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In un annus horribilis, funestato dal Covid, ci accingiamo alla prossima notte degli Oscar in religioso silenzio contro le scriteriate opinioni sballate di Mereghetti poco d’annata ed evviva ogni Spielberg di fantascienza rinnovata!


19 Apr

nomadland mcdormand

Che sia dannato o di migliore annata, l’importante è che il Cinema venga totalmente ripristinato ai suoi antichi fasti e ardori. Dunque, sta per ripartire la festa. A lei, signora della notte nera, non parte la Ford Fiesta? Io sono Arthur Fonzarelli, cioè Fonzie dei glory days di Bruce Springsteen. No, di Happy Days. Sono il Boss della canzone I’m on Fire. Le aggiusterò tutta la carrozzeria, smaltandogliela… Che sia il venturo 2022 un annus mirabilis da 2001 kubrickiano. Ah ah. Ah, mie uomini spregevoli e sprovveduti, ammalativi non di COVID-19, bensì della peggiore A.I.

Partiamo col pezzo da David Fincher, no, da David Foster Wallace italiano di falotica, astrusa e cervellotica scemenza cazzuta, spero, geniale o soltanto pedagoga, probabilmente educativa, dunque comparativamente simbiotica o solo sinonima, soltanto psichiatrica per diagnosticare ogni falsa intellighenzia da reparto pediatrico, cioè infantile e adatta a un mondo di deficienti che si credono adulti sapienti. Che tromboni deprimenti!

Eh sì, gran parte dei film candidati quest’anno agli Oscar non sono affatto piaciuti a Paolo Mereghetti, critico da “colonne portanti” della pagina Spettacoli del Corriere della Sera oramai da anni… irrecuperabile, no, volevo dire non ancora, pensa lui, pensionabile. Paolo è, a tutt’oggi, attendibile? Paolo, entrato da dritto o di diritto in tutti gli annuari ciclopici, no, enciclopedici della Critica recensoria dei film, no, nell’immaginario cinefilo collettivo soprattutto as Il Mereghetti, auto-sottotitolato(si) Dizionario dei Film. Che, a scadenze regolari, viene perennemente aggiornato e rivisto a mo’, forse, di Ciak la rivista generalista per eccellenza della nostra povera Italia popolaresca ove tutti si dilettano a essere tuttologi della min… ia, imparando bieche pappardelle a memoria estrapolate dalla terribile Wikipedia iper-qualunquista che è stata portatrice di danni disumani alla coscienza umana stessa non solo dello spirito critico dell’attuale Critica cinematografica, bensì della vita in generale. Parcellizzata, così facendo, da pseudo-caporali neo-laureati col Bignami che tengono molto in auge la falsa intellettuale Daria Bignardi.

La terribile, temibile, statene lontani, Wikipedia! Vade retro, Satana!

“Legalmente” letale per ogni tardo-adolescente e uomo ancora in fase puberale-adolescenziale auto-ingannevolmente persuasosi che basti enumerare ed elencare, un tanto al chilo, informazioni sterilmente nozionistiche assai superficiali per fare colpo su qualche ragazzina speciale che penderà dalle sue labbra fintamente ebbre e fameliche di scibile saccente più indigesto di un tiramisù mangiato assieme alla pancetta non di McDonald’s ma del suddetto panzerotto prematuramente sovrappeso, manco fosse un commendatore dalla panza piena, per l’appunto, della Destra più salviniana, ché s’atteggia da adulto in modo spaventosamente incosciente, sfoderando una classe (ig)nobile da pubescente amante della Scienza più falsamente acclarata sulla base precaria di conoscenze sommarie e assai provvisorie, improvvisate, più che altro da somaro incredibile.

Si crede dio ma non vi crede, contesta perfino Buddha, soffre di manie di onnipotenza da far paura all’anticristo e ragiona per stereotipie imbarazzanti e raccapriccianti, approntando tesi assurde da mettersi le mani nei capelli. Ha un diavolo per capello? Dinanzi a questo qua, un quaquaraquà, urliamo: oh, Signore, salvaci tu da costui, oh Gesù!

Egli cattura info filtrate e recepite unicamente in maniera mnemonica e assai stolta da demente sesquipedale ché crede, essendo un idiot savant impresentabile anche a Forrest Gump, di rappresentare invece l’esatto contrario, vale a dire il fenomeno “paranormale”. Egli s’interroga studiatamente, come no, sui fenomeni scientificamente irrazionali, dunque anormali. È un fenomeno anomalo o sol anonimo che, ahinoi, si sta espandendo a macchia d’olio.

Uomini di vera cultura, secondo voi, a quale generazionale fenomenologia possiamo accludere tale ragazzo inutile? Ah, quanta ignoranza abissale! Questo qui è inclassificabile ma tutto vuole catalogare e vivisezionare! Intanto, lei abbocca a tale semi uomo frequentante la rinomata Bocconi degli esaltati e stupida, no, rimane stupita dagli effetti speciali non della più avanguardistica CGI, bensì dell’androide bambolotto robotizzato dalle enciclopedie online scritte e redatte da androidi peggiori di lui. Lei perde cretinamente la testa per tale deep fake vivente in grado soltanto d’imbrodarsi e d’imbambolarla, recitando, a mo’ di Laurence Olivier de no’ a(l)tri, un numero d’informazioni impressionanti da lui diligentemente imparate, per l’appunto a memoria, più che altro appuntate, per fare bella figura dinanzi alla sua immagine allo specchio da Amleto della situazione ben conscio di non essere manco sanamente pazzo come il principe di Danimarca dell’omonimo capolavoro scespiriano. Egli è una tragedia incarnata davvero plateale. Platea, ridete, dai, su!

Sì, non è colto come Kenneth Branagh eppur dice di adorare Orson Welles, semplicemente perché non ha mai invero visto un suo film per intero ma, dinanzi alla sua immagine fessa, no, riflessa… nota che l’unica, incontrovertibile somiglianza immediatamente ravvisabile con Orson, eh già, è la misura extralarge non del cervello, bensì della taglia dei pantaloni da puro coglioncello cresciuto a meme, hotdog, la peggiore PlayStation e tante assortite, affini idiozie videoludiche tanto belle… Sì, egli è Cicciobello. Costui è una capra, un penoso cartone animato, un barboso e barbuto caprone dell’Argentario e confonde Luca Argentero con l’oro colato. Sì, su questo ha ragione, Argentero non è propriamente un attore molto dotato, no, dorato, gliene devo dare atto. Sebbene, debba io ammettere, altresì, che Argentero sia molto adorato. Da chi?

Stavolta, inconsapevolmente, confondendo gli asini dell’Argentario col pastore tedesco, mandriano della recitazione in cerca di pecorine, no, pecorelle smarrite, il ragazzo pecoreccio alla Ezio Greggio che denigra Dario Greggio in modo tristemente televisivo, essendo lui cresciuto con Striscia la notizia, colpì nel segno a mo’ di arciere di The Witcher. Ah, le ancelle amanti del pesce lesso Henry Cavill, il quale è più inespressivo del vero cacciatore di streghe del videogioco omonimo, sono sue fan accanite, dicasi anche frustrate mai viste che vedrei bene nel prossimo film di Robert Eggers, no, di Dario Argento. Nei panni delle donne educande, prede vulnerabili che manco un serial killer vorrebbe trombare, no, sgozzare perché poi Barbara d’Urso lo inviterebbe a qualche trasmissione ereditatale, ereditale se amate la scrittura aulica, ereditaria se credete che il DNA si trasmetta in base alla genetica dell’albero genealogico. Ah ah. Ereditale, non L’eredità, altra boiata bestiale. Ah, il nerd odierno altri non è che il ritratto terrificante del profilo psicologico di un omicida seriale di cazzate co(s)miche che non ebbe le palle, a differenza di Buffalo Bill de Il silenzio degli innocenti, di confrontarsi almeno con un’appassionata del Cinema di Jonathan Demme. La vera amante di Demme si può riconoscere immantinente con un facilissimo quesito. Le si pone, davanti agli occhi, la scritta stilizzata Philadelphia (qui, corsivizzata). Se, alla domanda, lei cosa vi vede?, vi risponderà Tom Hanks, è apposto. Se invece vi replicherà, a mo’ di replicante bellissima ma tontissima come Sean Young di Blade Runner, vi vedo una sottiletta Kraft, è adattissima per il tizio tozzissimo e “tostissimo” sopra (de)scrittovi. Costui confonde il logo di Batman di Tim Burton con le macchie di Rorschach. A proposito di Orson Welles e Burton, lui è il nuovo Ed Wood. Piaciuto l’ammiccamento cinefilo?

La personalità di questo qui è racchiudibile, se volessimo essere sbrigativi in modo empirico e direttamente proporzionale ai suoi giudizi banali e precipitosi, schematici e insostenibili, a quella d’un ragazzo impubere ed ebete che considera il Batman, con Robert Pattinson, un vero capolavoro. Il film non è ancora uscito ma lui è già addivenuto a tale conclusione apodittica perché è appassionato di Matt Reeves e pensa di essere un genio come Andy Serkis… In verità vi dico che non è Serkis/Cesare e neppure il King Kong di Peter Jackson. È Gollum!

Ma non perdiamoci col bamboccione-bambagione-“bonaccione” nient’affatto bonazzone. Egli non è Bonaccini, il governatore emiliano-romagnolo, neanche Sean Astin, inconfondibile hobbit. Ha degli hobbies?

Lui è Sean di Stranger Things.

Ma ora torniamo a Paolino Paperino, no, a Mereghetti e alle sue fenomenali papere incommensurabili. Il Mereghetti!

Esagerato tomo di matrice archivistica da esegeta della mutua o da recensore d’un vademecum indispensabile, di stellette indicative, per ogni giovane marmotta? No, per ogni ignaro della Settima Arte che a quest’ultima si volesse approcciare ed alfabetizzare a mo’ di Bob De Niro/Max Cady di Cape Fear. Il quale, dopo essersi “acculturato” con Max il leprotto, si laureò senz’attestato in Giurisprudenza da avvocato del suo povero diavolo leninista-stalinista un po’ sciroccatamente comunista e vendicativo-giustizialista contro un ipocrita da cui non fu doverosamente difeso ma malvisto, incarnato da Nick Nolte, un immenso bigotto fascista! Classico uomo piccolo borghese che riterrà le teorie di Mauro Biglino, da quest’ultimo emesse contro ogni cattolica messa e contro la Sacra Bibbia in modo giudicato blasfemo, eh sì, una bestemmia meritevole del suo moralismo anacronistico non aperto al revisionismo più possibilistico. Sì, Nick Nolte reputa Biglino un biblista, no, un ballista. Mereghetti, invece, non ama molto JFK di Oliver Stone, in quanto da lui reputato un film troppo retoricamente complottistico. Allo stesso tempo, però assegna quattro stellette a Una storia vera di David Lynch, ritenendolo una chandleriana poesia dolente della quotidianità più mansuetamente lirica. Mentre, all’identico Nomadland di Chloé Zhao dà un voto mediocre. Sostenendo pazzescamente che la regista, in modo troppo ricercatamente minimalista, pare essere più di Sinistra, no, preoccupata di riprendere un bel tramonto da Sol levante con in sottofondo la musica suggestiva di Ludovico Einaudi, maestro delle colonne sonore intimiste, anziché spiegarci il pietismo-patetismo ingiustificabile di una donna che, in fin dei conti, potrebbe superare il lutto incolmabile della tragica perdito del marito, andando a letto col personaggio interpretato da David Strathairn.  Sì, che riempisse la ferita dell’animo non cicatrizzabile (solo quella?), con una scopata indimenticabile! No, Frances non vuole cornificare suo marito, anche se lui è morto e sta lassù fra le stelle. Per addolcire il fegato amaro, forse mangerà un maritozzo.

E Mereghetti questo non lo capisce. Testardamente! Così come non capisce perché il Serpico di Sidney Lumet, alias Al Pacino, denunci i colleghi corrotti per rovinarsi la vita. Eh già. Aveva pure la biondona e un buono stipendio, suvvia, pirla! Bastava che si prezzolasse e non sarebbe finito “pateticamente” barbone.

Secondo il “metodo scientifico”-ermeneutico alla Umberto Eco, no in stile mereghettiano, perché Paolo, se la pensa in maniera così intransigente, assegna allora tre stellette a Gli invisibili con Richard Gere?

Paolo afferma perennemente che il grande Cinema debba evocare suggestioni suadenti senza la pretesa di voler insegnare alcunché a scopo pretenziosamente didattico, cioè deve raccontare una storia senza necessitare di scolastiche spiegazioni pallose. Mi spiego? Però non si spiega come mai Paolo veneri giustamente La morte corre sul fiume ma abbia ritenuto troppo ermetico Mank di Fincher. A tal proposito, Mereghetti asserisce altresì che non importa se la storia narrata in una pellicola sia romanzata o meno. Però, idolatra Rashomon e non concepisce, allo stesso tempo, perché mai il defunto padre di David Fincher, prima di morire, abbia voluto riscrivere la genesi di Quarto potere.

In verità vi dico che Mereghetti adora donne da Un uomo tranquillo di John Ford, da lui molto Joe D’amato, no, amato. Paolo si delizia con donne osé, no âgée, calme e sensibili, forse solo senili come Piera Detassis e dunque Paolo non può essere un John Lennon ante litteram con la Yoko Ono di turno. Secondo me, Paolo dovrebbe guardare qualche film con attrici da “Oscar” quali sono le asian girl(s) del Cinema ove si recò Travis Bickle di Taxi Driver, al fine coerentemente, mentalmente masturbatorio di stimolare le “palline vuote” che dà molto alla cazzo di cane, come si suol dire, ai film da lui stroncati e censurati, no, castrati, no, fottuti con disdoro da critico impeccabile pagato a peso d’oro. Scusate, si è fatto tardo e una tardona, no, tardi. Dopo aver rivisto Il processo ai Chicago 7, voglio guardare Borat 2.

Domanda per ogni Mereghetti in erba: Forrest Gump e John Lennon, i quali compaiono assieme in chissà quale film… di Robert Zemeckis, sono entrambi idioti o tutti e due sono dei geni inarrivabili? Geni inteso in senso metaforico e/o lato, non b. Insomma, sono geniali o, in base alla genetica di ciò che nasce dall’accoppiamento dei genitali dei genitori, sono nati male? Sono degli aborti? Imagine… cantò John. E certo… Utopia purissima. Se fosse ancora vivo, Lennon saprebbe spiegarmi come mai una donna stupenda va, per esempio, da un ragazzo down e lo tratta con compassione? Poi, mentre accavalla le gambone, gli porge un sorrisino delizioso e stronzissimo, dicendogli: – Sei un bel ragazzo, ce la farai, dai. In bocca a lupo, bello guaglione.

Quindi lo saluta da volpona, forse da lupona, sposando il ricco rincoglionito Mick Jagger. Tanto privatamente la dà a un toy boy da Madonna-Ciccone. Sì, in effetti John Lennon era un genio. Non aveva capito un cazzo della vita, vero? Sì, era un simpatico idiota. Ovviamente… Mentre il personaggio della McDormand di Nomadland, secondo Mereghetti, è una vecchietta maschilista in menopausa, no, una femmina dai tratti mascolini, altresì machista con Maciste, no, masochista che potrebbe tranquillamente godersela perché è inutile, a suo avviso, penarsi e piangersi addosso, volendolo prendere in culo ingiustificatamente e inconsolabilmente a raffica.

Mereghetti è uguale a John Lennon o a Forrest Gump? Su questa domanda da futuri premi Oscar, no, Pulitzer o Nobel, vi lascio segarvi di elucubrazioni affinché possiate fornirmi una risposta da intelligentoni oppure da coglioni? Comunque, in passato disprezzai Tom Cruise. Penso che Tom sia Jerry, no John Lennon. Disse che gli psicofarmaci non servono a nulla, sono soltanto un palliativo e un alibi artificiale per non ammettere di non farcela in questa vita che è durissima. Sì, il mondo è duro come qualcosa in mezzo alle gambe davanti a Nicole Kidman tutta ignuda. Ecco perché Tom è the man, è Tom Cruise, sì. Perché è un grande attore. E spinge di burro, no, di brutto. A Tom Cruise non interessava essere Stanley Kubrick. Ma, sul set di Eyes Wide Shut, si alzava alle tre del mattino e, se Nicole di bagnava, no, se lui sbavava, no, se sbagliava la scema, no, la scena, la rifaceva altre mille volte sino alla mezzanotte. Perché era ed è il suo lavoro essere Tom Cruise. Non voleva e non vuole essere Albert Einstein o Freud. Infatti, Tom è un genius. Einstein o Freud erano due imbecilli peraltro anche molto esteticamente e fisicamente cessi. Il primo elaborò la teoria della relatività. È per colpa, infatti, di Einstein se ci siamo sorbiti quella puttanata galattica di Interstellar. Nel 2021, la verità è che siamo ancora coi piedi per terra. Altro che odissee nello spazio. La gente vorrebbe andarsene da questo pianeta di morti di fame e baldracche ma non può raggiungere una galassia lontana. Cosicché, prende la vita a culo, osservando il fondoschiena di una donna astrofisica? No, super figa dal cognome Galassi. Mica la compianta Margherita Hack! Allora, si spara i film e, per non spararsi in testa, va a farsi curare, più che altro inc… are da psicologi freudiani. Che li psicanalizzano da porcelli anali, no, rifilando loro parcelle esosissime mentre imboccano l’infermiera di Arancia meccanica. Di mio, mentre i miei coetanei sono invecchiati in quanto “arrivati” chissà dove, grazie alla mia “pazzia” equilibrata, sono ritornato bello come Tom Cruise? No, come Cooper. Cooper, chi? Gary o McConaughey della stronzata spaziale di Nolan succitata? Io sono l’agente Cooper di Twin Peaks. Sapevate che sarei tornato. La vostra scienza come se lo spiega? Mereghetti, invece, darà finalmente, prima o poi, quattro stellette dell’Orsa Maggiore a Figli di un dio minore?

Ora, se vogliamo scherzare, diciamo pure che sono un bambinone. Se vogliamo parlare seriamente, sono di un altro Pianeta e su questo non ci piove. Dunque, attaccatemi e deridetemi ma arriverà La guerra dei mondi. Arriverà il dolore! Evviva la fantasia più limpida e linda, evviva Steven Spielberg e il suo Cinema “infantile!”. Perché solo chi resta Peter Pan può amare alla follia la vita e il Cinema!

hook robin williams

A tutti gli altri, lasciamo il loro cinismo da vecchiacci, da ritardati, da gente che abbisogna di diagnosi e speculazioni deduttive per non rendersi conto di essere il nulla. Essi vivono o essi sono un immane buco nero? Ricordate: il buco va riempito! Ah ah.

Stephen Hawking non poté, io sì.

 

di Stefano Falotico

JOAQUIN PHOENIX vincerà l’Oscar per il suo JOKER? Paolo Mereghetti invece perché si sente Kyle Chandler di The Wolf of Wall Street?


02 Sep

Joaquin+Phoenix+Joker+Photocall+76th+Venice+O8eGNcizmPXlfallo

Eh già, caro Paolo Mereghetti.

Lei fa sempre così. Rimane, come si suol dire, sul chi va là e puntualmente, come un orologio svizzero, più di tanto non si sbilancia.

D’altronde, lei è un moderato. Credo che appartenga al partito democratico. Dunque, capisco bene le ragioni politico-editoriali che devono averla indotta a scrivere testualmente quanto segue:

La regia prende a piene mani dal cinema di Scorsese («Taxi Driver», «Re per una notte»), tira in ballo con una certa superficialità la psicoanalisi e le rabbie antisistema dei poveracci, ma gli attori sono superlativi. E se Joaquin Phoenix è da Coppa Volpi, Robert De Niro nei panni del conduttore televisivo sfodera tutta la sua arte.

Sì, concordo su De Niro. In pochissimi, me compreso e chiedo venia, citarono Bobby nelle loro recensioni.

Io, a dir il vero, lo citai eccome ma forse non sottolineai adeguatamente la sua caratura carismatica.

Un ruolo minore quello di Bob ma recitato con timing e una presenza scenica da veterano espertissimo.

Un ruolo assai breve ma incisivo e, come si suol dire, centrale. Fulcro nevralgico della pazzia di Fleck.

Mereghetti però che mi scrive?

Innanzitutto, come già detto, non s’è lasciato andare al facile entusiasmo. Semmai, quando redigerà il suo nuovo Dizionario, a Joker le stellette alzerà. Al momento, lei vuole tastare il terreno e s’è mantenuto piuttosto cauto. Anzi, perfino ha azzardato a rimarcare che la deriva, diciamo, populistica del finale non poco l’ha insoddisfatta.

Sì, alla fine o, per meglio dire, nel pre-finale, Joker si ribella furentemente. E diventa l’idolo di Gotham City, celebrato come un eroe coraggioso. Innalzato in gloria dalla gente poco vanagloriosa che brinda ed esulta dinanzi alla forza spaventosa di questo Fleck. Il quale, dopo troppi patimenti e struggimenti, dopo una melanconia mostruosa, dopo tanta crudeltà subita e tanta sua innocenza scalfita in modo ripugnante e imperdonabile, anziché piegare la testa, abdicando al sistema che lo vorrebbe relegato a vita in un centro di salute mentale a prendere le direttive di una psicanalista assai arretrata e bigotta, eh già, piuttosto che assumere psicofarmaci compressivi che eternamente, sin al giorno della sua morte, castigherebbero la sua libido, rendendolo ancora più depressivo, furiosamente divora ogni ipocrisia d’un mondo popolato da stupidi e ottusi miserabili.

Non chiede scusa a nessuno, riconosce di essere sempre stato poco adatto a un mondo ove la preoccupazione dei genitori è quella di avviarti a un lavoro cosiddetto appagante e stabile che possa garantire ai figli quell’illusoria, piccolo-borghese parvenza di felicità giustamente disprezzata e stoicamente denigrata da Pier Paolo Pasolini.

Sì, è lunedì, quindi forse martedì.

Ricordate, figlioli, Essi vivono…

Obbedite dunque a questa società dei consumi ove il valore pro-capite d’ogni singolo individuo non corrisponde affatto alla validità della sua anima connaturata alla bellezza variegata dell’essere noi tutti diversi.

Sì, ciò che importa alla società non è la nostra vera felicità, bensì la maschera appunto sociale travestita da bugiarda dignità.

Dunque, trovi tuo nonno che aggeggia col cellulare, oh, ti casca l’occhio e noti che lui sta guardando un porno.

Ma lui ti risponderà che lo vide solo per curiosità. Come no…

Sì, cosicché se sei una persona affetta e afflitta, si fa per dire, da emozionali alterità, stai tranquillo che sarai emarginato a volontà. Ti diranno pure che non sei sufficientemente volenteroso e che è doveroso che tu non ti sia meritato niente. Sei un mentecatto! Sì, sarai maltrattato da malato di mente. Sarai inviso alla gente, sarai odiato dai coetanei poiché in quella compagnia del cazzo tutti hanno il tatuaggio tamarro e tu invece stai con una ragazza che mangia solo il formaggio.

Sei un topo, un ratto!

Poiché non hai leccato nessuno, non hai mai creduto alla retorica qualunquistica, hai davvero pensato come gli studenti de L’attimo fuggente che non si è brave persone se di professione s’è medici o avvocati.

Sì, il mondo è violentissimo.

Dunque, se come Todd Phillips avrai le palle di girare un film cattivissimo come Joker, uomo senza pelle, troverai il Mereghetti di turno che ti punzecchierà, ammonendoti.

Sì, Il Corriere della Sera paga a Paolo l’albergo al Lido e, per le poche righe di sua recensione scritta col cu(cu)lo, Paolino è capace che prenda 100 Euro a botta.

Dunque, polemico, borbotta, tirandosela da gran signore che odia quelli che sbracciano e fanno a botte.

Ma mi facesse il favore!

Fa il moralista ma mi piacerebbe vedere Paolo, fra qualche anno, ridotto come Clint Eastwood di The Mule.

Te lo do io Il Corriere.

 

di Stefano Falotico

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Secondo Paolo Mereghetti, gli Oscar andavano assegnati a questi anziché…


07 Mar

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Nel suo consueto editoriale, il celeberrimo Mereghetti, trovandosi molto in disaccordo con le ufficiali decisioni dell’Academy, ha espresso la sua.

Sostenendo che il miglior film, dunque da premiare, è stato Vice e Christian Bale è stato decisamente superiore a Malek.

D’accordo invece con l’Oscar dato alla Colman. Asserendo ciò… mi sembra incontestabile il premio dato a Olivia Colman per la sua regina Anna in La favorita: anche qui, grande lavoro di trucco, ma senza una grande attrice il risultato non sarebbe stato così perfetto e convincente (e a chi dice che «bisognava» premiare Glenn Close per le troppe delusioni ricevute in passato, vorrei ricordare che il premio le andava dato nel 1989 per Le relazioni pericolose e non quest’anno per il mediocre Wife: gli Oscar devono premiare la bravura, non essere riconoscimenti tardivi, come è toccato sopportare a Paul Newman o Martin Scorsese).

Qui, ha ragione, l’Oscar a Newman per Il colore dei soldi di Scorsese e l’Oscar stesso a Scorsese per The Departed sono due contentini stupidi.

Poi però se ne saltato con questa… ovvero che Andy Garcia di The Mule andava premiato al posto di Mahershala Ali.

Ma come? Innanzitutto non è stato candidato e poi compare dieci minuti.

Ah Paolo!

 

di Stefano Falotico

The Post di Steven Spielberg secondo Paolo Mereghetti (il coraggio di Meryl Streep editrice che anima una grande inchiesta)


16 Jan

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È la macchina da presa di Spielberg che giuda l’occhio (e il cuore) dello spettatore

Una storia che ne racconta due: quella di una stampa che vuole essere libera di fare il proprio mestiere senza preoccuparsi degli interessi del Potere e quella di una donna che cerca la propria voce in un mondo tutto di maschi. A raccontarle è Steven Spielberg con The Post, il film che ricostruisce i giorni del 1971, in cui Katharine Graham (Meryl Streep) si trovò a scegliere quale futuro voleva per l’industria di famiglia. Cioè la casa editrice che pubblicava il Washington Post e che si era trovata a dirigere dopo il suicidio del marito.

Il nodo del contendere è il diritto a pubblicare i cosiddetti Pentagon Papers, cioè le migliaia di pagine che l’ex Segretario della Difesa Robert McNamara (Bruce Greenwood) aveva fatto redigere — e secretare — per ricostruire la politica americano in Vietnam, che dai tempi di Truman e Eisenhower e poi di Kennedy e Johnson aveva nascosto la verità sull’intervento nel Sud Est asiatico. E che Nixon, alla vigilia della sua possibile rielezione nel 1972, continuava a usare per nascondere la tragedia in cui mandava a morire migliaia di giovani. Il film, però, non racconta come la stampa entrò in possesso di quei materiali. O meglio, per farlo se la sbriga in poche scene iniziali, quando mostra Daniel Ellsberg (Matthew Rhys), che dopo essersi reso conto delle falsità divulgate dalla politica decide di fotocopiare le 7mila pagine del rapporto: le fa avere, in parte, al New York Times innescando la gelosia professionale del direttore del Washington Post, Ben Bradlee (Tom Hanks), deciso a trovare l’integralità dei documenti per pubblicarli.

È a questo punto che la sceneggiatura (dell’esordiente Liz Hannah, poi rivista da Josh Singer, premio Oscar per Spotlight) si «biforca», affiancando al coriaceo direttore del giornale di Washington la sua inesperta proprietaria. Anzi, se l’inchiesta giornalistica è più appassionante anche scenograficamente (come si lavorava nel 1971: le macchine da scrivere, i telefoni a gettone, le linotype, i pedinamenti, i trucchi del mestiere), il vero nodo del film è il percorso dell’editrice che deve decidere che cosa fare e che cosa pubblicare. Non solo perché Nixon fa di tutto per fermare i giornalisti, ma perché fino ad allora i rapporti tra stampa e potere erano stati molto opachi, specie per una donna come Katharine Graham abituata a frequentare presidenti e senatori.

Spielberg si trova così a dirigere una serie di incontri riservati nella casa della Graham o negli uffici del Post, scene a due o a tre dove il rischio della staticità e della fissità è altissimo. Le evita con una macchina da presa mobilissima che mette spesso al centro proprio lei, prima titubante e afasica e poi sempre più determinata e decisa. Certo, la Streep è grandissima nel restituire i tentennamenti e i dubbi del suo personaggio e riesce persino a farci sentire i suoi pensieri e i suoi dubbi senza proferire parola. Ma è la macchina da presa di Spielberg che giuda l’occhio (e il cuore) dello spettatore, all’inizio schiacciando la Graham dall’alto e poi facendola risorgere vincitrice con riprese dal basso. Attribuendole quell’importanza che i suoi consiglieri maschi non sono disposti a riconoscerle, ma che invece faranno le altre donne (la moglie di Bradlee, le militanti pacifiste all’uscita dell’udienza in tribunale). In questo modo anche Tom Hanks si ritaglia un ruolo che non è solo quello del super-giornalista ma piuttosto di un testimone maieuta, che accompagna e favorisce la presa di conoscenza e la crescita politica della sua «controparte». Preparando il giornale a quello che sarà il successivo scoop del Washington Post, l’affare Watergate.

Paolo Mereghetti esalta Blade Runner 2049


05 Oct

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«Blade Runner 2049», il mondo dei replicanti diventa vertigine filosofica

Il fascino di dilemmi esistenziali nel meta-sequel con Ford e Gosling

Bisognerebbe introdurre il termine «meta-sequel» per sintetizzare al meglio questo nuovo capitolo cinematografico di Blade Runner ambientato nel 2049, che continua la storia iniziata nel 1982 (ma ambientata nel 2019) dal film di Ridley Scott, con tanto di ritorno in scena del suo protagonista Rick Deckard (sempre interpretato da Harrison Ford), ma lo fa con un altro atteggiamento, più filosofico che fantascientifico, quello che appunto spiega l’aggiunta dell’apposizione «meta». Soprattutto lo fa recuperando in pieno la lezione del romanziere all’origine di tutto, quel Philip K. Dick che con i suoi libri aveva allargato i confini del cinema di fantascienza aprendolo a vertigini metafisiche fino ad allora inedite.

E di vertigini sarebbe giusto parlare per il protagonista di questa nuova «puntata» diretta da Denis Villeneuve (sempre sceneggiata da Hampton Fancher, stavolta insieme a Michael Green), un replicante della polizia di Los Angeles, l’agente K (Ryan Gosling), incaricato di terminare i replicanti delle generazioni precedenti, quelli che non accettano di essere condannati a una fine certa e sognano invece una vita simile a quella umana. Un «essere» che deve eliminare altri «esseri», secondo la più perfetta logica del profitto perché i replicanti sono robot umanizzati creati per alleviare i compiti degli uomini veri. Da terminare quando non accettano più le mansioni per cui erano stati costruiti. Ma proprio durante la missione che apre il film, il replicante «buono» scopre che il replicante «cattivo» nasconde un segreto che finirà per mettere in discussione la vita dello stesso poliziotto e più in generale i rapporti di forze tra umani e replicanti.

In qualche modo era la stessa storia alla base del film di trentacinque anni fa — la scoperta della propria identità — ma là declinata con una più attenta scansione del ritmo e dei colpi di scena. Qui invece Villeneuve sembra preoccupato soprattutto di scavare dentro le pieghe filosofiche (altro aggettivo non si adatta meglio) di un mondo che interroga l’uomo sui limiti e le specificità della propria umanità. Nel primo film Deckard finiva per chiedersi quale fosse la sua vera «anima» — umana o replicante — in questo sappiano da subito che K è un replicante e che, come le dice la sua sadica superiore (Robin Wright), lui un’anima non ce l’ha. Ma i misteri della natura umana non si possono ridurre a differenze così schematiche e i 163’ del film si incaricheranno di spiegarcelo.

Per farlo, il regista sceglie uno stile rarefatto e ipnotico, che chiede di abbandonarsi a un percorso che recupera il ricordo dell’opera precedente ma lo adatta alle nuove esigenze. Così per esempio, lo spettatore più avvertito riconoscerà alcune delle note alla base della celebre colonna di Vangelis, che quasi immediatamente vengono snaturate da sonorità meno romantiche e orecchiabili (di Benjamin Wallfisch e Hans Zimmer). Anche le citazioni visive si sprecano (Gosling alla fine avrà le stesse tumefazioni e la stessa fasciatura alla mano con cui Harrison Ford chiudeva il film del 1982), ma con una carica metaforica ben più forte di quella puramente cinefila. Come se sulla spinta della riflessione di Philip K. Dick, Villeneuve volesse mettere in discussione non solo il personaggio al centro della storia ma tutto l’universo digitale in cui si muove il film. Il 2049 cui fa riferimento il titolo è il mondo in cui la realtà virtuale ha ormai preso il posto di quella reale, dove si possono sostituire i volti delle donne con quelli delle amanti preferite, dove gli idoli del passato possono tornare ad allietare la solitudine dei vecchi fan (sono tra le scene più belle quelle in cui si vedono «tornare in vita» Elvis, Marilyn e Sinatra), ma dove alla fine il piacere più grande e intenso è quello di sentire la pioggia che bagna le mani o la neve che accarezza il viso.

All’inizio del film una didascalia del regista invita gli spettatori a non svelare i colpi di scena della storia, ma bastano le sigle delle case di produzione (Sony/Columbia, Alcon) disturbate dalle interferenze magnetiche a farci capire che il futuro digitale che dovrebbe sostituire il mondo reale inizia a sgretolarsi. E non solo perché i replicanti non vogliono più accettare le regole che i loro creatori hanno imposto.

 

Norman con Richard Gere secondo lo scrupoloso Mereghetti


27 Sep

Una recensione magnifica.norman_modefffrajjt_rise_still-km-U43370631839154e8B-1224x916@Corriere-Web-Sezioni-593x443

Non è un personaggio simpatico Norman Oppenheimer, il protagonista di L’incredibile vita di Norman. È appiccicaticcio, invadente, ai limiti dell’untuoso. Veste senza eleganza, con quella borsa sempre a tracolla, la coppola calcata in testa, la sciarpa a ripararlo dal freddo newyorkese. Anche i capelli sono troppo lunghi, lontani dai tagli alla moda. A noi italiani può ricordare certi personaggi di Sordi, con la loro contagiosa sgradevolezza, che ti fanno star male perché intuisci i loro errori, che stanno per ficcarsi in un pasticcio o in un vicolo senza uscita. E forse non è un caso che la strada che porta alla sinagoga dove ogni tanto si rifugia Norman assomiglia a un vicolo cieco… Curioso scegliere un personaggio così come eroe di un film, perché invece dell’empatia scatta la voglia di tenerlo a distanza. E all’inizio del film sembra quasi che la regia di Joseph Cedar si diverta a farci vedere solo le sue gaffe, i suoi vani sforzi, le mancanze di tatto e di sensibilità: l’approccio nel parco, disturbando chi sta facendo jogging; il pedinamento dell’uomo politico israeliano in missione newyorkese grazie al quale vorrebbe accreditarsi nel mondo della finanza ebrea; il disprezzo con cui viene allontanato da una cena dove ha cercato di intrufolarsi.

Che ci fa Richard Gere in un personaggio così? Eppure, dopo un po’ le cose cambiano, il film (e con lui il personaggio) prende un altro ritmo, la storia si fa più accattivante e L’incredibile vita di Norman svela quello che nascondeva: una riflessione senza infingimenti ma anche senza pregiudizi sul mito dell’«ebreo cortigiano», il suo bisogno di prodigarsi per gli altri perché così trova giustificazione ai propri occhi per la propria ambizione e la propria natura, vertiginoso aggiornamento del monologo shakespeariano («Sono un ebreo. Ma non ha occhi un ebreo? Non ha un ebreo mani, organi, membra, sensi, affetti, passioni?» con tutto quel che segue) ai tempi della finanza e della politica. E la prova di Richard Gere cresce esponenzialmente, come quella di un piccolo, moderno Shylock, la cui tragicità non discenderà più dal confronto con la freddezza della giustizia o con la sete di vittoria (come invece fanno i suoi «nemici»), ma piuttosto dalla capacità di superare proprio quelle tentazioni con un gesto di generosità che fino a quel punto non avresti immaginato. Ancor più folgorante perché acceso da un inaspettato ribaltamento, capace di illuminare retrospettivamente e positivamente le tante ambiguità che si erano accumulate prima.

Non può essere un caso che il protagonista si chiami Oppenheimer come Joseph Süss, quell’ebreo Süss, che aveva catalizzato su di sé tutto l’antisemitismo possibile. Così come non è un caso che la storia, sceneggiata dallo stesso regista, si svolga per la maggior parte all’interno del mondo della borghesia ebraica newyorkese, concentrato quintessenziale delle aspirazioni che Norman insegue e che vedrà realizzarsi «troppo» tardi, dopo aver sopportato ogni tipo di umiliazione e di disprezzo. Perché la forza del film, e la sua giustificazione, è anche nell’aver evitato ogni possibile schematismo morale: chi sono i «nostri»? dove sta il «bene»? Il film evita persino di porsi la domanda, concedendosi solo un paio di privatissime confessioni sul bisogno di credere nella bontà delle persone, piccoli cedimenti segreti di cui in pubblico ci si potrebbe vergognare ma che nel silenzio di una camera d’albergo o in un’ultima telefonata possono trovare la forza di farsi sentire.

Per il suo primo film in lingua inglese, il regista Joseph Cedar (che è nato a New York ma è cresciuto a Gerusalemme e che fino a ora aveva girato solo in lingua ebraica) non ha voluto far sconti a nessuno, né al ricco mondo della finanza, né a quello non meno astioso della sinagoga né tanto meno a quello della politica (alcune scene si svolgono nella Knesset, a Gerusalemme). La storia, i personaggi gli servono per raccontare quel mondo identitario ma anche aspirazionale e insieme totalitario — l’universo dell’ebraitudine — che tutto pensano di conoscere e che forse nessuno, nemmeno gli stessi interessati, conoscono veramente e che l’«incredibile vita» di Norman racconta con sensibilità e originalità.

Domani, sull’allegato del Corriere della Sera, l’intervista a Robert De Niro e allo scrittore Stefano Falotico, anteprima…


12 Jun

max

Anzi, intervista completa solo al Falotico. Che comparirà anche su Max, la rivista per uomini “duri”.

 

1. Bene, come sta?

– Bene, grazie, non prego, non credo in Dio, lei come sta? Prega?

– Bene, prego, no grazie.

– Gratis et amore?

2. Come è iniziata la sua carriera di letterato?

– Quasi per caso. Scrissi infatti qualcosa a caso, anche a cazzo.

Ma parliamo di altro, anche di alito, non solo di cose alte.

3. Ok, crede nell’esistenza degli alieni?

– Credo negli alienati. Ogni alienato ha le sue buone ragioni per essere alieno al mondo.

4. Lei si vanta di avere avuto più di mille donne, è vero o è un’esagerazione della stampa scandalistica?

– La verità è che le donne sono attratte dal mio cervello, non dal mio uccello.

5. E quindi, ha un rapporto conflittuale col gentil sesso?

– No, non sono gentili, sia cortese. Non amano i miei “sgarbi”. Diciamo che il mio rapporto con “esse” non è conflittuale ma inesistente. Eppur ne godo.

6. Cioè?

– Mi masturbo. La masturbazione, pratica ingiustamente condannata dalla Chiesa cattolica, richiede concentrazione, cura “orientale” nei dettagli, prima di eseguirla bisogna respirare profondamente. Solo così si può “ascendere”.

7. Io sapevo che era corteggiato da molte donne, invece.

– Sì, mi corteggiano ma sono un cesso. Infatti poi mi mandano a cagare. Pensare, che ci sono quelli che vanno matti se le donne pisciano loro in testa.

8. Dunque lei non ha problemi da quel “punto di vista”…

– Quale sarebbe il punto di vista?

– L’ammosciamento, lei, non praticando, non incorre in questa problematica che, come sappiamo, affligge nove uomini su dieci.

– No, solo pene…

9. Ci può parlare dei suoi progetti futuri?

– Innanzitutto, come le dicevo, essendo un onanista incallito, per stasera mi aspetta un “video” in streaming. E devo sceglierlo per non “sbagliare” il “colpo”. Bado molto alla quantità e non alla qualità, il mio stato d’intellettuale “integerrimo” ne risente, ma so rialzarlo subito, cioè, volevo dire, riprendermi da dove avevo interrotto. Sì, il coitus interruptus…

10. Non faccia lo spiritoso. Davvero, qual è la sua bucket list?

– Come le dicevo, pensare al “bucato” e poco a “bucarle”. Ma tornando a “cosce” più serie, sono stato ingaggiato per il prossimo film di Scorsese, The Irishman, interpreterò il guappo Gustavo Macedonia, uno che viene assassinato appena cerca di mettere le corna al protagonista.

11. Tornerei alle donne. Sia serio. Mi parli di come fa…

– Non faccio, fanno tutto loro. Appena mi vedono, mi saltano addosso.

– Per coprirla di baci?

– No, per coprirmi di merda.

12. Suvvia, la sua fama di sciupafemmine è arcinota. Dica il vero, usa anche lei qualche volta il Viagra?

– So che non uso i Viados.

13. Se dovesse fare un sunto del suo percorso artistico, quali sono tre aggettivi per descriverlo?

– Ostinazione, testardaggine, perseveranza.

– Un tipo combattivo, dunque, non molla mai.

– No, mollo eccome. Scoregge di gran sapore.

14. Io sono fissata con le donne, mi scusi. Amano molto la sua testa.

– Sì, ma dicono che non ho palle. Eppur rimango un loro pallino. Di mio, so che da piccolo ero allergico al polline e leggevo la favola di Pollicino.

15. Per concludere. Quando la rivedremo all’opera?

– Domani sera. Vado a vedere l’opera omnia di Giuseppe Verdi a teatro. Insomma, sono io uno “spettacolo”.

 

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Sui Corrieri delle Sere, leggo oscenità su De Niro e il suo tocco magico da Re Mida, minchia


14 Jan

Ma costui è impazzito? Ma che film ha visto di De Niro? Solo quelli in cui fa il boss, e non solo sotto stress? Ah ah, rido e piango.

Caro Beppe, finalmente Robert De Niro ha perso il “Midas touch” che lo ha sostenuto per gran parte della sua prolifica carriera. Sono ormai anni che non riesce a convincere nessuno, nemmeno i suoi piu’ afferrati adulatori, quelli che lo hanno seguito da sempre. Ma non e` anche vero che questo mediocre interprete di film di dubbio gusto, deve esser visto per quello che e`: solamente come Robert De Niro? Non esiste una sua interpretazione in cui non appaia come il De Niro di turno. Grazie al genere criminale, e` riuscito negli anni ad accaparrarsi milioni di dollari e milioni di fans, attratti fuori misura dalla cultura mafiosa italoamericana. Non ha forse in passato l`americana “OSIA”, Order Sons of Italy in America, cercato di convincere il governo di Palazzo Chigi, di desistere dall`idea di offrire all`attore americano il passaporto italiano? Cos`ha di italiano Robert De Niro? Con nonni italiani ed irlandesi da parte di padre, ed ancora: tedeschi, irlandesi, inglesi e francesi da parte di madre, di bianco rosso e verde rimane ben poco. Non parla la lingua di Dante, e a dispetto delle sue frequenti visite nel Bel Paese, sempre organizzate da questo o quell`altro sindaco in cerca di pubblicita`, a lui dell`Italia importa pochissimo. I suoi film hanno danneggiato negli anni la nostra reputazione, come anche quella degli italoamericani. Infine, costruendo la sua carriera con brutte interpretazioni, dove si identifica sempre come il “super gangster” di origine italiana, ha distorto il ritratto di migliaia di nostri connazionali, non facendo nulla per promuovere la cultura del nostro paese.

Rimango sconvolto.

 

George Clooney attacca tutti, io glielo stacco, attaccando il bugiardo al muro con tanto di chiosa, senza buonismi da chiese ma di chiodo! Inchinati, cheto pietà chiedi!


13 Nov

Da Il Corriere della sega di George:

L’armonia nel massimo campionato degli attori a Hollywood è finita: a rompere la quiete del buon vicinato nell’industria cinematografica è stato George Clooney. Se finora l’attore si è sempre trattenuto dal criticare i colleghi divi, stavolta è stato un fiume in piena. Tanto da stupire gli osservatori più disincantati. Il colpo più duro lo ha sferrato a Russell Crowe.

«UN VENDUTO» – Sogghigna con Brad Pitt, passeggia mano nella mano con Julia Roberts o sottobraccio con Sandra Bullock: George Clooney – è cosa nota nella terra dei sogni cinematografici planetari – è «l’amico di tutti». Mai una parola fuori luogo, mai una critica esplicita, né davanti, né dietro la cinepresa. Cambia compagna una volta al mese, ma le sue amicizie restano ben salde, da anni. Tuttavia, il 52enne è pure capace di altro. Ha detto basta alle buone maniere e con un’intervista a “Esquire” ha buttato giù dalla torre alcuni colleghi superdivi del grande schermo. Ha raccontato dell’alterco col Gladiatore Russell Crowe. Ad iniziare sarebbe stato l’attore neozelandese naturalizzato australiano, sostiene Clooney. La lite tra i due era iniziata qualche anno fa da un commento poco lusinghiero di Crowe che, facendo riferimento ai diversi ingaggi pubblicitari del collega, lo aveva definito «sellout» («un venduto»). Da allora i due si sono dichiarati guerra.

GUERRA E PACE – «La verità è che Crowe mi ha spedito un libro di poesia in segno di pace, ma è stato lui ad attaccarmi per primo. Non so perché si sia accanito contro di me. Ha acceso la miccia affermando: “George Clooney, Harrison Ford e Robert De Niro sono dei venduti”», ha spiegato la star di Gravity alla rivista americana. Clooney si è inoltre preso gioco delle velleità musicali del collega che canta nella band 30 Odd Foot of Grunts. «E poi ho detto in una dichiarazione – ironizza Clooney – “Probabilmente ha ragione e sono contento che ci abbia detto questo, poiché Bob, Harrison ed io avevamo proprio l’intenzione di formare una band”». George Clooney, però, pare inarrestabile e affonda il coltello: «Ma chi pensa di essere quel ragazzo? È un aspirante Frank Sinatra. Mi ha davvero scocciato!». Ciò nonostante, sarebbe in atto un tentativo di riconciliazione: Russell Crowe avrebbe spedito al collega un Cd in segno di pace. «Ha detto che hanno travisato il suo discorso», ha spiegato Clooney.

QUEGLI AMICI DI DICAPRIO – Clooney ha poi confessato di non aver un buon rapporto nemmeno con Leonardo DiCaprio, benché i due non si conoscano molto bene. Clooney ha raccontato un aneddoto poco piacevole accaduto durante una partitella a pallacanestro: non ha per niente apprezzato il tifo da stadio e le urla screditanti degli amici di Leo seduti in tribuna. «La discrepanza che c’era tra la qualità del suo gioco e i commenti fieri dei suoi amici al riguardo mi hanno ricordato quanto è importante avere qualcuno nella vita che ti dice la verità», ha sentenziato Clooney. «E non sono sicuro che Leonardo abbia qualcuno così vicino a sé», ha aggiunto. Quella partita era stata vinta dalla squadra di Clooney per 11 a 0. Solo complimenti, invece, per l’amico Brad Pitt: è senza dubbio l’attore di maggior successo al mondo, anche se cerca sempre di essere la «versione più modesta di Brad Pitt. Ho una grande ammirazione per lui», dice Clooney. Frasi che sembrano riportare di nuovo un po’ di armonia nel mondo di Hollywood.
Finalmente, Clooney si è rivelato lo stronzo che ho sempre sospettato

Da anni, sostengo che sia un puttaniere. Per sua stessa ammissione, hai i testicoli rifatti col lifting di questo cazzo. A praticarglielo, fu un chirurgo plastico che apportò, inclusa la fattura del taglio detto riporto (sì, Clooney ha il parrucchino col ciuffo coprente nel brizzolato di alopecia soffusa alla tinta color nero pece ingrigito che fa più figo maturo simil feci), varie parti del culo. Da cui la sua faccia simpatica quanto un deretano.

La finisse questo bauscia da Lago di Como a far la vita comoda. Ha veramente rotto. Un ex da Elisabetta Canalis. Non scordiamocelo mai e poi mai. Elisabetta io affogherei nel Canal Grande in apertura del Festival di Venezia.
Così, sommersa, imparerà a non schizzare di troppe umidità da sventolata con risotto in gondola. Ecco la passerella!

La finisse questo culetto di far il bello e il cattivo Tempo. Prevedo precipitazioni alla sua testa, e non sarò variabile di nervi, compresa la neve di un effetto va(la)nga se non accetterà la mia ver(g)a. Sono lo Yeti, stai attento.
Sei cascato nella mia rete e non in quelle delle tue donnine che usi come paravento della tua omosessualità incipiente eppur celata. Te lo gelo io.

Ecco il salto di quaglia, mio George di qualità. Poi, te lo prendo nel popò e ti porgo un identico sorriso paternalistico. Sì, sei rassicurante come un buon papà, pappone.
Ma io non credo al Papa e dunque ti castro, ti rendo un bimbo da liofilizzato, te lo infil(z)o e magnati questa pappina.

Che zuppa eh?

Testa di zucca!

 

Genius-Pop

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