In questa ruota delle meraviglie, ci sta stroncare Allen, e io respiro profumo di me

14 Dec

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Giornate insonni oppure, “abbrustolite” da tanti pensieri alla rinfusa, nel guazzabuglio mio empatico, mi scopro ancora una volta apatico, e disdegno il nuovo film di Allen, concordando con Alò di Bad Taste che, senza mezzi termini, lo stronca platealmente. La Winslet sognava l’Oscar ma la Critica americana la “ingiuriò” e basta vedere le candidature ai Golden Globe e agli Screen Actors per rendersi conto che le sue sono speranze fatue come questa pellicola che molti italiani hanno già amato, perché guai a contestare il Maestro. L’Italia ha sempre sofferto di timori reverenziali e non sa oramai più discernere fra bello e brutto, fra compiuto e irrisolto, fra pasticciacci e opere che scambia per geniali svisceramenti di autori sopravvalutati. In questo “squittire” di opinionisti dell’ultima ora, in cui tutti si accapigliano per dire la loro, in quest’epoca di tuttologi del web, ecco che i pareri sono controversi, persino “convessi”, accentrati sui propri mal di pancia solipsistici, la gente si rende “concava” e, anchilosata da frustrazioni quotidiane, ecco che “smanaccia”, alza la voce nel chiasso isterico del volersi “elevare”. Chiunque, anche il fruttivendolo analfabeta, vuole esprimersi in materia di Cinema ed ecco che, dopo la visione “alleniana”, gocce di commozione lustrano i suoi occhi impolverati da una vita schiacciata, che mai mise a “frutto” il “coacervo” di sue idee insensate, e dissenna vagabondo e anche cogitabondo, abbracciando gli altri spettatori in un “ecumenismo” buonista che gioisce terribilmente della “levità” di questo film agro e amarognolo di Allen, che pare dirci che la vita è una merda ma dobbiamo apprezzarla nella “lietezza” dei piccoli istanti anche turbolenti, che dobbiamo giocoforza fustigarci, soffrire, urlare, dimenarci come pazzi per addivenire alla bellezza del mondo. Insomma, una poetica abbastanza deprimente che mal si sposa con la mia visione romanticamente cinica, freneticamente contemplativa del sapermi già vivo senza che qualcuno, con le sue prediche “artistiche”, mi voglia irretire a quella che potremmo definire una sofferenza del godimento, la catarsi dopo tanto mare in burrasca.

Al che, leggiadro, senza dare nell’occhio osservo le gambe di una donna al bar, sognando di essere la sua schiuma del cappuccino che, dolce e sinuosa, s’infila nel suo “interstizio labiale”, quella corpulenta materia appiccicaticcia e “densa”, penetrante nella sua lingua delicata e soffice nel mescersi alle nostre papille gustative al fiorir della sera rossa come la sua voglia incendiaria. Rosso/a di sera e bel tempo si spera. Un tempo di “ritmo” andante con moto, saltellante e sussultante, galoppante e “infervorante”, focosamente “liquidante”. Ah ah.

 

Al che, sempre stamane, chissà perché rileggo il mio libro Hollywood bianca e inevitabilmente capisco di essere un genio. Un po’ del cazzo ma avercene…

Un uomo avvoltolato dentro un camice di marmo, faglia bluastra che spacca la luce come il nevischio dentro la nebbia del mattino, quando le rondini volano alte ma il sonno dell’uomo sobrio non coglie il fruscio del vento. Un uomo venne nel mio sordido locale, aveva l’anima timorata di ap­parir fuori luogo, lui, uomo messianico delle conserve, uomo che compra i vetri che rinchiudono gialle sostanze liofilizzate, uomo che quando è notte va a dormire per essere in forma il giorno dopo, uomo che ascolta una canzone solo per il ritmo e poi riparte verso un ripostiglio buio in cui si alleva la polvere delle scarpe ferme, verso il lido decadente di un mare che ha perso il blu cobalto.

 

 

di Stefano Falotico

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