Il “pagliaccio” Penn è sempre impennato, e “imparruccato”, forse (s)truccato

28 Oct

 

Pomeriggio uggioso, quello di ieri, nelle autunnali “cadenze” malinconiche d’una Bologna nel suo Ottobre “sgocciolante” e agli “sgoccioli”.

Con i miei genitori… ah, pare che a una certa età sia proibito guardare un film assieme alla famiglia, mi son recato allo The Space Cinema, ex Medusa, di Bologna, per “improfumarmi” con l’ultima fantasia “scombiccherata” della premiata ditta Paolo Sorrentino-Sean Penn, il già celebre & celebrato This must be the place.

Su una scala, com’è “abitudine” morandiniana, da 1 a 5, in termini di stellette, gliene assegnai quattro, col lecito dubbio che potrei aggiungerne una, o “sottrarla” alla prossima visione.

Tant’è, che… “evocandomi” in Lui, l’ho recensito così…

 

Lagrime glam d’un trucco pindaricamente pittato

La vita… turbinii polverosi d’anime, infrante nelle proprie “scogliere”, nel veleggio autunnale d’una fierezza che, ardimentosa, svanì in nottambule nuvole dal color “raggrinzito” in foschie letargiche, o della lentezza melodica che s’è incatenata e “crepuscolata” nelle zone “oscure” che (s’)abbaglian di lucentezza, effuse nel proprio tergerla metafisica in armoniose grida smorzate in un’opaca realtà dai tenui colori aggrottati nel silenzio che la “balbetta”, o agghindati nell’incantevole manto che le abbacinerà d’un altro etereo assaggio o grido, d’una lacerazione che si (s)fregia di sé, nella ferita irrimarginabile d’una “pacata” vendetta dal mistico sapore della Luna inferocita, nei suoi auscultati impeti.

Dublino… “mieleggia” funerea, nelle soavi carezze d’una fotografia che imprime il Giorno d’una vivida stravaganza, “attempandolo” d’una densità atemporale, nelle “tempie” appannate di chi gironzola “claudicandola” o nel sonante, anche solar, gracchio della sua friabilità, purissimo nitore di nuda trasparenza, che s'”incenerisce” nelle torbide canzoni del suo Cuore e se n'”aleggia” amando un suo proprio arcobaleno di variegata, “cosmetica” evasione, forse l’identità nascosta ch’è “insuperbita” dal “vaneggiar” vanitosa in un trucco che gli “morde la coda”, che s’inerpica nelle rughe da celar con un cerone “pietramellare”, un rossetto che sbava l’infantile laconicità saggia di chi ne respira i gusti, in teneri dosaggi che lo smaltiscano e lo smaltino d’un perpetuo viaggiarsi, prigioni dell’anima che si sfiora “masturbatoria” in un amore affiliato alle maternità, idrofilo cotone che detergerà il ruvido “sgretolio” d’una apparenza ch’è intatta, tonante bagliore di se stessi.

Forse, Cheyenne, magnifico Penn in tutte le sue autocompiaciute, “apatiche” smorfie, si denuderà “vestendosi a modo”, acconciato per chi non giudicherà più la sua (non) maschera d’acconciature, e peccherà forse d’essersi tradito per accordarsi alle pigre “musicalità” dai “toni” più visibili e immediati.
La sua criptica enigmaticità che non (si) intimorirà, in quella prostrazione, sì lo è, violenta che ne “metamorfosizzerà” il suo profumo, il tocco, da altri, come dico io, b(l)andito, e or ne ossequia “valori normali” per mostrarsi com’è.
Con un bomber e uno smagliante, m’ancor “furfante & fuorviante” sorrisetto tra il serio & il faceto, l’incupirsi ch’occhieggia birichino d’una irrinunciabile malizia.

Sparito il ciuffo che “fischiettava” tra rosse labbra vivide, l’andatura sbilenca dal “clowneggiarla” un po’ zombi, e l’abbigliamento fuori moda che lo disegnava meravigliosamente “fuori sincrono”.
Nelle linee di tutti e, forse anziché errare in quel vitale vagabondaggio d’un sé che “permanentemente” si strugge(va), attracca a un pragmatico essere, “imperfettamente”, erroneo come tutti, o sonno dei suoi sogni.

Non so se Sorrentino abbia scelto bene questo finale, “pennizzando” Cheyenne in un metacinema aderente al “vero”, dunque dissimulatore, Sean.

Qualcosa, Egli non sa esattamente cosa… l’ha turbato, quel rumor d'”ossa” che s’eran “inibite” nella sparizione del suo “abito”, nelle corrugate piogge ermetche della sua “folle” solitudine, fra chiacchiere che si “rincuorano” e un Passato che lo rincorre(rà).

Spietata vendetta ch’è il prolungamento dell’ossessione del padre, il perseverarla nell’attimo propizio che ne “immortala” l’atrocità e gli orrori di Auschwitz, quasi in un “Taglione” perché il criminale muoia nell’istante fatale del suo imperdonabile, inestirpabile abominio.

Incontri casuali, “virginali” consapevolezze danzano notturne, tra “squilli” di fiamme e paesaggi, eternamente lividi anche quando son creaturali tramonti nelle loro fluenti eternità.

Sean Penn, primo piano perenne in mezzo a dolly, campi lunghi, prospettive, lentissimi zoom, cadenze perfino respiratorie, d’asma, di ventricoli o del sospiro delle nostre anime.

Come Cheyenne, la perplessità del (suo) giudizio, vaga ancora in me, e non si stabilizzerà…

(Stefano Falotico)

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