I film della Mezzanotte

08 Feb

 

Con questo post, inauguriamo una nuova “sezione”, i film della Mezzanotte, forse.. & dintorni o in essa “in-torniti”.

 

Lancette incardinate in una Mezzanotte lievissima ma incatenata a fantasmatiche, fugaci carrozze d’insipida evanescenza

 

Si stampiglian e “stappan” turisticamente cartoline parigine per uno spettatore inebetito del fascino senz’età d’una città eiffeleggiante delle nostre proiezioni elefantiache.

Scatti inturgiditi di cristallina porpora addolcite da un “dolce” glamour che c’“invereconda” d’irritazione, per com’è inedia d’iridi smaltate nella leccata furbizia ammiccante a chi n’è già in suo tepore, “seralmente” moribondo del vaneggiar fra divanetti di poltroncine ove aleggiare sull’aria, col darsi “arie”, condizionata e una che ti scodinzola di labbra turgidine-umide, arrossite-commosse di rossetto negli slavati primi rintocchi del suo rimmel inebriato, dal sussurrio melodicamente smielato per romanticherie in svenevoli sbaciucchi, un fotogramma “immobile” e un’altra sbirciatina alle monumentali grazie di zuccheroso “occhiolineggiarci”.

Quasi m’addormo ma la candida levigatezza del mio peperin diavoletto, di zolfi sempre desti, si (s)grida per l’immanenza folgore del platino ormonale erettissimo a una smaliziata cerbiatta dalle gambe in ogni mansuetudine che si spelli di sano orgoglio virile, Rachel McAdams, Donna svettante sugli zenith di coloro anche poco spiccati, bocciolo che sboccia floridissima in abiti che non son succinti ma la cingon aderentissima alle “atrocità” del mio desiderio.

Ché, d’innaffiar il mio Sguardo, della sua cremosa meraviglia, non m’asterrei neppur se davvero apparisse il vero Woody Allen, qui “sostituito” da un basta che funzioni ringiovanito, Owen Wilson. Di stessa movenza balbettante e timida palpabilità di puntual piglio nevrotico.

Un po’ di noia si spalma nei nostri neuroni, la cui tempra è solo irrobustita dall’intemperanza che “soffia” per la velata Rachel, di chioma già intrecciata al nostro “cioccolatinar” con Lei nella rosa icara delle fantasie proibite d’illecito Cairo, ché c’auguriam s’“incar-i-ni” ancora durante il film per “biondezze” recettive.

Ma presto se la squaglia, e Owen s’inabissa in un esoterismo del suo tutto ciò che ho sempre sognato ma non ho mai osato “credere”.

Come per incanto scompare, e dunque si sveglia nella… e dintorni, d’onirismo adornata, degli anni 20, prima con Fitzgerald ed Hemingway e poi, nelle altre notti, a smacchiar la sua “insoddisfazione” esistenziale in “combriccole” che ne “bracconeggian” l’umor calante. La Luna… tramontante. A “tramortirlo” in Morfeo.

Il Dalì d’Adrien Brody, cameo declamatorio del suo “rinocerontarla” per surrealismi “animaleschi” a sberla di “burle” con  Luis Buñuel, e una delicata storia d’amore con un’altra “smarrita”, amante del Tempo che non c’è, belle époque di libertine svagatezze ove si sarebbe “dissipata” con meno indagatorie “oculatezze” per la sua perlacea anima e di chi se ne infatua.

A cristallizzar il destino d’eterei, fiammeggianti moulin rouge.

Di sulfurea sua trasparenza, il film s’“enigma” poco, tra battute di programmatico suo bofonchiarle e un Wilson che passeggia ai bordi della Senna, nel sorseggiare aromi malinconici d’un impensierito “esserla” sfuggita.

Addii frettolosi e qualche brillantezza forse senza effervescenze, mentre Manhattan s’issa di suo rammemorarla quando fu davvero, sebben più plumbea, migliore.

E un altro incontro delizioso, appena sfiorato, s’“inoltra” sotto la pioggia.

La delizia non è sempre un complimento.

A volte s’“allenizza” troppo, allenata dal déjà vu francese.

E ora, lo so, mi getterete addosso ortaggi maleodoranti, ma non recedo da quest’ “assurda” convinzione, Capodanno a New York è un film meraviglioso.

In tempi ove, appunto, il cinismo impazza, come abbiamo avuto modo di constatare (leggere sopra il nostro “Polanskiello”), questa “ventata” freschissima di “miele” è un toccasana.

No, non c’è proprio nulla da ridere. La pellicola dell’ottantenne Marshall è stata distrutta pressoché dalla “critica” mondiale e non è neanche andata così bene al botteghino, per un pubblico “natalizio” che pare stanco di “commediole dolcine” e ha disertato quasi in massa, proprio la “massa”. Dunque, qualcosa non torna. Non è un “cinepanettone” e neppure un film “sofisticato”. E allora cos’è? Un UFO che io, e il nostro Simone Emiliani (grande estimatore di quest’opera), abbiamo avvistato nella cecità superficiale e proprio “platinata”.

 

No, non scherzerò affatto su questa strabiliante favola sentimentale di Garry Marshall e, sebben, arcigni, m’ammutinerete con dosi ciniche, fetide di “realtà”  affinché, castrato, io non mi glassi di “pestilenziali zuccherosità”, ma soffra in film “pentecostali”, sarò qui, “impenitente”, a soffiar come tramonti ambrati d’ariosa sensibilità, “malia” del mio charming come un Principe Azzurro in una magica Notte di battiti lievitati nell’amore, nella sua perseveranza e nella sua “illusoria”, febbril attesa spasmodica

 

Poesie nel vento di quella fatalità fatata di nome serendipity

 

Sognante vividezza della floridità

Svelato, d’ogni timidezza a cui fui avvinto, o affumicato dentro asfittiche pareti dalle lagrime quasi bavose, a rapirmi dentro incenerite palpebre che miagolavan pallide al crespo baluginar d’ogni Giorno.

Acrimonie, fratricidi scambi di “cortesia”, bacetti tanto gentili da bruciar di secchezza, d’un claustrofobico, tetro pragmatismo retorico avvezzo alle burle, per schernirci quando si è ilari, o solo nauseabondo, pastoso burro, e ferali se poi infierirai di troppe “amorosità indagatorie”.

È all’indaco, alla tenerezza romantica a cui ci tingiamo per non eclissare, fantasmi, tra le grida di chi, luciferinamente, le ovatterà solo per inteporirle d’una dolciastra patina d’ipocrisia brutale.

 

 

E, come De Niro, lo “stronzo” dal Cuore di marzapane, con la “papalina” dei miei ricordi, sogno d’ansimar per gli ansiti luccicosi d’una sferica palla a Times Square, cristallo delle nostre illusioni-meteora.

Ombra funerea, già appannata, che vien come “folgorata” in viso quando essa s’ “infuoca”, e acceca una dolce morte illanguorita nella frenesia di carnevaleschi festeggiamenti dal rosato, incantato profumo.

Veneri bionde, accoccolate a fidanzatini stizzosi, e intellettuali che si disarman in gioie che dimentican il “patetismo” nel leggiadro corteo che colora ogni dubbio d’un inestinguibile attimo da incorniciar nella viva trasparenza d’iridi-brillantina.

La vita, su dai, è rotear stellari nel mar delle effimere speranze, e nuovi baluardi a cui ancorar, fra dolori e gaudi, la giostra che gira.

È “enigmarci” nel dubbio o esser, ingannatoriamente, divorati da incandescenze che lacerano ogni nostra, sin troppo pacata, flemma. O come, per qualche timore in più, ci “placammo”.

Son i fluorescenti bagliori di torpori che si dissolvon mansueti, l’amicizia, anche nelle sue grigie nervature, la fulva sua femminilità purissima anche se è puttana.

I luccichii glamour di vite che schioccano, spumeggianti di virtù o in un altro rapimento alla propria anima.

È il Tempo, imprigionato in una Mezzanotte dei desideri, che zampilla di champagne “smaglianti”, è come Hollywood nel suo variopinto circo di saggi veterani, “dimenticabili” apparizioni, “maghi in smoking di fresco sex appeal” e nascenti astri per nuove, magnifiche, meravigliose astrattezze.

Sì, bistrattato da una noiosissima “mole critica” per chi imbastirà la battuta più acida a demolirlo.

La più “genial” intuizione della parola “stampata” che mai si stappa nell’evasione, forse “futile” e “dissipatoria” ma di “profumosità” aromaticissima, “romanticheria” d’ingredienti “miscellaneati” con garbo maturo e spruzzi piccanti, come la peperina Sofia Vergara o il “sandwich” Josh Duhamel.

Il discorso, d’autentica commozione di Hilary Swank, e il re dell’elettricità Hector Elizondo, il riparatore d’ogni guasto, Egli stesso interruttore per riaccender speranze affievolite, “lampadine spente”, macchinista o Dio che viene dalla macchina?

Questo Marshall, non son l’unico a pensarla così né è una posa provocatoria, lo stesso nostro Simone Emiliani, l’ha definito “straordinario, forse la sua opera migliore da Paura d’amare”, è “confezione” in apparenza inconsistente, invece d’una esperienza registica che sa “formular” ogni storia da “cremoso”, insuperabile veterano, sa allestirla anche dietro un sorriso o una ruga “smaltita” o unghie laccate, orchestra questa ensemble comedy con la finezza di chi sa che, la frettolosa, superficiale, inappropriata definizione di “cinepanettone”, è un’usanza di chi abusa del “lessico” cinematografico per “telegiornalarlo” in una sbrigativa recensioncina.

Perché, negli sguardi cerbiatti fra Ashton Kutcher e Lea Michele, nei giochetti a distanza fra il grande Bon Jovi e la “tremolante platinatura” disillusa di Katherine Heigl, nel “pattinarla” fra il “Cupido” Zac Efron e la sempre più sbalordita Michelle Pfeiffer, c’è la chimica d’un grande regista che sa come suonar la melodiosa tastiera del Sogno, nelle levigatezze “gelatinose” di storie, in apparenza frivole e “banali”.

Il classico, classicissimo, sì, Marshall lo è, gran bel film.

 

(Stefano Falotico)

 

 

 

 

 

Lunare lucentezza, magica fulgidità o fluidità sognante, d’argentato metacinema d’una perlacea “pariginità

Fragranze. S’odon nei gemiti crepuscolari di notti intrise di svagatezze già morbose.
Nei respiri incantatori delle fluorescenze, ch’echeggian a evocar cardiaci liquori d’adamantini ardori.
Nell’assopita nostra “tenebra”, nostre flessuose librazioni d’evanescenza sempre sulfurea ch’orbita “craterica” d’emozioni dalla vaghezza ondivaga, nostro Sguardo di carezzevol liturgia, lisergica, d’inquietudini dalle oscillazioni nerviche.

Melanconia

Un tuffo indietro…

Travis Bickle, vampiro di sonnolente ferocia dall’agguerrita astrazione nella soffusa sua sanguinolenza che urlerà catartica.
Invisibilità, della sua stessa smembrata ombra nella sua mente di “meteoroastronomica”, ma straniera, costellazione metafisica di nervica, agonica perdizione d’una fioca m’abrasiva dissolvenza, enigmatico fantasma che corruga le raggrinzite sue anime nei demoni di riflettenze o d’una cupa messianità di torve (ri)flessioni. Tiepidezze nelle fugacità d’insonne nottambulismo, d’ectoplasmatici asfalti di nostri, tortuosi destini d’abissal plenilunio “nero”.

Cristalli liquidi di pura levità, “acquatica”, nella tonica morbidezza di magnifici fasti sfarzosi, nell’aurea ipnosi di diafana, immacolata ascendenza eterica.
E in essa, ancor, immersa di magma.

I sogni… impalpabilità di voli nel vento, amniotico delirio di sfolgorii dalle fiammeggianti scintille.

Questo è il Cinema, “ispezione” della nostra stessa indagine di meandrica luminescenza nelle reminiscenze.
Di quando, il primo screpolio “addolcì” di furenza proprio altre luminosità, per “svezzarci” moribondi dall’idillica, infantile dormienza, a innocenze già foderate nel Mondo, in questa prigionia, però dorata, di fascinosa licantropia.

Guaine di pelli già martiri, nostre salvazioni senza desideri di redentoria “quiete”.

Martin attinge a se stesso, il suo Canto è vaporosa sinergia di tante sue memorie (auto)biografiche. Del suo Cuore, per com’è favolosa Luce, o nitidi barlumi di sue stesse “oscurità serali” della sua stessa inventiva in questa (re)invenzione della vita. Di sue mnemoniche, libere “allucinazioni”.
Incandescenza dei nostri occhi, nelle diaframmatiche, “esangui” palpebre che s’accecan, sfavillanti, di pindarica Bellezza. Quasi acrobazie, dal nostro primo, silenzioso respiro al torbido poi “svanirci” d’eclissi tenui, poi dentro, vorticose, inafferrabili “repentinità”-serpentine d’ematica limpidezza di nostra quasi ventricolar veggenza dai docili turgori delle vene.

Zoom “innevato” d’un “pallido” Inverno, d’ambrate già meraviglie nelle incatenate telepatie struggenti d’“acustica” cinefilia

Pressapoco, verso la fine della scorsa decade, svenevolmente abbacinata di nuove modernità “millenaristiche”, in un pomeriggio orfano, o forse “orafo”, della mia anonimia di già plumbee vaghezze “omonime”, mi rasserenerai nella lettura d’un futuristico onirismo di là a venire, già di sgorganti, melodici deliqui.

Alla libreria Feltrinelli, acquistai infatti, quasi “in camuffa”, “La straordinaria invenzione di Hugo Cabret”, libro scritto e illustrato di Brian Selznick, Medaglia Caldecott 2008.
Incuriosito che, questa “lettura per bambini”, fosse stata opzionata con tanta “autorialità” come fonte ispirativa della prossima, annunciata opera di Scorsese.
Nello stupor d’un commesso “sospettoso” che mi “malocchieggiò” con civetteria “affettuosa”.
Forse Sacha Baron Cohen…

La Luna, le luci di una città, una stazione affollata, due occhi spaventati. Le immagini a carboncino scorrono come in un cinema di carta fino a inquadrare il volto di Hugo Cabret, l’orfano che vive nella stazione di Parigi. Nel suo nascondiglio segreto, Hugo coltiva il sogno di diventare un grande illusionista e di portare a termine una missione: riparare l’automa prodigioso che il padre gli ha lasciato prima di morire. Ma, sorpreso a rubare nella bottega di un giocattolaio, Hugo si imbatterà in Isabelle, una ragazza che lo aiuterà a risolvere un affascinante mistero in cui identità segrete verranno svelate e un grande, dimenticato maestro del cinema tornerà in vita. Tra romanzo, cinema e graphic novel, un libro in cui le parole illustrano le immagini.

Queste le testuali parole della quarta di copertina della versione “tradotta” in italiano, per la Mondadori.

Oggi, questo “piccolo” gioiello è un capolavoro, ancor più abbellito d’una “esornazione” di ben 11 nomination agli Oscar.
Nella “stilografica” della trasposizione sceneggiata da John Logan, e nella maestria stilistica di uno dei più grandi registi viventi, qui nella sua magniloquenza più elegantemente “simbiotica” e “appariscente” di dichiarata, “epistolare”, visionaria tatuazione alla Settima Arte.

Cos’è il Mondo, o come c’appare? Nitore che, saltuario, rifulgerà di nostra ludica euforia disciolta.
Nerezza già incupita, che ci mormora di lagrime che, poche volte, danzeran azzurre, raggelate da “grigiezze” nebbiose scremate in turbinii dai foschi veli.

In questo caos, altezzoso e cinico, macchinosità forse solo d’ingranaggi arrugginiti o rotti, c’arricchiamo, e c’arricciamo “intimistici” dentro illusori rifugi, per non “incanutirci”, ma ardendoci per scolpir sempre l’anima, ché si libri briosa.
Per “nevosità” che si scaldino d’una cadenza che s’accalori al gaudio armonioso del sangue.
Per viverla nei sogni, fuoco sacro dell’anima.

“Faro” su Parigi, “orologeria” dei nostri giocattoli, e occhi ammiccanti d’un sorriso prima di  canagliesca impasse e poi da impacciato sorriso “pagliaccio”.

Film che innalza l’estasi della vita e, per non renderci smemorati, ricorda anche la morte e i suoi dolori, come quella, quasi fuori scena, “sfiammata” di Jude Law, il padre di Hugo, Cinema che, poderoso, s’imprime anche per turgidezze sfocate, come nella rochezza alcolizzata di Ray Winstone, l’“ubriacone” zio Claude, per il profumo “polveroso” dello scibile, fulgore  mai a incenerirla, dai contorni suadenti incorniciati nella vivacità eterna di colui che incarna in sé, quasi “fantasmatico”, gli scrigni dell’aromatico sapor antico per la conoscenza, immortalato poeticamente nell’arcana sapienza d’una biblioteca vivente che ha, proprio appunto, le sembianze mistiche d’uno ieratico, ammaliante “spettro”, Christopher Lee, Monsieur Labisse.

Negli occhi neri ma trasparenti, “addolorati” ma “screpolati” di sublime cangevolezza immaginifica di Ben Kingsley, Georges Méliès, e nell’espressività iridescente d’un “folletto” celeste, Asa Butterfield, il “signor” Hugo… Hugo Cabret.

Esco dalla sala, ancor frastornato d’intattezza ammaliata in questo maliardo rapimento, però “impalpabile”, leggera come l’ebbrezza, di tale memorabile, superba avvenenza.
Avvenenza ch’è incanto soave.

Uomini, nel vento.
Osservo un bambino con occhi pieni di gioia, che già si commuove perché, anche lui, vuol vivere una straordinaria, fantastica avventura in 3D.
E, quel gusto dei suoi occhi, so che non s’è, e non l’ho, perduto.

Come Hugo.
Come Martin Scorsese.

(Stefano Falotico)

 

 

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