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“Stardust” – Recensione


30 Oct

Gaiman nel nobile fasto patriarcale d’ancestrali, “balestriere” fantasie inerpicate su leggende arcane

Stelle comete della cosmica inventiva, arcuata nei dolci incantesimi di stelle incandescenti, “spolverate” dal grigio torpore di melodia “incattivita” da streghe irriverenti, agghindate d’abbagli “eleganti” e biondezza melliflua, ondulata nel sospiro alla Luna, ai suoi timidi pleniluni d’occhiolin immaginifico e poi “maligno”, a scrutarci con leggiadre cornucopie dai nitori sospiranti, a sbirciarla nudi e casti, incastonati anzi senz’incastro nei suoi crateri e nel magma “marino” che lievitò in un’altra epoca tonante, nei suoi vulcanici, torreggianti, fluviali e tortuosi viaggi siderali di spaziale “enfasi” or a smorir languida fra noi, peccatori e di martirio, di calvari “ossigenati” nel plastificato “benessere” irremovibile dal suo retaggio a irretir la coscienza, rattrappendola ove si confà all’espiar sol d’illusori respiri. Che fittizio imbroglio.
Immemore dunque amnesia tramutata in pericolosa nemesi “dinamitarda”, ove oggi fingiam d’esser tutti amici e invece c’inimichiamo dietro (s)pose ruffiane di “rosa” tanto turgida quanto appassita del suo afflato e degli effluvi amabili delle poesie, del vagarci invaghiti. Solo “perpetuati” nello sperpero delle purezze estinte, dell’orgoglio vanaglorioso, iroso, “rosso” di russare ed eclissato, utopista da stupidi. Da chi concupì il lupo delle fiabe per divorarlo nelle “fragole” cacciatrici del borghesismo manicheo, ove il Diavolo è invece l’Angelo più bello sacrificato alle carnalità “parsimoniose” delle baraonde da bar-i cannibalistici e dunque di “Carneval” più da “caviali” e non più cavalcanti.

Questo capolavoro, estratto da un Neil Gaiman “aberrante” di delirio fumettistico, di sognarla limpido e imprimerla onirico…, questa nostra vita tanto “conturbante” ché tanto vi turbate di sogni che solo sfiorate per poi deflorare nell’immolare di conveniente cinismo, di “ciminiere” e ruspe “ruspanti”, dunque incenerito del suo bianco più ve(t)ro, questo capolavoro lo è.

Affamati e sempre protesi al ribaldo arrivismo, affaristi dell’affare altrui, fanfaroni e di farfalle “infantilizzati”, dunque mai fertili per esservi sterilizzati, dunque “atterrati”-attenuati nel “terriccio” e nell’arricciarvi tutti “belli” arruffati. Ah, siete solo dei furbi così furfanti al fante e alle romantiche voglie elefantiache. Di quando la nostra proboscide issata non è rissosa perché già nelle acque vanitose e non fatiscenti della putrescenza fangosa.

Rido e peno per voi. Perché io l’impennai e non pendo più dal vostro “dipende”, che pena.

Il film è un’avventura ai confini delle ere inesistenti, dell’ira vinta, dunque gioie eterne, immortalissime.
Di un amore adolescenziale immane, d’un De Niro Captain Shakespeare che fa il cattivo al fine di rabbonir i contenziosi delle inutili faide, che guida il timone della sua nave, fra la neve e le tempeste, che ride come un pazzo e sghignazza con la ciurma fra schiume di birra e la chioma di Claire Danes per il ballo della sua “debuttante”, perché Michelle Pfeiffer invece è già troppo “matura”, dunque secca di “mutande”.

Ah, la seta, che sete. Che (mi)raggio.

Finale ove la cattiva male-fica sarà espugnata e di pugnal accoltellata, di stesso sortilegio infranta e fratturata.

Per la gioia di grandi e piccini, dei piccioncini e anche del neo di Bob De Niro che applaude in platea(le).

Oltre. Matthew Vaughn senza Claudia Schiffer girò una pellicola che le sue gambe avrebbero attorcigliato di velenose “spirali”.

Vaughn sguinzaglia il vero Uomo dentro di sé e affabula, si (con)fida dell’istinto, della lirica appunto favolosa.

(Stefano Falotico)

 

 

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