo nuove fantasmagorie di Giuseppe, vi posso presentare solo il mio.

 

 

Firmato il Genius

Genius-Pop

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